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Io e Amore del Cuore siamo specializzati nei viaggi con difficoltà climatiche.  Dobbiamo andare a Oslo? Andiamoci a dicembre, che c’è un freddo polare e viene buio alle 14.38. Un weekend a Praga? Va benissimo, ma solo con un’alluvione in corso. Berlino? Fantastico, c’è addirittura una bufera di neve! Saliamo in cima a una torre nella ridente città di Lucca? Perfetto, ma aspettiamo un attimo, che questo qui non mi sembra mica un temporale serio. Miami? Rigorosamente ad agosto, con 50 gradi e un’umidità tipo passato di verdura.
Dopo tutte quelle intemperie lì, un giro a Firenze per il ponte del primo maggio ci sembrava assolutamente innocuo, da un punto di vista puramente meteorologico. Perbacco, in Toscana a maggio, cosa mai potrà capitarci? E invece no. Rovesci furibondi, vento, pozzanghere d’ogni foggia e dimensione. E noi là in mezzo, a combattere il monsone con un ombrellino rosa. Ma c’è un altro ma. Perché il problema della pioggia, quando decide di abbattersi su una città d’arte, è quello che fa alle persone.
Perché il turista non reagisce alla pioggia in modo normale. Il turista non gestisce le precipitazioni come fa a casa sua. Il turista non si accontenta di un ombrello, ma manco per niente. Il turista vuole il PONCHO DI PLASTICA FOSFORESCENTE.
Divinità celesti, ma perché!
Io vivo a Milano. Si mette a piovere? Pazienza, affronto Milano con un ombrello. Non dico che prendere dell’acqua mi faccia piacere – e magari un po’ di spray impermeabilizzante in più (fantomatico prodotto-placebo) ce lo potevo pure spruzzare, sui miei fragilissimi stivalini scamosciati di Twin Set con gli strass e i cuoretti belli -, ma non è che rincoglionisco di botto. Non rincorro un venditore ambulante, implorandolo di darmi un assurdo poncho fruscioso e svolazzante da esibire con fierezza mentre faccio la coda agli Uffizi, sgocciolando orrendamente addosso alla gente normale.
Nessuno a casa sua si riparerebbe mai dalla pioggia con un poncho, ma zero. Amore del Cuore ne ha uno nero per le emergenze da motorino,  ma spesso – pur di non perdere la dignità – preferisce infradiciarsi e ciao. E ha ragione lui, diamine.
La gente in vacanza perde il lume della ragione
. Madri di famiglia che pensano di dover scalare l’Annapurna e attraversano centri storici assolutamente innocui e civilizzati indossando tragici total-look Decathlon da campeggio amazzonico. Coi coltelli in tasca e una retina per le noci di cocco nello zaino. Padri che decidono all’improvviso di dover usare il marsupio. Bambini con la borraccia al collo. E il poncho, obbligatorio per tutti. Un indumento ingestibile, antiestetico e rumoroso, che ti fa somigliare a una tenda menomata e ti impedisce di utilizzare correttamente le mani. Più scomodo dell’ombrello (dove la metti quella roba lì, una volta che l’intemperia finisce di imperversare?), efficace solo se si sta fermissimi, imbecille oltre ogni misura, il poncho è – soprattutto – un vile inganno. Il poncho finge di essere divertente e sbarazzino, finge di voler partecipare alla gioia della vostra gita fuori porta. E voi, come degli sprovveduti suricati, pensate davvero che infilarvi un poncho sia un’idea spiritosa, un modo simpatico e sacrosanto di affrontare il maltempo senza incazzarvi come delle bestie, che avete un giorno di ferie ogni cent’anni e tutte le volte che uscite dalla vostra provincia di residenza vi grandina in testa. Il poncho lo sa, ecco perché finge di essere un brioso strumento d’evasione, un amichevole accessorio per le vostre scampagnate. Perché in vacanza si fanno delle cose diverse. Si fugge dal solito tran-tran. Qualche giorno di pace, a vedere dei bei posti, senza nessuno che vi rompe le balle.
Ed è un attimo.
Vi allontanate dal vostro habitat naturale, scendete dal treno, mettete i bagagli in albergo, vi assicurate di aver portato con voi le pastiglie per purificare l’acqua, date un’ultima occhiata alla cerbottana e addio, dopo mezz’ora siete già terreno fertile per i loschi intrighi del poncho antipioggia.

– Gennaro! Che ridere, ma l’hai visto quello là?
– Chi? Il coglione col poncho giallo?
– Mamma mia, ma lo vedi, ormai non ti si può dire più niente! È simpatico, il poncho. Siamo qua contenti, che visitiamo, che vediamo l’arte… se fosse per te vivremmo sul divano, in mezzo alle briciole.
– E che mi frega a me. Se lo vuoi pigliare, piglialo, il poncho. Tanto qui non ci conosce nessuno.

MA IL CIELO VI GUARDA. E PIANGE. E se il cielo piange, vuol dire che piove.
La pioggia è colpa del poncho. Il poncho fa apposta a insinuarsi nelle vostre giornate di villeggiatura. Lo fa per insultare il firmamento, nel tentativo di preservare le condizioni più adatte alla propria spregevole sopravvivenza. È un complotto plastificato.
Regolatevi, ora che conoscete la verità. Unitevi alla resistenza anti-poncho. Resistenza Anti-Poncho, per un turismo meno sciocco e più soleggiato.
Vai, che fra tipo cinque minuti ci sono anche le elezioni europee.

Spoiler?
OVVIO.
Beware.

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Leviamoci subito il pensiero.
È un film piacevolone? Ma certissimo.
Vi cambierà la vita? Ma proprio no. 
E quindi? E quindi guardatevelo con spirito giocoso, questo Spider-Man, che mica stiamo al mondo per patire. Mica siamo dei Peter Parker, con centosei cattivi da combattere ogni santa volta e un guardaroba estremamente limitato. Noi non scorgiamo il padre defunto della nostra fidanzata agli angoli della strada. Non dobbiamo lottare per farci la lavatrice da soli, che se no nostra zia May si accorge che siamo dei supereroi. Non abbiamo amici potenti che bramano il nostro sangue per guarire da una malattia di inaudita rarità che somiglia al drammatico incrocio tra la lebbra e la peste bubbonica. I nostri lanciaragnatele non si friggono e, superata con successo l’adolescenza, non sentiamo il bisogno di ricoprire di fotografie e metri di nastro adesivo le pareti delle nostre camerette. Non siamo nemmeno ingegneri elettronici col riporto e i pantaloni scappati. Oxford non ci telefona per regalarci una borsa di studio. Una cosa che, invece, forse saremmo capaci di fare anche noi – e senza un impiego alla Oscorp – è bloccare una centrale elettrica schiacciando semplicemente il bottone STOP, ma questo è un altro paio di maniche. Perché questo film è pieno di stupidaggini, ma bisogna un po’ prenderla come fa Paul Giamatti, in arte Rhino. Paul Giamatti si è divertito come un bambino, si vedeva proprio. C’è per sei minuti, ha questo fenomenale accento russo da barzelletta e devasta una decina di isolati con un camion pieno di plutonio, indossando una comoda tuta dell’Adidas da gangster dell’est e due chili buoni di collanazze d’oro. E tutto questo ancora prima di ricevere un’armatura a forma di rinoceronte corazzato.

Paul Giamatti On The Set Of 'The Amazing Spiderman 2'

rhino giamatti

Così, bisogna fare. C’è da buttarla in caciara, come c’insegna il prezioso Giamatti.
Perché Electro ha la faccia così gonfia? Le anguille fotovoltaiche erano forse piene di cortisone? Perché è così incredibilmente lento e rincoglionito? RHAAAAAAAAA, vi distruggerò perché non mi facevate posto in ascensore! MAAAAAAAAX, mi chiamo MAAAAAAX, come hai potuto dimenticarmi?
E Harry? Harry comincia ad ammalarsi e a riempirsi di croste nell’esatto istante in cui il suo augusto genitore, impareggiabile simpaticone, gli comunica che in casa loro c’è questo lieve problemino genetico. Prima non aveva niente – a parte l’hobby di covare invincibili rancori – e all’improvviso ALE’, morte che incombe e serpeggia, tra una giacchetta di sartoria e l’altra.
Anche Parker-padre, poi, è uno che fa le cose in grande. Per lasciarti in eredità una video-spiegazione lui non si accontenta di seppellirti una chiavetta in un contenitore ermetico, in un qualche posto segreto e sicuro. Una roba che si fa in due ore. No, per farti vedere un video lui ricicla un’intera stazione abbandonata della metropolitana, con tanto di treno-laboratorio che emerge dalle profondità della terra. E suo figlio si siede lì, guarda il filmato e tanti saluti, non gli viene manco in mente di farci qualcosa, con quelle gloriose tonnellate di attrezzature scientifiche. Che io non so, con zia May patisce la fame da quand’è piccolo… ma suo padre non poteva comprare un acceleratore di particelle in meno e lasciargli una valigia piena di soldi per vivere un po’ più decorosamente?
Ma soprattutto, QUANTO PIANGE SPIDER-MAN? Fateci caso, non c’è una scena in cui Peter Parker non singhiozzi. Piange, piange e piange. Piange perché vuol bene a sua zia, piange per la frustrazione, piange tutte le volte che deve fare qualcosa con Gwen – si lasciano e piange, la rivede e piange, limonano e piange -, piange perché la faccenda di Harry lo tormenta, piange nel diamine di treno-laboratorio, piange sulla schiena spezzata della sua fidanzata e per i cinque mesi successivi al suo funerale. Lui, semplicemente, piange. Piange quand’è in borghese e, sicuramente, piange pure nella maschera, con conseguenze di scomodità e appiccicatume che preferisco non prendere in considerazione.

spiderman garfieldHarry, ben ritrovato! Sono il tuo unico amico d’infanzia, non mi abbracci neanche?
Oh, ciao, Peter. E’ bello rivederti, ma sono in riunione. Se vuoi un abbraccio vai a chiederlo a tua zia.

spiderman electroMAAAAAAAAX! Friggerò i vostri ascensori! MAAAAAAAAAAAX!
Perché non m’avete fatto snello come il dottor Manhattan, perché!

spiderman garfield stoneFuori rido. Ma dentro, PIANGO.

spiderman goblinPerché non l’hai chiusa in un bunker, la tua fidanzata! Perché mi costringi a scaraventarla giù per una torre piena d’ingranaggi? Perché voi siete così tenerelli e io devo star qui con la faccia verde e una montagna di pustole bavose! Maledetti! 

La verità è che Andrew Garfield è troppo adorabile. E anche il suo Spider-Man è afflitto da questo insormontabile problema. Arrendiamoci: si può provare a prendere in giro questo film, ma non c’è niente da fare, è comunque uno spasso. E’ come quando Amore del Cuore cerca di sgridare Ottone von Accidenti perché butta in terra la macchina del caffè nel cuore della notte. Una volta è sceso dal soppalco per amputargli le zampe – zampe che Ottone utilizza per raspare forsennatamente su sacchetti, bottiglie, mobili e qualsiasi cosa faccia un rumore infernale… e sempre alle 4 del mattino -, ma poi me lo sono visto che risaliva la scala col gatto in braccio. “Ho provato ad arrabbiarmi, ma è troppo carino”. Ecco. Cosa gli puoi dire a uno che scrive TI AMO con le ragnatele sul ponte di Brooklyn, che ti guarda dalla cima di un palazzo mentre vai a mangiare immonde polpette coreane coi tuoi amici, che rischia la vita per attraversare una strada quando c’è rosso, perché tu sei dall’altra parte e lui è troppo travolto dai sentimenti per far caso a macchine, tir, cingolati e autobus? E’ uno che difende i bambini e i loro esperimenti di scienze dai bulletti del quartiere, per la miseria! I pompieri gli prestano il casco! Ed è così coordinato! E ci sono tutte le piccole gag simpatiche!
Insomma, io ci ho provato. Ma non posso vincere, quando si tratta delle chiappette d’oro di Andrew Garfield. E a me gli smilzi non piacciono neanche, figuratevi un po’.

michele mari roderick duddle tegamini

Dopo FantasmagoniaDi bestia in bestia, ho cominciato a pensare a Michele Mari come a una specie di destinazione turistica. Per la precisione, Michele Mari era diventato una di quelle grotte incredibilmente buie, ingarbugliate e interessanti che uno va a vedere quando è in ferie in qualche posto un po’ fuori mano. Quelle con un’escursione termica dentro-fuori di circa novemila gradi centigradi, le stalattiti e le stalagmiti che non smettono mai di crescere e ampi tratti ancora inesplorati, pieni d’acqua e assolutamente letali. In quelle caverne lì, che siano fatte di calcare o di chissà che altro, c’è sempre un sentierino calpestabile e moderatamente illuminato che serpeggia docile in mezzo a forme e strutture improbabili. A me, in quei posti, viene sempre in mente la roba da mangiare. Ci sono le formazioni sedimentarie a forma di cannelloni, ci sono quelle più grevi che sembrano dei mucchi di profiterole. E tutto sembra quasi innocuo, se per un attimo ti dimentichi che sei sottoterra, che c’è un freddo innaturale e che si scivola. O che dipendi dai quei quattro fari in croce puntati sul tuo sentierino, che sta in mezzo a chissà quali indicibili anfratti, in un labirinto di cunicoli, sale e abissi che mai potrai percepire nella loro interezza. La cosa peggiore, però, è sentire la guida che ti dice che là sotto c’è la vita. Al buio, nel silenzio più completo, ci sono delle cose vive.
Ecco. Michele Mari, per me, somiglia un po’ a un ecosistema sotterraneo di quel genere lì. Uno che scrive dei libri che se li apri in spiaggia viene nuvolo. E te rimani seduto sul tuo asciugamano e ti prendi il raffreddore, perché sei così travolto dalla meraviglia che ti dimentichi di metterti la maglietta.
…temo di aver rotto i coglioni con queste metafore. Anzi, come direbbe Salamoia, vi sto facendo venire uno scaciorbio, con le benedette metafore. E gli altri personaggi di Roderick Duddle gli darebbero ragione.
La Badessa, donna pratica e poco incline ai giri di parole, ordinerebbe al Probo di farmi sparire.
Il signor Jones, tanto per cominciare, mi metterebbe a servire ai tavoli.
Lennie non capirebbe che cos’è una metafora, ma forse mi regalerebbe un topolino morto da accarezzare.
Moriarty si approprierebbe dei miei pochi averi con un tortuoso ma impeccabile atto giudiziario.
Suor Allison, probabilmente, si alzerebbe le gonne.
Scummy commenterebbe con un laconico Yuk Yuk.
E Roderick? Roderick vorrebbe delle spiegazioni, credo. E un bicchiere di latte e qualche ossicino di gabbiano.
Ma voi, che magari siete personcine esigenti e ben abituate, potreste avere voglia di uscire dalle grotte – per quanto piacevoli e affascinanti – per mettere le mani su qualcosa di avventuroso, nobilissimo e perfettamente ingarbugliato, su una storia che sembra arrivata da lontano apposta per farvi divertire e per prendervi in giro. Dovrebbe venirvi voglia di leggere Roderick Duddle, secondo me, anche solo per annotarvi su un foglietto tutti i modi in cui Michele Mari sceglie di chiamarvi, o esigenti e sapidi lettori. Perché capita che uno scrittore, dopo un piatto di orecchiette salsiccia e ricotta, si diverta a inventare un romanzo d’appendice pieno di canaglie, equivoci, esecuzioni sommarie, intrighi, fortune contese, meretrici leggendarie, scarpe rotte, suore che vi menano con una spranga, cantine umide, strade costiere malfrequentate, gendarmi, avidi manigoldi, raggiri, bambini muti, scherzi della natura, polene e locande piene di scarafaggi. Imparerete un casino di insulti desueti, ammirerete la precisissima assurdità dell’intreccio e finirete per invitare qualche nuovo ospite ai vostri pic-nic. Perché Mari ha deciso di portare in vacanza tutti quanti i suoi mirabili mostri… e a voi conviene farveli amici, intanto che sono così di buonumore e villeggiano felici tra una pagina e l’altra di questo libro.

:3

P.S. se non siete tanto convinti – crastúmberli, com’è possibile! -, andatevi a leggere quest’intervista bella bella. C’è anche una mappa. E dove c’è una mappa, lo sanno tutti, c’è anche un tesoro.

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Succede che, di tanto in tanto, mi scambiano per una fashion blogger e m’invitano ai Press Day
. I Press Day sono quelle cose che te vai, ti mettono in mano un bicchiere di bianco e ti portano in giro per degli spazi allestiti con infinita carineria per farti vedere quello che i più disparati brand – e/o maison, stilisti, sartine di quartiere, designer, scarpari, case cosmetiche, ciabattini o multinazionali del lusso interplanetario – hanno intenzione di proporre per la stagione che verrà. Te vaghi, guardi tutte queste belle cose, fai le fotine artistiche e pensi, più che altro, che non hai i soldi per comprarti manco il tonno – se proprio non è in offerta -, figuriamoci i meravigliosi abitini rosa di Christopher Kane a forma di ventaglio. Quindi cerchi di non infervorarti troppo – si sa, poi, infervorarsi è da plebei, mica da fashion blogger altolocate -, ti rifai gli occhi, ti comporti al meglio delle tue possibilità e non tocchi niente. Io che vengo dalla campagna, però, ho visto degli animalini e mi sono subito invasata. E ho anche scoperto che la carta da parati è ancora di grande attualità, sempre che sia made in London, esosissima e palesemente arrivata su questa terra dal Paese delle Meraviglie.

 

 Perché esistono delle Puma assurdamente ricoperte di bestiole del bosco e di creaturine fiabesche piene di piume, codine poffose e pellicciotte dai colori pastello. Le nobilissime calzature, la Puma se le è fatte foderare da House of Hackney, che è questo brand britannico che produce arredamento superposh-artistico. Stampe meravigliose. Paralumi. Divani. Lampade a forma di pappagallo. Cuscini con le felci.
Ammazzatemi.

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E niente.
Gli animalini di House of Hackney, oltre a decorare milioni di cuscini che inonderei volentieri di lacrime e tazze che userei ogni secondo della mia vita – anche per mangiarci dentro la pastasciutta -, sono andati a finire anche sulle Puma più Puma. Me sono anche scritta i modelli: le Puma con i piccoli tassi, i pennuti inglesi e il gessato bianco e nero da splendidi squilibrati sono le Basket, le Slipstram e le R698. Usciranno con la collezione autunno/inverno – perdonatemi: FW14 -, quindi avrò ancora un po’ di tempo per gettare delle monetine di rame dentro a un secchio, nella vana speranza di accumularne a sufficienza.
E lo so, sono assurde.
Ma sono gloriose.
E quelle nere sono pure pelusciose-cinigliose!

 
 
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shushu che dorme

Sono una ragazza fortunata. Anzi, una BLOGGHER fortunata. Perché partecipate tantissimo. Mi mandate i cartoni della pizza (Taschen, mi leggi? È una ricerca iconografica di rara rilevanza! Facciamoci qualcosa, cavolo), mi girate link di una fuffosità impagabile, mi rammentate di mettere i ghiaccetti nel freezer e, soprattutto, vi piace farmi conoscere i vostri animali domestici. Sono meglio di San Francesco, ormai: nel tempo libero mi siedo lì e benedico le vostre bestiole da compagnia. Ho visto passare cani, innumerevoli gatti, pesci (quasi sempre morti), un paio di cavie e qualche uccellino. Mai al mondo, però, avrei pensato di imbattermi in un branco di cincillà domestici. Perché uno può decidere, un bel giorno, di pigliarsi in casa un po’ di cincillà. Ma così, all’improvviso. Butti la pasta, passi l’aspirapolvere, ti fai un caffè e ti prendi un cincillà, gli dai un nome e cominci ad amarlo di vero amore, mentre ti saltella attorno senza motivo. Affascinata oltre ogni immaginazione dagli imprevedibili cincillà di Chiara – http://www.laurachiara.com, dunque, ho deciso di intervistarla. Come sono i cincillà, nella vita privata? Che fanno? Cosa sognano? Sono scemi, sono intelligenti? Fabbricano allegria? Uno si fa delle domande, quando si imbatte in una Signora dei Cincillà. E sente anche il bisogno di inaugurare un nuovo capitolo-verità per la rubrica Gli animali ti guardano.
Procediamo dunque con l’intervista più utile del ventunesimo secolo.

I nostri omaggi, Chiara.
Partiamo dalle basi. Presentaci in maniera fulminea i tuoi cincillà.

Le creature in questione sono:
Shushu AKA Signore di Male Mobbido AKA Il Malvagigio AKA Tsathoggua AKA Dr Giuseppi Cicciomale Responsabile del Servizio Clienti.
Poi c’è Rinn che è la moglie adorata mentalmente labile.
Seguono il primogenito bellissssssimo di nome Mochi che è intelligente come un budino e la piccola molestissima Luz.

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Ma come è successo? Un cincillà è un acquisto d’impulso o è il risultato di un vasto e ben pianificato progetto-cincillà? Eri una bambina che desiderava dei cincillà (crudelmente circondata da compagni di scuola che chiedevano cagnolini e cocorite a Babbo Natale) o li hai scoperti in età più tarda?

Quando abitavo con i miei genitori c’era un orrendo incrocio di Yorkshire di nome Rudy dalle zampe lunghe e il pelo da punkabbestia che girava per casa. In teoria sarebbe dovuto essere il cane di mio fratello ma dopo una settimana dall’arrivo della sgraziata bestiola lui decise che dopotutto non gli interessava e anzi gli faceva ( giustamente) un po’ schifo. Quindi il “cane” divenne l’ ombra di mia madre.  Sviluppando una serie di nevrosi peculiari. La mia preferita è che Rudy non iniziava a mangiare se prima non gli si apriva e chiudeva la porta finestra. Non chiediamoci perché. Menti più brillanti hanno tentato di spiegare l’ arcano e hanno fallito. Per me post-adolescente rognosa barricata nella mia stanza la scelta di animaletto da compagnia era pertanto  ridotta a bestiole di piccolo formato.
Quindi partii dalle basi. Primo passo: criceto russo.
Poi una volta defunto il suddetto ho pensato: perché fermarsi al criceto grasso dalle guancine deformi (che pure regala grandi momenti di ilarità) quando c’è una bestia surreale come il cincillà? E così andai in un negozio e portai a casa Shushu. Senza avere la benchè minima idea di che cosa stessi facendo.
Questo accadeva dodici anni fa.
Poi vedendo Shushu sospirare nel tramonto e cercare di montare il mio peluche di marmotta gli procurai Rinn, contando sulla scarsa prolificità del cincillà in cattività. Fu AMORE a prima vista. Adorazione totale di quelle che noi tutte da adolescenti sfigate abbiamo sognato almeno una volta.
Dopo tre anni c’erano anche il bellisssimo Mochi e la molesta Luz.

bacinci

Quanto diamine costa un cincillà? 

Il cincillà costa sugli 80 euri. 100 se vuoi le varianti fighe col pelo di altri colori tipo beige e nero (no  purtroppo non li fanno in rosa e viola) MA quando porti a casa la prima creatura probabilmente finirai col sottovalutare il suo potenziale di danno.
Perché se non hai una gabbia grande come un box per il SUV in cui tenerlo, il cincillà necessità di sgranchirsi le gambette in giro. E le ridicole palle di pelo saltano come delle gazzelle.
A me nel primo anno Shushu costò:
300 euri di monitor del computer causa pipì e cortocircuito globale.
50 euri di riparazione stampante intasata da sostanze di produzione cincillesca.
Sostituzione di svariati volumi di libri e fumetti rosicchiati.
Sostituzione di vari cavi elettrici.
Le conseguenti svariate spese veterinarie per svuotare il topo intappato.

mochi

Come si divertono, le benedette bestiole? Condividono le abitudini dei roditori plebei – tipo correre sulla ruota, ammassare bambagia e imbottirsi le guance di scemenze – o prediligono divertimenti più altolocati? Tipo, non lo so, il badminton.

I cincillà (non per niente detti anche “gioielli dell Ande”) snobbano i divertimenti del roditore standard. Appena vengono liberati dalla loro gabbia-residenza corrono via ebbri di libertà e si nascondono sotto il divano. Per stanarli basta collocare sul pavimento oggetti potenzialmente letali se ingeriti, tipo gommapiuma, tubetti di colore, cavi in cui passa la corrente, sigarette e altre sigarette. Oppure oggetti di valore. Molto gradite le banconote. Da 50 euro in su. Ogni tanto colti da raptus di non si sa bene quale origine escono improvvisamente correndo da sotto il divano e rimbalzano su vari oggetti e mobilia prima di fermarsi con aria stupita. Altre volte girano la stanza curiosando alla ricerca di qualcosa da danneggiare. Immaginate un po’ dei gremlin carini come prima di aver mangiato dopo mezzanotte ma con la stupida  molestia dei gremlin brutti dopo la trasformazione.
La massima passione di Shushu, che più che un divertimento è una vocazione da capitano Ahab, è cercare di uccidere il mio compagno, incurante dell’ impari stazza. Sono anni che sta perfezionando la strategia che consiste nell’accerchiarlo (Shushu è talmente figo che è in grado di accerchiare da solo), recidergli i garretti e una volta steso a terra strappargli la giugulare. Confido che un giorno ci riuscirà.

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Fai del tuo meglio per descrivere la morbidezza sovrannaturale del cincillà. Insomma, come ci si sente a coccolare un cincillà?

E qui sta la fregatura. Perchè il cincillà ODIA farsi coccolare.
“Lasciami stare bruto con quelle mani che mi rovini il pelo!”
Puoi o ghermirlo senza pietà come un cono gelato e coccolarlo che lui lo voglia o meno fino a che divincolandosi come una trota salmonata non riuscirà a liberarsi, oppure fargli i grattini sotto il mento che gradisce assai. Da un paio di anni Shushu si lascia fare le carezzine sul suo morbidissimo e tondo pancione da Totoro. E questa si che è una soddisfazione.
Il pelo di cincillà è più morbido di una nuvola del mondo dei minipony.
La coda del cincillà che sembra super fluffy è tipo di paglia.

Capiscono qualcosa o sono stupidissimi?

La seconda.

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A livello pratico – domanda per gli amici a casa, come direbbe Barbara D’Urso – che cosa bisogna fare per accudire un cincillà?

Non abbassare mai la guardia. La scemenza autolesionista del cincillà è sempre dietro l’angolo.

Ai cincillà si fa il bagno o si portano a lavare in pellicceria?

Il cincillà per pulirsi il pelo si impana come una cotoletta alla milanese nella sabbia.
Non ho ancora avuto il coraggio di sostituirgli la pregiata sabbia di fiume di sticazzi in cui si rotolano con una secchiellata di glitter perché non ho ancora scoperto se questo possa in qualche modo essere dannoso ma non so quanto ancora potrò resistere. Se qualche veterinario leggesse e avesse LA RISPOSTA mi faccia sapere.
Se no comunque hanno avuto una vita lunga e piena… Ci sono morti peggiori che morire di glitter…
Nella pellicceria un giorno ci libererò Shushu e giustizia sarà fatta.

A parte tutto, un cincillà regala la felicità?

In dodici anni che bazzico i cincillà posso dire che non c’è stato un singolo momento, per quanto grigio, anche quando il lavoro, il parentado e la vita congiurano per farti avere un esaurimento nervoso, in cui guardandoli fare le loro cose sceme non mi sia trovata a sorridere.

:3
Lunga vita e prosperità.
Anzi, lunga vita e cincillà.

CompleLuz

 

captain america poster

Io non so perché mi vogliano così bene, i caroni di BadTaste. Ma me ne vogliono sul serio. E hanno il coraggio di pubblicare sul loro sito – che è una cosa seria, super professionale, ben documentata e piena di informazioni importanti, raccolte con amore e dedizione – una delle mie recensioni coi gridolini. Io li ho avvertiti: volete che fangirli? Fangirlerò, mettetevi al riparo. Ma loro non si sono scomposti, mi hanno portata a vedere l’anteprima di Captain America. The Winter Soldier e hanno accettato di buon grado le mie stupidaggini. E io sono improvvisamente diventata l’unica che può scrivere cento volte FIGATA in un pezzo per un posto così rispettabile.
Perché di FIGATA trattasi.

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Iron Man 3 vi aveva messo l’angoscia?
Thor. The Dark World era una stupidaggine colossale, nonostante la salvifica presenza di Loki?
Non temete, Steve Rogers ha deciso di salvare la situazione. L’unico Avenger che m’è sempre sembrato palloso, retorico e, diciamolo, anche un po’ inutile, è finalmente diventato un superbullo clamoroso (senza per questo gettare alle ortiche il suo cuoricione d’oro). Cento punti a Captain America e ai suoi bei coscioni.
Ecco. Allora armatevi di un degno accessorio da supereroe – all’anteprima mi hanno donato un THOR-CERCHIETTO! – e andate a leggere che è successo.

Captain America. The Winter Soldier – La Tegamini-fangirl-recensione su BadTaste!

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Sposarsi dovrebbe essere un’esperienza gioiosa, rilassante e amena. Una sposa contenta dovrebbe svegliarsi alle 11, mettersi i cetriolini sugli occhi e affidarsi all’indiscutibile saggezza di decine di minuscole fate glitterate che ti smaltano le unghie, ti arricciano i capelli e ti sistemano il velo, in un tripudio di fiori freschi e bestioline che trillano. E poi niente, la sposa contenta arriva in chiesa – abbagliando i presenti con il biancore della sua candida e riposatissima carnagione – e via, baci, abbracci, amore che trionfa e festa in qualche luogo ben addobbato e splendidamente illuminato dalla romantica luce delle candele. Una bella giornata, col sole, un sacco di persone che ti ispirano affetto e simpatia, solenni momenti di commozione, sopracciglia impeccabili, risate e neanche un po’ di mal di piedi.
E tutto questo splendore è molto probabile che si verifichi davvero – anzi, ne ho l’assoluta certezza -, solo che bisogna sopravvivere a quello che capita prima. Perché organizzare un matrimonio è orribile. Orribile, a tratti umiliante e, in generale, assolutamente esasperante. Ora capisco perfettamente a che cosa servono i wedding planner… capisco la necessità e l’inestimabile valore della loro professione ma, perdonatemi, non riuscirò mai e poi mai comprendere chi diamine glielo faccia fare. Pensateci: una vita a organizzare matrimoni. Degli altri, poi. Wedding planner, ma perché vi piace? Che ci trovate? Insegnatemi a tirare avanti fino al 19 di luglio. Spiegatemi come arrivarci con la leggiadria e la maestosa tranquillità di un monarca assoluto.
Perché bisogna porsi dei problemi assurdi. Bisogna sprecare delle mezz’ore della propria vita a discutere di cose che non ti interessano e che manco dovrebbero entrarci, nella tua orbita cognitiva. Mezz’ore a parlare di menate. Coi parenti, con gli addetti ai lavori, con gli amici che – teneramente e senza sapere cosa rischiano di scatenare – fanno l’errore di chiederti come procedono i preparativi. Menate insopportabili, sbattimenti, problemi che non hanno senso.
Tipo, non lo so, la passatoia della chiesa. 
La passatoia della chiesa è quel tappeto che ricopre la navata centrale, dall’entrata fino all’altare. Ogni chiesa ha una sua passatoia d’ordinanza, che – da quanto ho capito – viene srotolata alla bisogna durante particolari giornate di festa. M’immagino che la passatoia venga fatta ruzzolare sulle piastrelle della Casa del Signore per prime comunioni, battesimi, cresimi e riti di natura collettiva. Ebbene, chi se ne importa, della passatoia della chiesa. E invece no. Perché, se ti sposi in una determinata chiesa, dovrai sincerarti del colore e della composizione organolettico-tessile della suddetta passatoia della malora e, in base a queste caratteristiche cromatiche e strutturali, dovrai stabilire se il diamine di tappeto del cavolo SI INTONA ai fiori con cui intendi addobbare la chiesa. I fiori. Che fiori? Dovete deciderlo voi. Vi presenterete di fronte a una professionista dell’allestimento e dell’addobbo che vi chiederà “Francesca, che cosa aveva in mente? Su quali tinte pensava di orientarsi? Che fiori intendeva utilizzare?”. E io che ne so. So identificare otto tipi di fiori: margherite, tulipani, ciclamini, viole, papaveri, orchidee, rose e mimose. Otto, va bene? Mi verrebbe anche da aggiungere CACTUS, ma non credo sia pertinente. Io non ho idea di quali siano le consuetudini e gli standard in fatto di addobbi per cerimonie e vasti ricevimenti. Non so che aspetto abbia una peonia. Non so quanto è grande, quando cresce spontaneamente e quando devi comprarla surgelata, non so quanto costa e non so neanche perché è necessario darle tutta questa importanza. Ma non c’è un catalogo fotografico? Allestimento chiesa, sbam, 10 possibilità. Centrotavola, sbam, 15 possibilità. Bouquet, sbam, 22 possibilità. Con le foto, i nomi dei vegetali coinvolti, le varianti decorative possibili e le implicazioni economiche. Mica che ti devi sedere lì a sfogliare album fotografici – realizzati con uno spregiudicato utilizzo del flash – delle chiese altrui. Di abbazie, addirittura. Di cattedrali che speri di non dover mai visitare nella vita. Bisogna decidere cosa mettere SOPRA l’altare, ai LATI dell’altare e AI PIEDI dell’altare. Bisogna decidere con quale frequenza distribuire degli assurdi mazzetti di fiori e nastri sulle panche. Panca fiorita – panca – panca fiorita – panca. O panca fiorita – panca fiorita – panca fiorita – panca fiorita. O una sì e due no. O nessuna, ma se non addobbi manco una panca poi fai la figura del pezzente. Ebbene, solo dopo aver pensato a tutte queste cose, avrete il diritto di occuparvi veramente della passatoia della chiesa. La vorrete simile alla peonia – anche se non sapete com’è, la stramaledetta peonia – e, proprio quando vi sembrerà di esservi finalmente levate dai coglioni una delle settecento scemenze che contribuiranno alla buona riuscita del vostro matrimonio – almeno dal punto di vista strettamente estetico -, vostra MADRE introdurrà l’ennesima incognita immotivata. “Ma Francesca, guarda che io l’ho vista la passatoia della chiesa, è molto bella. Le piastrelle sono di cotto e l’altare è tutto di marmo. La passatoia è rossa, arabescata. Al Don piace molto la sua passatoia, io userei quello che abbiamo già, no?”. “MADRE, io entrerò in chiesa, darò fuoco alla passatoia e arriverò all’altare camminando tra le fiamme. Darò fuoco alla passatoia per il bene della prossima sposa che dovrà porsi il medesimo problema, così farà come ne ha voglia, visto che non esisterà più una resident-passatoia con la quale confrontarsi. Ancora non lo può sapere, questa sposa, ma mi ringrazierà. Come io ringrazierò il Don e gli dirò rispettosamente che la sua spelacchiata passatoia vecchia, che la usa ai funerali e per la Lavanda dei Piedi, se la può pure mettere in saccoccia, se non vuole che gliela mandi in orbita insieme a tutte le peonie del continente”.
SANTISSIMO IL CIELO.
L’allestitrice, prima di rivelarvi quanti soldi vuole e come è più opportuno procedere, vorrà visitare la chiesa insieme a voi. Idem per la villa dove si svolgerà il vostro ricevimento. Perché per capire come illuminare il giardino dove cenerete, bisogna capire com’è il giardino di sera. UN GIARDINO DOVE HA GIA’ ORGANIZZATO CIRCA VENTISEI FESTE. Vogliamo usare il riflettore sull’albero? Cielo, potrebbe essere troppo violento, tipo San Siro. Vogliamo mettere candele e lanterne? Visto che è molto grande, bisognerà scegliere dove concentrare lanterne e candele, che non possiamo mica sparpagliare lumicini a casaccio. Anche sui tavoli, oltre alle composizioni floreali, bisognerà sistemare dei punti luce. Vogliamo le candele dentro a dei vasi? Vasi tondi? Vasi quadrati? Vasi ottagonali? VASI A FORMA DI MADONNA, va bene? VASI! FACCIAMO DEI FALO’, CON LE OSSA DEI NOSTRI NEMICI, maledizione.
Ed è così che passerete i vostri sabati a vagare per la provincia di Piacenza parlando di cose che non conoscete e cercando di quantificare i metri di pizzo che vi serviranno per infiocchettare le bomboniere, sempre che si voglia usare del pizzo, perché si potrebbe optare per raso, cotone, cordino, tulle, organza o CAPPI DA PATIBOLO. Dovrete trovare il modo di presentarvi alla villa di sera, possibilmente in un giorno infrasettimanale, magari quello successivo all’incontro-cinema del corso prematrimoniale, dove vi faranno vedere Casomai con Fabio Volo e Stefania Rocca – con tanto di dibattito finale sul significato della responsabilità e dell’importanza della comunità. Ma perbacco, ma proponimi qualcosa che non mi faccia patire, qualcosa dove l’espediente narrativo del “tutto quello che hai visto in questi 3/4 di film in realtà non è vero” non ti faccia venir voglia di alzarti in piedi e invocare il Cavaliere Senza Testa. Qualcosa che non coinvolga Fabio Volo. Fammi vedere The Family Man, cazzo. No, guardiamo una tragedia costellata di tradimenti, amici malvagi, neonati che ti annientano, aborti e lunghi silenzi. Avevate l’aria un po’ troppo spensierata, o giovani sposi, ma ricordate: la vita è sofferenza. E invece LA VITA E’ NICOLAS CAGE CHE TI AMA ANCHE SE GLI MANGI L’ULTIMO PEZZO DI TORTA. Va bene?
E’ per questi – e altri innumerevoli motivi – che ho deciso di evocare Cthulhu per affidargli il resto dei preparativi del mio matrimonio. Non tutto quanto, sia chiaro. Voglio che Cthulhu si occupi delle cose più demenziali, perché è lì che ci si impantana nell’indecisione e nel tentennamento. Cthulhu mica esita o rallenta. Lui è fatto così. Emergerà dall’abisso e deciderà i miei centrotavola. Se qualcuno, nel processo, dovrà essere sacrificato, Cthulhu provvederà di conseguenza. E io potrò serenamente trovare una persona che mi trucchi, finire di pensare alla mia acconciatura, accompagnare Amore del Cuore a provare un bel completo, fare un post per parlare del viaggio di nozze – che il mini-sito dell’agenzia diciamo che informa, ma non convince -, cercare una macchina fotografica o un qualche altro aggeggio per documentare tutte le cose meravigliose che ci accadranno, occuparmi di quello che si stampa – perché credo di essermi imbattuta in una piccola tipografa molto speciale – e trovare il modo di trasformare le menate in qualcosa di istruttivo e piacevole. Che aspettiamo allora? Non c’è un minuto da perdere: prendiamoci per mano ed evochiamo Cthulhu, con convinzione e autentica fiducia. Perché Cthulhu è il mio wedding planner. E nulla potrà più ostacolarci.

Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn!

Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn!

Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn!

Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn!

Che cavolo.

venezia tegamini

A Venezia c’ero stata con MADRE e il mio papà quando avevo 7 anni. Visto che, come tutti i bambini regolamentari, la mia statura si aggirava attorno al metro e quaranta, di Venezia mi erano rimasti ben impressi solo i culoni degli altri turisti, un casino di scale e il Ponte di Rialto. E un ciondolo bellissimo che mi aveva comprato MADRE. Era un sacchettino di vetro con dentro un pesce rosso… che, per carità, va bene, ma è un po’ poco: c’è gente che scrive libri su Venezia da secoli, e nella mia memoria c’erano soltanto dei culi, dei sandali brutti e MADRE che si scandalizza per il prezzo dei giri in gondola. Avevo anche il marsupio, adesso che mi ci fate pensare.
Quando mi hanno chiesto se volevo andare a Venezia per la giornatona Bombay Sapphire – che se avete voglia c’è anche un post, allora, mi sono subito emozionata molto. Finalmente ci tornerò, da grande! E ho anche tutti questi consigli su dove andare a mangiare delle cose nei posti frequentati da AUTOCTONI-col-Pedigree che mi ha scritto @martinaemme, dedicandomi ore della sua vita. E solo perché è una persona gentile! E niente, sono partita con grande gioia. Il Carnevale! L’acqua! Un giorno di ferie! Assassin’s Creed!

Solo che io non ho il senso dell’orientamento.
E le folle oceaniche un po’ mi agitano.
E mi sentivo un po’ in colpa a vedere tutta quella bellezza senza potermi girare e dire delle cose ad Amore del Cuore.

Ma poi ho trovato il modo di prenderla bene.
Volevo andare alla famigerata libreria Acqua Alta – libri usati, umidità devastante e gatti da tutte le parti – ma non ci sono mai arrivata. Secondo le mappe di Google era da qualche parte lungo il muro di cinta dell’Ospedale, quello a picco sulla laguna. Tutti palombari, i frequentatori della libreria Acqua Alta. Una persona perbene ci sarebbe arrivata, però, con o senza indicazioni fuorvianti e 3G che funziona a intermittenza. Io no, sembravo un cincillà gigante che fa la spesa al supermercato. Ad un certo punto, un anziano cittadino – visibilmente impietosito – mi ha pure aiutata a capire vagamente dov’ero, ma poi s’è accorto che manco lui si ricordava più tanto bene dove abitava e mi ha abbandonata, farfugliando qualcosa sulla distribuzione dei numeri civici veneziani. I numeri civici veneziani sono esagerati e messi giù a caso. 5436, 2344, 1798. Che è. L’anziano cittadino mi ha detto che lì le cose funzionano diversamente: non c’è la strada coi suoi numeri che cominciano dall’1 e arrivano dove devono arrivare. Lì sono progressivi, per “quartiere”, tipo. Io mi sono immaginata Casanova con un jetpack che sorvola la città tirando i bussolotti della tombola sui tetti, gridando OSTREGHETTA di tanto in tanto. E niente, mi sono rassegnata. Visto che non sarei mai stata capace di raggiungere una meta qualsiasi, ho cominciato ad andare dove mi portavano i piedi e tante care gondole a tutti. Trattandosi di Venezia, è stato un successo.

Ma vi mostro le diapositive commentate delle ferie, che facciamo prima. È un misto del primo giorno (è per quello che il pranzo è così sfarzoso) e del secondo giorno (è per quello che non c’è roba da mangiare… ero così atterrita dalla possibilità di perdermi per sempre che mi sono scordata di alimentarmi. C’era il sole, però).

Ho scoperto che Venezia è una città interamente composta da scorci memorabili. Giri un angolo e c’è sempre qualcosa che cade a pezzi con una grazia struggente. Cammini, ti guardi attorno e non ti spieghi come sia possibile che esista un posto del genere. Non ci sono nemmeno i negozi che vendono cibo. I veneziani vivono di intonaco fradicio, probabilmente. Mangiano le persiane. Hanno le radici aeree.

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I fabbricanti di costumi sfarzosi mi hanno fatto venire in mente che, con la mia corporatura, ho proprio scelto il secolo sbagliato per nascere. Diciamo basta agli hipsterici vestitini rettangolari, io voglio un corsetto che sembra una Viennetta.

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Questa calle è una tappa obbligata per ogni turista disorientato. Dopo averla invocata ad ogni svolta sbagliata, ad ogni ponte che non è dove te lo immaginavi, ad ogni incomprensibile deviazione, la Madonna appare a modo suo.

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Per fare questa foto ho tagliato la gola a undici cinesi (tutti con il gilet da pesca, quello con tantissime tasche), sei romani che pensavano che il ponte fosse il loro e quattro ragazzine che avevano riciclato i costumi di Halloween. I gondolieri, nel frattempo, sembrano in coda al casello.

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Uno ormai associa i cigni a Natalie Portman che danza sulle punte con un tutù di Rodarte.  Poi ti ritrovi a passeggio lungo un ameno canale e ti imbatti in una persona di 120 chili vestita da cigno, con tanto di scarpetta-zampetta e piume. Dalla foto non si capisce bene, ma la gonna bianca (diametro metri 3) era tempestata di cignetti neonati. E il cigno-copricapo sfiorava le finestre delle abitazioni del primo piano.
I veneziani che vanno in maschera devono avere delle case molto grandi. Un costume del genere ha bisogno di un armadio solo per lui, non può convivere con gli altri indumenti, è troppo grosso, troppo piumato, troppo voluminoso. Veneziani in maschera, come diavolo li riponete i vostri costumi?

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Pausa-pranzo

Quello che posso dirvi è che non è lontano da Piazza San Marco. Ma è meglio se provate ad arrivarci da soli. Ristorante Al Covo, l’unico posto al mondo dove ti portano uno sgabellino imbottito dove appoggiare la borsetta e continuano a ripeterti di stare attenta ai gradini perché c’è chi è cascato in terra rischiando seriamente la vita. Dislivelli letali a parte, c’erano numerose porcellanine adorabili e ho mangiato delle bontà. Visto che nessuno si vergognava di fare le foto al cibo, è stato tutto rigorosamente documentato. La polpa di granchio dentro a un vero guscio di granchio placcato in argento, però, non ho fatto in tempo a immortalarla perché era troppo buona ed è scomparsa all’istante.

tegamini baccalà al covo veneziaL’Unesco dovrebbe proteggere il baccalà mantecato con ogni mezzo.

Questo qua non è un Gesù in croce ma è una coda di rospo. Ogni volta che pulisco un pesce mi viene in mente che ho delle mani d’oro e che dovevo fare il cardiochirurgo.

Questo qua, invece, è uno di quei gloriosi tortini con il cioccolato caldo dentro. Poi ci hanno anche portato gli sgonfiottini zuccherosi di carnevale, che erano ancora più buoni e magicamente leggeri. Ho cercato di calcolare quanti sgonfiottini sarebbero serviti per riempire una stanza, ma ho fallito. E ne ho inghiottiti altri tre, per sentirmi meno inadeguata.

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Guai a te se ormeggi. Ti percuoteranno a colpi di remo, ma di taglio.
Cioè, non è manco un cartello: è un blocco di granito con un’iscrizione viabilistica… per delle imbarcazioni che non esistono in nessun altro posto al mondo. Ci dovevano scolpire sopra un divieto di sosta, col cerchio sbarrato. E delle pietruzze colorate per il rosso e il blu. Basta, Venezia è una città assolutamente strabiliante e inverosimile.

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Una volpe rossa che truffa una signora, ipnotizzandola coi merletti.

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canale tegamini supersegreto

Per fare questa foto ho rischiato di annegare. C’era un vicolino piccolino, con in fondo un portone bellissimo e tutta questa magica luce coi riflessini da piscina. E andiamoci a vedere. Il vicolino finiva nell’acqua, in questo canale silenziosissimo e proprio meraviglioso. Non c’era un’anima, e io volevo vedere bene di qua e di là. Solo che avevo paura a sporgermi, visto che non c’era niente a cui attaccarsi. Allora mi sono appiattita al muro come una bavosa di scoglio e ho allungato un braccio e ho fatto una foto tutta storta, perché anche il resto del mondo doveva scoprire che esiste un posto del genere. Non rende la magia della LOCHESCION, ma ancora non deambulo sull’acqua.

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L’uomo-pavone in pausa sigaretta. Perché anche le maschere si affaticano e sudano sotto al primo sole di primavera.
…è anche vero che te la sei andata a cercare, uomo-pavone.

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Comuni cittadini che vanno in giro sulla loro barchetta, superando senza fare una piega anche gli angoli più disagevoli. Bisognerebbe tornare a Venezia per vedere come funzionano le scuole guida. Ci sono solo quelle che distribuiscono patenti nautiche? E se uno vuole guidare una macchina vera dove va? A Mestre? Le donne veneziane le prendono in giro perché non sanno ormeggiare, o anche lì esistono le battutone sul parcheggio?

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i am in the nonsolovino

Ma giustamente. E spero che abbiano già pensato a una qualche forma di convenzione turistica: compra un’ampolla di vetro di Murano e usala per berci dentro uno spritz all’enoteca, col 50% di sconto.

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Intanto che siamo in tema affissioni, vorrei anche segnalare la bellicosa presenza degli stencil, dei posteroni e degli appiccichini di Venezia Land. Da quel che ho capito, è un movimento-streetartistico di DENUNZIA contro il degrado prodotto dal turismo becero e incontrollato. Venezia non è un Luna Park! Per dirlo (e accrescere grandemente l’avvenenza della laguna), tempesteremo i palazzi di ciccione in pantaloncini!

venezia land tegamini

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I gondolieri sono molto vanitosi. Alcuni cantano anche. E fanno il limbo per passare sotto ai ponti più bassi.

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E qua ci sono io con un tricorno in testa. Per attenuare la sensazione di smarrimento e labirintite, mista a nostalgia per Amore del Cuore e mal di piedi, ho acquistato un tricorno fatto a mano da un vero artigiano/mascheraio veneziano. Si sa, i tricorni fanno bene all’anima. E si sa anche che smarrirsi con in testa un tricorno è comunque meglio che smarrirsi a capo scoperto. Erano anni che volevo un tricorno. Chiederò al futuro istruttore di equitazione se posso usare il tricorno invece del cap. Non che il cap sia brutto o inutile, chiaro, ma ci vuole anche un po’ di senso del teatro. “Guarda il lampo che laggiù attraversa il cielo blu”, quelle robe lì. Pirati, pugnali, nobiltà e rondate sui cornicioni. E la missione dei prossimi mesi sarà trasformare il tricorno in un copricapo accettabile per l’uso quotidiano in una città come Milano.
Tié.

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E adesso sono rimasta fregata. Perché la foto più bella l’ho usata all’inizio. E tutte quelle che ho di Piazza San Marco sono piene di gente che mi smanaccia nell’inquadratura. O di bambini seduti su sgabellini pericolanti che si fanno impiastricciare la faccia da scoordinatissimi truccatori di strada. Poltiglie di coriandoli da tutte le parti. Momenti di acutissima misantropia e sciabordio di onde. Nonostante il delirio carnevalesco e i vaporetti con la gente abbarbicata alle ringhiere, però, sono molto contenta che esista Venezia. Mi sono smarrita in ogni modo possibile, ho fatto tantissime scale e mi sentivo un po’ sola, ma quel che avevo attorno – chissà dove, poi – era sempre una specie di meraviglia fluttuante. Venezia è proprio la città degli stuporoni… e ci voglio tornare con qualcuno che amo. E che non si perde.

Visto che sono ormai perennemente esausta, spettinata e, dalle 9.30 alle 18.30, anche discretamente infelice (cosa, però, di cui non posso in alcun modo lamentarmi perché ho il contratto a tempo indeterminato), ho deciso di puntare a un progetto di sopravvivenza graduale. Una cosa modulare, minimalista, per menti semplici e rallentate. Formulerò un solido prontuario di certezze incontrovertibili che mi aiuteranno a tornare sempre indenne a casa mia, dove c’è Amore del Cuore e tutto quello che, fondamentalmente, mi piace veder succedere. Sarà roba elementare, utile, che fa bene, risolve problemi quotidiani e indica il cammino, tipo fiaccolata coi maestri di sci. Visto che Ottone von Accidenti è ufficialmente entrato nella fase-velociraptor (ha imparato ad aprire le porte) e che, di conseguenza, mi fa dormire ancora meno perché continua ad aggeggiare l’armadio, per adesso nel magico prontuario delle certezze incontrovertibili ce ne sono solo due, di certezze incontrovertibili. Ma ce le faremo bastare.

UNO.
L’insalata nella busta, quella già lavata e tagliata, fa gonfiare la pancia.

DUE.
Voglio essere Licia Colò.

Sull’insalata credo non ci sia bisogno di ulteriori commenti. È vero e basta.
Su Licia Colò, però, due cose vorrei dirle.
Perché Licia Colò è il mio nuovo punto di riferimento e, al contrario della dinastia degli Angela, lì c’è spazio per inserirsi sul mercato. Ma procediamo con ordine, che sto già andando in confusione.

licia colò

Licia Colò fa il lavoro più bello del mondo.  Ha passato la vita ad abbracciare delfini, ad arrampicarsi su alberi di mangrovia carichi di pappagalli colorati e a vagare per rovine Maya di ogni forma e dimensione. Non c’è posto in cui non sia stata o tribù indigena che si sia rifiutata di raccontarle i suoi più reconditi segreti. Perché Licia Colò è garbata, gentile e si sa spiegare benissimo. Non ha problemi a pagaiare sul Rio delle Amazzoni, non le fa schifo mangiare formiche e si arrangia egregiamente anche senza il parrucchiere. Le danno un paio di ciabatte, una maglietta bianca e un microfono e la gettano su una spiaggia desolata, e lei non fa una piega. Si sistema gli occhiali da sole e ti racconta serenamente come si chiamano tutte le conchiglie che sta pestando. Licia Colò è un’entità superiore. Lo si capisce dall’assenza della borsetta. Perché Licia Colò, quando fa un documentario, va in giro come se fosse appena nata, senza accessori. E solo una creatura illuminata – una che percepisce anche i pensieri dei tuberi che crescono sottoterra, che ringrazia i sassi per il loro essere sassi e che vive della rugiada mattutina – può esplorare la Mongolia senza manco uno zaino. Nel 70% delle fotografie che la ritraggono, Licia Colò ha in braccio almeno un animale. Che si tratti di un gatto, di una capretta o di un panda rosso, Licia Colò ha l’aria più felice, quando la fotografano insieme a una bestia. Non che di solito sembri triste, sia chiaro. Non è nemmeno sfiorata dal tempo. Licia Colò ha più di cinquant’anni ed è bella come il sole… e noialtre, che alla mattina abbiamo la faccia grigia come una lapide di brughiera, possiamo metterci l’anima in pace e lucidarle l’intera collezione di braccialetti balinesi, una perlina alla volta.
Per queste – e molte altre ragioni –, Licia Colò va a presentare il suo programma – che si chiama Alle falde del Kilimangiaro, montagna che Licia Colò ha scalato almeno tredici volte nella sua vita, muovendo alle lacrime col suo canto anche il più spietato degli avvoltoi -, dicevamo, Licia Colò va al lavoro e si siede su un divano a forma di foglia gigante. Perché se lo è meritato.

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Licia Colò è così adorabile e serena, così bene informata e così visibilmente fiera di quello che fa – anche quando arranca per il deserto del Sahara sulla groppa di un dromedario scorbutico – che è impossibile provare dell’invidia nei suoi confronti. La guardi e vuoi essere come lei, ma non puoi volerle male per tutte le cose belle che ha visto e tutti i cuccioli di leopardo delle nevi che ha coccolato, in cima a qualche rupe scoscesa. Leopardini delle nevi con le zampe più grandi della testa. Adorabili piccole palle di pelo miagolanti, con la coda grossa così e gli occhi sgranati. Licia Colò li ha cullati TUTTI.
Ebbene.
Io penso che Licia Colò necessiti di una discepola. Perché, come accennavo poco fa, Piero Angela ha già provveduto a mettere al mondo un erede capace di governare il suo impero della garbata divulgazione. Sangue del suo sangue, poi. Piero Angela ha Alberto Angela, che è bravo quanto lui e, anzi, anche più disposto ad avventurarsi nelle catacombe e a passarci gli anni migliori della sua vita. Fateci caso, Alberto Angela è SEMPRE in una catacomba. E Licia Colò? Licia Colò non sta pensando per niente alla posterità. Licia Colò è ancora abilissima e assolutamente in grado di intrattenerci in maniera graziosa, intelligente e curiosa, ma è un po’ che non sorvola le Ande in deltaplano. E’ diventata una signora, ha raggiunto un tale livello di nobiltà che adesso sono i guerrieri masai che la vanno a trovare in studio, senza bisogno di farla impolverare o divorare dai leoni. Per quelle cose lì, le robe “sul campo”, le servirebbe un Alberto Angela, un apprendista, un padawan, un volenteroso inviato a cui insegnare tutto quello che sa. Ed è proprio questo il momento in cui un degno Colò-padawan dovrebbe iniziare il suo cammino d’apprendimento e coccole alle creature della terra.
Licia, scegli me.
Ho un grande spirito di osservazione. Sono atletica e coriacea. Scrivo senza problemi di qualsiasi cosa. Non sono schifiltosa. Amo gli animali. Mi piace viaggiare. Non vengo troppo male in video. Sono curiosa. So andare a cavallo. Sono una ricciolona bionda, come te. Chiacchiero un casino. So l’inglese alla perfezione.
Sono nata per questo.
Una volta mi hanno addirittura lasciato maneggiare una poiana di Harris.

Sono pronta, Licia Colò.
Insegnami quello che sai.
Guidami e ispirami.
Racconteremo la natura selvaggia a chi ci vuole ascoltare. Accompagneremo frotte di allegri ascoltatori alla scoperta delle meraviglie del nostro pianeta. Guarderemo il tramonto che fiammeggia sull’oceano, in mezzo a branchi di balene che sbuffano. Correremo dietro agli gnu che migrano. Ammireremo gli ippopotami, anche quando fanno la cacca… che è un processo molto schifoso, perché la frullano con la coda. Ma noi staremo un po’ lontane, e nulla di male ci accadrà.
Il mondo! La natura! La scienza! L’infinito!
Portami con te, Licia Colò.
Non ti deluderò.

bombay sapphire ultimate gin e tonic experience

Ho deciso che sulle meraviglie di Venezia farò ben due post due. Uno sulla mirabile avventura a bordo di una bottiglia di Bombay Sapphire (con tanto di lezione di gin-tonic e performance artistiche a due centimetri dai miei alluci), e l’altro su Venezia come posto fascinoso e terrificante. Perché quando non hai il senso dell’orientamento, Venezia può anche ucciderti. Soprattutto quando c’è il Carnevale.
Inizierei dall’argomento gin-tonic, se non vi dispiace… che si sa, ne parlo già tantissimo di mio (intanto che ci siamo: grazie a tutti i prodi che, periodicamente, mi ricordano di mettere i ghiaccetti in freezer), figurati cosa posso tirare fuori quando mi capita una roba che si chiama The ULTIMATE Gin&Tonic Experience. ULTIMATE, come il mostro definitivo di fine livello.
Come reagire, dunque?

A. Prendere un valigino. Riempire il valigino di lustrini.

B. Balzare su un treno in direzione Venezia S. Lucia.

Sul treno ero un po’ intimorita perché tutti gli altri che venivano a fare festa al Bombay Sapphire erano giornalisti. E io, no. Io ho un blog che si chiama Tegamini. Ah-ah-ah, no, non parla di cucina, tutto tranne quello. Piacere, piacere. Tranquilli, non fate caso a me. Sto qui nel mio cantuccio. Però scusate, perché avete tutti dei valigini più piccoli del mio?
I giornalisti liofilizzano gli abiti e le scarpe. Non so come facciano, ma è così.
Poi, però, abbiamo fatto amicizia. Ci siamo anche scambiati delle maschere piene di piume. Non sono affatto minacciosi, i giornalisti, dopo un paio di bicchieri. O dopo che un taxista veneziano super spiccio ti ingiunge di salire sulla sua barchetta, te e tutti i tuoi valigini. Nessuno è salito con grazia, perché la laguna incute rispetto.

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Comunque. Mi sono messa tutta bella composta vicino a un bancone pieno zeppo di bottiglie color zaffiro (pietra amatissima dalla regina Vittoria che, meraviglia delle meraviglie, appare in tutto il suo arcigno e corpulento splendore anche sull’etichetta del benamato Bombay) e ho degustato, ascoltato e gioito dell’altrui capacità di produrre robe buone da bere.
Ho imparato moltissime cose. E la mia naturale predisposizione al gin-tonic ha finalmente trovato una valvola di sfogo piena di immaginazione. Perché uno pensa che il gin sia una roba relativamente poco complicata, ma non è vero niente. I bicchieracci dei posti dove andiamo noi mica si chiamano bicchieri-Swimming-Pool. E non c’è da inorridire, quando ti mettono tanto ghiaccio, anzi. Non è perché sono tirchi, taccagni, braccini corti e spilorcioni: un cocktail fatto bene ha bisogno di un sacco di ghiaccio, perché se ce n’è parecchio non si verificano squagliamenti e quello che ti bevi rimane uguale dall’inizio alla fine. E segnatevelo, se dovete fare una festa chic: in una serata con della gente allegra che si beve 2-3 cocktail a testa, serve un chilo di ghiaccio a persona. E noi lì, coi sacchettini di plastica. Prendete un piccone e trascinatevi in casa un iceberg.

A parte i rudimenti dell’arte COCTEILISTICA, ho anche appreso innumerevoli utili nozioni sulla composizione del vivace Bombay Sapphire, che è il gin che ti vai a comprare quando non vuoi fare la figura dei cavapietre e che ti fa anche un po’ gridare perché io valgo! quando te lo passano alla cassa. Perché è più buono, ma anche da prima che mi facessero sedere al bar del Bauer di Venezia. Tutta la bontà accade – con nostra grande soddisfazione – perché nel Bombay prosperano aromi e ingredienti di impareggiabile stranezza. Io ho i miei colleghi tra loro maritati, in ufficio, che ogni tanto saltano su con affermazioni tipo “Cielo, è finito il sale rosa dell’Himalaya! Periremo!” oppure “L’altra sera abbiamo messo sulla pasta questa varietà di cardamomo biforcuto che cresce solo tra gli zoccoli pelosi di un particolare ruminante sputacchione della cordigliera andina, il fafnirpal”. Ecco, ora so come vendicarmi. Perché il Bombay Sapphire, senti un po’, contiene i seguenti dieci aromi (gli aromi, in Bombayese, si chiamano botanicals… e io li ho visti con questi occhi, dopo aver controllato sull’atlante illustrato dove li vanno a prendere): mandorle amare e limoni dalla Spagna, liquirizia dalla remota Cina, bacche di ginepro e radice di iris dall’Italia, radici di angelica dalla Sassonia, coriandolo dal Marocco, corteccia di cassia indocinese, grani di pepe Cubebe dell’isola di Giava e Grandi del Paradiso dell’Africa Occidentale.
Cheers e tanti saluti al fafnirpal.

tegamini bombay sapphire bancone

Visto che ho la faccia di tolla tipica dei bambini molto piccoli, poi, mi sono offerta volontaria per un esperimento da vera barlady. Con la supervisione del pazientissimo mastro-Bombay, ho preparato il gin-tonic preferito della regina Vittoria con una perizia da neurochirurgo. Faccio un gin-tonic, ma sembro una che si sta laureando in ingegneria biomedica. Ridete pure, ma bisogna mescolarlo da sotto in su, con un bel movimento rotondo, vigoroso ma delicato. C’è anche un video, che esiste solo perché ho assaggiato tutti e venti i cocktail della degustazione…

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Per chi volesse farsi una cultura e per i vostri amici che ancora ritengono che il gin-tonic sia noioso e del tutto privo di IMAGINATION – tema della goduriosa serata – qua ci sono i cocktail che si sono inventati per noi con gli ingredientini e i nomi belli, così potete prepararveli anche per i fatti vostri e innalzare di una tacca la felicità media del mondo. E’ un agile PDF, che fa anche un casino arredamento. E non ci crederete mai, ma il gin-tonic alla camomilla ha un suo perché.

E poi?
No, perché mica è finita.
Dopo aver presidiato il bancone in dorata solitudine e tranquillità, il bar si è riempito di variopinti personaggi che volevano vedere della seria live-arte. C’era un pianoforte con Giovanni Guidi – che è un giovane prodigio galattico del nu-jazz – che suonava, improvvisando per delle mezz’ore… il cielo solo sa come. Giovanni Guidi deve avere un cervello grosso il doppio del nostro, o ce l’ha uguale a noi ma la densità dei suoi neuroni è dieci volte maggiore. E c’era una grossa lavagnona nera con Letman – che è un calligrafo olandese che mi ha pure tollerata per tutta la cena mentre mi facevo i fatti suoi, tipo “ma i muri di casa tua, poi, hai deciso di dipingerli da solo o li lasci così?” – che disegnava, scriveva e artistava a ritmo di piano. Tre sonate improvvisate e tre lavagnate, son venute fuori. E io ero molto emozionata, perché dev’essere di una difficoltà estrema farsi venire in mente il modo di riempire una roba di tre metri per due con della gente piena di piume di carnevale che ti fissa con immensa curiosità.

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Una gioia.
Alla fine, ancora discretamente salda sulle gambe, sono tornata nella mia stanza e ho preso una gran paura perché c’era la televisione che andava e le lampade accese in una maniera molto coreografica. E mi avevano anche scostato l’angolo del lenzuolo e risistemato tutti i vestiti. E avevo le pantofole messe su un tappetino vicino al letto. LA CAMERIERA PETRA ESISTE VERAMENTE. E chi lo sospettava. Visto che Amore del Cuore non aveva mie notizie dalle ore 17, poi, mi sono baldanzosamente diretta nello spazioso bagno marmoreo per inviargli una testimonianza della mia buona salute, maschera da giullare e tutto.

 

Indipendentemente dalla maschera, mi sento sempre Batman. #bombayandtonic

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

La risposta di Amore del Cuore è stata “METTI VIA QUELLE TETTE”.
E io le ho messe nel pigiama.
E ho messo il resto di me nel letto, sempre dentro al pigiama.
Buonanotte a Venezia. Buonanotte e molte grazie a Bombay Sapphire, che ha assecondato con impareggiabile gentilezza la grossa principessa curiosa che e in me. Buonanotte anche a Giovanni Guidi e a Letman, che spero abbiano fatto sognoni d’oro, dopo tutta quella performance complicata. E buonanotte ai giornalisti, che prendevano tutto con estrema naturalezza e tranquillità… mentre io sembravo un’orfanella di Dickens entusiasta dell’acqua calda che esce dal rubinetto.

E’ stato avventurosissimo, allegro e immensamente spassoso.
Grazie per l’accoglienza, le materne premure, le sorprese e le scoperte.
Se mi abituo è un casino, anche questa volta.

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