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Cos’è, questo Rifiuto di Tony Tulathimutte – uscito qui da noi per e/o con la traduzione di Vincenzo Latronico?
È un romanzo di racconti, più una meta-appendice finale in cui l’autore si fa rifiutare il libro da una casa editrice. Le storie stanno in piedi pure da sole, ma contengono personaggi e rimandi che appaiono anche nelle altre.

Mondo?
È sia il nostro che quello incistatissimo e ultra-tribale delle comunità digitali. Ci trovate il dating (più o meno) online, il porno, i videogiochi, gli incel con le spalle strette, i tech-bro startuppari fanatici, i collettivi universitari che decostruiscono e problematizzano anche un toast al formaggio, i maschi che si considerano più femministi delle femministe, i segaioli stravolti, la gente che decide di non avere un’identità e se ne crea così tante sui social da trasformarsi in un mito o in una cospirazione, le ragazze sole che si aggrappano a uomini che se le fiondano una volta e poi dicono “cavolo, hai frainteso, ci tengo troppo alla nostra amicizia”.
Sono tutte persone incastrate e storte che si sentono troppo bizzarre per trovare una nicchia di vera appartenenza e che, allo stesso tempo, non desiderano quella solitudine e non l’hanno chiesta. Sono certe di essere impossibili da amare o da capire, di essere troppo o troppo poco e si rifugiano in un vittimismo paradossale che è talmente egoriferito e “chiuso” da smentire il loro desiderio di base – trovare qualcuno che le veda, che le capisca, che se le pigli e le faccia sentire normali, una buona volta. Al “povera/o me” s’attacca tutto il discorso dell’identità, che Tulathimutte spezzetta in un gran sistema solare di auto-marginalizzazioni e di traumi specifici, sbandierati per accumulare ancora più punti-compassione e non per combattere le iniquità – reali e zeppe di implicazioni – con la forza di un collettivo. Che altro avrebbero, altrimenti?

Che c’entrano gli spazi digitali? Parecchio, perché se nel mondo “reale” e in mezzo alla gente si appare all’istante alieni e inadeguati, invasati con roba che non conosce nessuno o cronicamente sfigati e soli, online si può fare a meno del corpo, si possono mediare le interazioni per farle diventare gestibili, si può ripartire da zero – mascherandosi da altro – e spremere dopamina dai cuori che arrivano. Ci si rappresenta e ci si racconta, si separano gli ambienti per fare in modo che almeno uno diventi vivibile, ma ci si può ingannare fino a un certo punto – perché il corpo, volenti o nolenti, c’è. 
Sono anche posti in cui la rabbia trova una destinazione e viene nobilitata dalla ricostruzione di una rete di punti di riferimento – questo contesto ha rigettato anche te? Perfetto, vieni qua che siamo già parecchi e, a ben pensarci, forse abbiamo ragione noi. Nessuno è felice della sua condizione, ma non è un patimento passivo e arrendevole: contiene sempre la convinzione – più o meno ben riposta – di aver subito un’imperdonabile ingiustizia.
Qua dentro c’è molto sesso, ci sono kink considerati irricevibili dagli stessi personaggi che quelle pulsioni le provano, ci sono fantasie che si dilatano fino all’assurdo più totale e c’è roba obiettivamente schifosa che, per accumulazione estremamente fantasiosa, trasforma il libro in una succursale di Rotten che, oltre al corpo, comprende anche le relazioni umane.

Il linguaggio?
Ha tradotto Latronico e, anche senza aver visto il materiale di partenza, quel che ha dovuto gestire non è solo l’inglese, ma anche un’abbondanza di gerghi specialistici da subculture del web, il miscuglio di slang e brevità delle chat “chiuse”, l’aziendalese, il motivazionalese e lo spogliatoiese. Non sono certissima che qua dentro si batta il record mondiale dell’utilizzo del termine “sborra”, ma qualche soldo ce lo metterei. Dev’essere stato un lavoraccio e molte decisioni gestionali si sono visibilmente rese necessarie, ma fila via in una maniera che in italiano suona plausibile.

Non so quanto senso abbia – dato il tema e il passo del libro – star qua a proporre dei trigger-warning ma, se siete di costituzione delicata e cercate storie confortevoli ed edificanti, non credo che vi convenga molto tentare. 
Per tutti gli altri, Rifiuto è doomscrolling a forma di romanzo. Fa ridere, fa vomitare, fa impressione (sia per inventiva che per schifo e arguzia), fa satira, esaspera profondamente, ipnotizza come un incidente stradale e non somiglia a niente. Non vuoi neanche immaginartela della gente del genere, ma vuoi andare avanti a leggere. È un libro strutturato in modo da farvi sentire, sviscerare e trovare problematiche, disoneste e strumentali tutte le campane. Quel che le accomuna è che suonano irrimediabilmente a morto e il funerale potrebbe diventare il nostro – sempre che non lo sia già.

 

Tendiamo ad associare le saghe di famiglia a una foliazione imponente e al moltiplicarsi dei volumi, specialmente quando c’è di mezzo una dinastia “industriale”. Con L’immensa distrazione – in libreria per Einaudi – Marcello Fois opta per una certa sintesi… anche perché il suo narratore non è che possa trattenersi in eterno nel limbo che si sorprende a occupare. Ettore Manfredini, d’anni 95, si sveglia infatti stecchito ma non completamente trapassato. Questa condizione intermedia e precaria gli riconsegna il ricordo complessivo della sua esistenza, oltre all’opportunità rara di stilarne un bilancio quando ha effettivamente senso farlo – alla fine, alla chiusura dell’esercizio.

Il romanzo è un’alternanza di memorie concretissime che affiorano alla coscienza del Manfredini e di riflessioni più rarefatte su cosa voglia dire stare al mondo – e sul destino piuttosto tragico che tocca a tutti: si campa in un preciso istante con la consapevolezza che c’è in quel momento lì, ma com’è andata davvero lo si scopre troppo tardi, quando non c’è più la possibilità di rimediare, di far meglio, di soffocare un disastro prima di provocarlo.

La storia di Manfredini attraversa il Novecento italiano ed è anche una parabola di successo che potrebbe apparirci canonica. Un piccolo mattatoio rilevato in gioventù, da ragazzo della campagna emiliana con più di una pezza al culo, e gestito così sapientemente da trasformarsi in un impero industriale capace di sostenere una numerosa famiglia. Sono diventati ricchi, i Manfredini, ma non possiamo certo dirli felici e risolti e, forse, nemmeno fortunati. Stanno tutti espiando una colpa antica? O la radice vera del loro male è un’endemica incapacità di accontentarsi, di vedere l’amore che c’è e le persone per quello che sono, al di là di come potrebbero tornarci utili?

Chiaro, ci sono saghe più travolgenti, attraversate da autostrade a sei corsie di passioni platealissime. Questa è una storia di rimpianto e di un bisogno inesauribile di rivincita, di controllo e di passioni senza sentimento. È la storia di un uomo che non è cambiato mai e che, anche da morto e potendoci pensare su, non vuol capire perché.

[Ci garba Fois che si addentra – con un respiro ampio e “classico” – in un’altra famiglia? C’è la trilogia dei Chironi.]

Di gender-gap nelle professioni tecnico-scientifiche e nella ricerca d’ambito STEM si parla in abbondanza ancora oggi, quindi figuriamoci com’era l’andazzo negli anni Sessanta. In Lezioni di chimica – uscito in italiano per Rizzoli con la traduzione di Anna Rusconi – Bonnie Garmus sceglie quell’epoca lì per la sua Elizabeth Zott, chimica autorevolissima e signorina con zero voglia di allinearsi al modello della casalinga suburbana. La storia di Zott è una specie di ripasso delle rivendicazioni femministe di base perché, per quanto la protagonista aborri la condizione di moglie e madre, la platea che più le darà credito sarà proprio quella. Come ci arriva? Con la TV.

Lezioni di chimica - Bonnie Garmus - Libro - Rizzoli - Varia narrativa  straniera | IBSZott trova un lavoro in un istituto di ricerca popolato da sgobboni e opportunisti che dispone di un unico vero genio. Questo Calvin Harris è un tipo strambo, che socializza poco e ha la fama di legarsi al dito anche il più minuscolo sgarbo. I due, tra un becco Bunsen e l’altro, si innamorano e trovano il modo di essere intelligentissimi insieme. Destano gran scandalo, ovviamente, perché convivono senza essere sposati e lui ha l’ardire di trattarla anche come una collega vera. Creano una famiglia atipica – che riscatta entrambi dal disastro dei loro nuclei di provenienza – , ma nel loro microcosmo tutto funziona….. fino a un cataclisma improvviso. Che ne sarà di Zott? E della figlia che non ha mai voluto ma le è rimasta sul groppone?
Di fatto estromessa e scacciata da quei mentecatti dell’istituto, Zott coglierà al balzo un’occasione economicamente redditizia e, dato che è pure bella e magnetica, diventerà la conduttrice di Supper At Six, un programma di cucina di fascia pomeridiana. Il network sperava di aver assunto una rassicurante massaia, ma Zott trasformerà lo show in una lezione di chimica….. e di proto-femminismo.

Allora, l’ho trovato piacevolissimo, nonostante Zott sia un personaggio che risulta paradossalmente statico. Certo, si riadatta agli accidenti e alle opportunità della vita, ma la sua inflessibile fedeltà a una vocazione scientifica e al rifiuto di qualsiasi convenzione o compromesso sembrano far parte del suo patrimonio genetico, prendere o lasciare. È corretto, mi vien da dire, che Zott sia così, proprio perché il contesto a cui appartiene si aspetta femmine docili, obbedienti, prive di opinioni e di ambizioni, decorative e malleabili, ignoranti e inoffensive: Zott non ha la minima intenzione di rispondere alle aspettative, ma si aspetta invece che sia il mondo a cambiare e lo affronta come se toccasse a lei fare da prototipo, mostrando che un’altra strada dovrebbe essere possibile. Certo che è una specie di monolito alieno, perché se si ammorbidisse anche solo di tanto così il bel soufflé che è questo romanzo si sgonfierebbe, rassegnandosi a somigliare al compromesso imperfetto e quasi sempre iniquo dei nostri percorsi “veri”.

Zott prende sul serio le donne che la guarderanno – prima allibite e poi sempre più gasate – alla TV, le tratta come degli esseri umani capaci e autorevoli, le istruisce e le incuriosisce. E lo fa da persona che condivide il medesimo “svantaggio” di partenza e che ha pagato a caro prezzo quell’intransigenza che, almeno da fuori, risulta così d’ispirazione, così “potente”. Zott non cambierà nulla, dalla mattina alla sera, ma nell’improbabile esperimento che è la sua esistenza non c’è spazio per i vecchi dogmi. Chi l’ha detto che non ci arriviamo, che siamo meno brave, che il nostro posto è solo questo? Voi? Sarebbe meglio verificarlo, se non vi dispiace. Forza, il laboratorio è per di qua – sembra una cucina? Guardate meglio.

[Sì, sono consapevole dell’esistenza della serie TV ma non l’ho ancora vista, anche se mi garberebbe molto capire com’è. Il fatto che sia prodotta da AppleTV fa ben sperare.]

Credo vi convenga cimentarvi con Ultime interviste di (anzi, a) Joan Didion se avete già letto L’anno del pensiero magico e Blue Nights, perché non tutte le otto conversazioni di questa raccolta gravitano attorno a quella porzione lì della parabola letteraria e tematica di Didion ma la maggior parte sì. Con “ultime”, poi, non bisogna intendere “recentissime”, perché la forbice temporale è ampia. Sì, c’è l’ultima-ultima intervista, ma scoprirete che è anche quella più rarefatta, stringata e anche splendidamente sgarbata. Che altro volete, v’ho raccontato già tutto, sembra volerci comunicare – e ha ragione lei.

Una buona intervista si fa se il soggetto interrogato ha qualcosa da dire e se si fanno le domande giuste. Un’intervista *eccellente* è, in realtà, uno scambio tra due persone che si riconoscono e si rendono disponibili alla reciproca curiosità, scordandosi gerarchie e ruoli per creare qualcosa di autonomo, che per ricchezza sta in piedi da solo e aggiunge un tassello in più rispetto ai punti di riferimento di partenza. Che uno scrittore intervisti bene un altro scrittore non è affatto scontato – genera attenzione perché ti porti a casa due grandi nomi in una botta sola, ma bisogna appaiarli con buonsenso. E anche in quel caso non sai come andrà a finire. Didion qua incontra – tra gli altri – Eggers, Sheila Heiti e Hari Kunzru e, per un attimo, riescono a farci dimenticare che gli scrittori e le scrittrici sono anche gente molto tignosa e dispettosa.

Didion è facile da intervistare? Secondo me no. Un po’ perché si percepisce la sua insofferenza per la banalità ma anche perché le costa chiaramente fatica dover verbalizzare quello che di complesso ha preferito affidare alla scrittura. Parlarle, però, è gradualmente diventata un’occasione ghiottissima, specialmente dal suo ingresso eclatante (e straziantissimo) nella non-fiction autobiografica. Si sa, i drammi tirano. Ma Didion, proprio perché ha fatto delle sue tragedie un reportage e un campo di ricerca letterario, riesce a difendersi anche da chi avrebbe voluto raccontarla concentrandosi solo su quello, riducendola a una pura storia di dolore e strazio. Resta tonda, Didion. Anche se è piena di spigoli.

[Ultime interviste è in catalogo da Il Saggiatore e si può anche ascoltare su Storytel – con una “simulazione” ben riuscita di conversazione.]

Reduce da Tutto è meraviglia di Ann Napolitano e con il Piccoledonnometro già in modalità NON DI NUOVO VI SCONGIURO ho affrontato con titubanza e una certa diffidenza il secondo romanzo di Coco Mellorsil primo, Cleopatra e Frankenstein, mi era complessivamente garbato e ne potete leggere qui, senza la partecipazione di Jacob Elordi o di Guillermo del Toro. Napolitano, bisogna dirlo, è arrivata con un annetto d’anticipo e di questo Coco Mellors non ha colpa. I due romanzi, in fin dei conti, hanno in comune solo la presenza di quattro sorelle protagoniste e, nel caso di Blue Sisters – in italiano lo troviamo sempre da Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, non c’è nemmeno l’intento di incistarsi nelle caratterizzazioni di Piccole donne per creare dei personaggi contemporanei che sembrano condannati dall’infanzia a rimanere incatenati a una specie di vocazione monolitica. Insomma, è un paragone che non ha senso ma che per istinto m’è venuto da fare.

Rogne mie a parte, le sorelle Blue di Mellors – che fanno così di cognome ma sono anche caratterialmente un po’ “blue”, tristi e angustiate – raccolgono a vario titolo uno spiccato talento dinastico per le dipendenze, pur riuscendo mediamente a eccellere in campi molto disparati. 
La prima fa l’avvocata corporate a Londra, s’è sposata felicemente con la sua terapista, è piena di soldi, è sobria da 10 anni e si è lasciata alle spalle un periodo turbolento trascorso in California a farsi le pere.
La seconda faceva la pugile e ha vinto i mondiali.
La terza era un cuore d’oro ma è morta d’overdose da oppiacei tagliati male che prendeva per tenere a bada l’endometriosi.
La quarta ha iniziato a 15 anni a fare la top model.

Cosa succede? Le ritroviamo tutte, sparpagliate e sconvolte per il mondo, un anno dopo la sfortunata dipartita di Nicky. Devono gestire il lutto, la disgregazione definitiva di una famiglia che non ha mai potuto contare su una guida genitoriale solida e le difficoltà che singolarmente le affliggono. La madre, dal niente, informa le sorelle superstiti che intende vendere l’appartamento a Manhattan in cui sono cresciute e dove Nicky è morta. Chi può vada a sbaraccare. Ed è lì che si rivedranno per creare un sistema gravitazionale nuovo. Con immane fatica e numerosi rosponi da sputare.

Sfida un po’ la nostra disponibilità a consegnarci al romanzesco, questa tripletta di successi fuori scala. Per quanto Mellors le azzoppi con droghe, alcolismo e fanatismi sportivi – che fanno del dolore un’altra sostanza che ti risucchia – le Blue sono fin troppo speciali, credo. Dovrebbero essere le dipendenze, che colpiscono indiscriminatamente, a farle tornare sulla terra e a renderle degli esseri umani che possiamo percepire come autentici, ma non per tutte funziona e spesso è l’artificio che prevale.
Mellors ha una sua parabola personale di conquista della sobrietà e non possiamo che gioirne per lei. Qui dentro, il tema si infiltra ovunque e ci trasmette a pieno la potenza di un’ossessione e di una sfida fisica e mentale. Se, da una parte, mi rendo conto che una persona possa finire per diventare la sua dipendenza, dall’altra si fatica a sentirlo reiterare più o meno allo stesso modo per la maggioranza schiacciante delle figure che partecipano a una storia.
Resta però bello sentir parlare i personaggi, è splendido sentirli litigare. Non ho idea di come sia avere una sorella, ma è in quel legame elettrico e negli equilibri sempre fluttuanti del “gruppo Blue” che il libro trova la sua anima e un passo vivo, sincero. Quando Mellors permette a tutte di dimenticare cos’hanno buttato giù, chi fanno finta di essere, quali successoni mirabolanti hanno raggiunto. È lì che ci credi e che le vedi. Non perché ti devi immedesimare, ma perché somigliano a delle persone smarrite. E nel vuoto si prova sempre ad allungare una mano.

Di Laurent Binet avevo già apprezzato moltissimo HHhH – una ricostruzione romanzata dell’Operazione Antropoide, l’attentato a Praga a Heydrich ma me l’ero poi un po’ perso per strada. Nonostante le mie negligenze, mi pare che non abbia mai smesso di dilettarsi con la storia (più o meno lontana) e di collaudare generi diversi. Prospettive – in libreria per La nave di Teseo con la traduzione di Anna Maria Lorusso – mi ha allegramente ripescata da una palude estiva di letture non proprio brillantissime per depositarmi nella velenosa Firenze dei Medici. Qualcuno ha ammazzato il Pontormo e tocca a Giorgio Vasari – solertissimo servitore di Cosimo I – scoprire chi è stato….. e magari anche com’è davvero il muro di San Lorenzo a cui l’artista si è dedicato in gran segreto per più di dieci anni.

Visto che a contare non è solo la materia narrativa ma anche l’esecuzione – così come ai pittori tocca imbroccare il soggetto ma anche dimostrare d’avere una buona mano -, Binet s’inventa una struttura epistolare vivacissima e polifonica, mettendo in piedi un esperimento manieristico che ben si sposa con gli interrogativi “metodologici” della Firenze del tempo – Dürer ha corrotto il nostro sguardo! Savonarola aveva ragione!!1!!1!! Che fine ha fatto il salubre rigore prospettico!!1!

Il Pontormo, in realtà, non è stato assassinato da nessuno e il giallo che Binet confeziona è farina del suo sacco. Si serve però con disinvolto divertimento delle beghe politiche, dell’atmosfera cittadina, delle istanze del popolo minuto, dei conflitti e delle ingerenze fra poteri e butta tutto nel mortaio insieme a un “cast” illustre – da Michelangelo a Cellini -, spaccato da divergenze spirituali, dispetti, vendette e convinzioni profonde (e non sempre conciliabili) sul ruolo dell’arte. Si dipinge per rendere gloria al Creatore o per compiacere il mecenate di turno? E quanto “nude” dovrebbero essere, le creature dell’Onnipotente?

Il ciclo di  San Lorenzo del Pontormo è andato perduto, ma Binet ha saputo scovare (e rimaneggiare) un garbuglio avvincente. Il risultato è piacevolissimo, ricco di dettagli e di umani patemi – per quanto la risoluzione del giallo sia un tantinello estrema. Vasari, che vide davvero gli affreschi, li giudicò orribili, sguaiati e inopportuni e solo in una seconda stesura delle Vite si convinse a inserire il Pontormo fra i suoi grandi – voi, però, non aspettate il benestare di Cosimo I per leggere quel che vi pare. 😎

Di Matrescenza di Lucy Jones abbiamo parlato, ma mi sembra più che opportuno segnalare anche il lavoro di Francesca Bubba, sia perché si concentra sul contesto della maternità in Italia e anche per come sceglie di farlo. I dati che riguardano il nostro paese diventano una chiave interpretativa per moltissimi dei crepacci in cui continuiamo a essere spinte – mentre ci dicono che è ora di spingere, signora – ma anche un punto di partenza per costruire uno scenario diverso. Se dati ed evidenze esistono – per fenomeni medici, socio-economici e lavorativi -, esistono anche per combinarci qualcosa e per aggiungere la maternità tra le molte “opzioni” a nostra disposizione, come soggetti indipendenti e realmente nelle condizioni di scegliere.

Preparati a spingere – in libreria per Rizzoli e anche ascoltabile su Storytel – è un saggio che usa il corpo (anche quello di chi scrive) per parlare del sistema in cui quei corpi sono inseriti, delle aspettative che deformano l’esperienza della maternità e la caricano opportunisticamente di nozioni produttive, d’efficienza e di nobili sacrifici che restringono il nostro orizzonte d’azione, invece di allargarlo. In questi orizzonti piccoli prosperano solitudini che diventano terreno fertile per reti di sostegno fittizie, predatorie e francamente spaventose – che Bubba indaga e mappa. Parecchie sono le pagine che vi faranno arrabbiare, ma vi ritroverete anche a maneggiare quella legittima reazione con un’accresciuta consapevolezza – e forse con un carico più leggero sulle spalle. Non perché le storture strutturali sono magicamente scomparse, ma perché chiamarle col loro nome – e trascinarle alla luce del sole perché le si possa vedere e riconoscere – è l’inizio di un sentiero che va percorso insieme.

Ho senz’altro letto più cose a tema maternità dopo l’abbondante conclusione delle mie gravidanze che nella fascia di caotica necessità di capirci qualcosa che coincide con l’incubazione. Possiamo pure dire che, da gravida, non ho letto niente e che, anche dopo, ci ho messo degli anni a razionalizzare davvero un’infinità di aspetti dell’esperienza fisica, emotiva, pratica e relazionale della maternità. Di certo, mi sembra di essere più capace di “capire” ora, ma dipende anche un po’ dall’arrivo sulla scena di un genere di saggistica che non ha l’obiettivo di spiegarci come si gestisce un neonato ma, invece, sposta il fuoco sull’esperienza delle madri, in un contesto contemporaneo.

Il fatto che i manuali che sperano di risolverci le rogne della nanna, della pappa, dell’allattamento e dello spannolinamento siano andati statisticamente per la maggiore è (anche) il prodotto di un grande vuoto d’interesse, che comincia a concretizzarsi appena un neonato abbandona la pancia per affacciarsi al mondo. Le madri, che per nove mesi sono state monitorate, misurate, analizzate e “gestite” si trasformano repentinamente in soggetti che devono assolvere una serie di funzioni, senza però essere accompagnate da un sistema di cura altrettanto strutturato e imperativo. Per Matrescenza – in libreria per Laterza con la traduzione di Alessandra Castellazzi – Lucy Jones parte proprio da qui, da quel vuoto di studi, attenzioni cliniche e psicologiche e dalle lacune nella sostenibilità della vita quotidiana che accompagna le neo-madri, che sembrano spesso armarsi e partire per conto loro in una missione campale.

Il termine “matrescenza” ha qui il compito di descrivere il periodo – in realtà ben più lungo e articolato di una gravidanza – in cui una donna si assesta nella nuova condizione di madre. Jones, che di lavoro fa la giornalista scientifica, unisce alla sua esperienza (ha avuto tre figli) un ricchissimo sistema di fonti capaci di rendere meno opaco e meno trascurabile questo momento di passaggio. Dagli studi neuroscientifici alle lacune nell’informazione delle gestanti, dagli sforzi per affrontare (o renderci consapevoli) degli strascichi fisici del parto alla necessità di un approccio privo di stigma al sostegno psicologico, Jones parla di corpo per parlare di identità, autonomia, sicurezza, benessere, mente, medicina, legami, lavoro e società.

Chissà, probabilmente da gravida non avrei letto nemmeno questo libro, ma il fatto che adesso ci sia mi fa ben sperare. E finalmente, forse, ho qualcosa da consigliare a chi mi chiede spessissimo “sono incinta! Cosa leggo per prepararmi?”. Magari qualcosa di rigoroso e ben documentato che ti ricordi che continuerai a esistere anche tu, amica.

Allora, io non ho tutta questa dimestichezza con i gialli. Mi cimento quando me li vendono evidenziando una stramberia strutturale – vedi i due Stile Libero di Janice Hallett, L’assassino è tra le righeIl misterioso caso degli angeli di Alperton -, una trovata stilistica o un’ambientazione peculiare, altrimenti è difficile che mi incuriosiscano. Con Uketsu, che in Giappone è una specie di fenomeno, possiamo anche contare sul bonus “personaggio misterioso che staziona su Youtube con una maschera di cartapesta in faccia e nessuno sa chi è”, quindi m’è sembrato legittimo fare un esperimento, considerando anche il lancio molto sostanzioso – anche questo è uscito per Einaudi, con la traduzione di Stefano Lo Cigno.

Ma com’è, questo Strani disegni? Dipende. Perché funziona tutto, ma non sembra un libro scritto da un essere umano – il che forse va benissimo, dato che Uketsu non si presenta come tale ma come una specie di entità astratta. Non è da uno con una tutina nera e un disco bianco sulla faccia che dovremmo aspettarci una penna “viva” e organica, forse, visto che già si propone al pubblico come un macchinario vagamente antropomorfo che genera storie spaventosin-disturbanti.

La storia è divisa in tronconi all’apparenza disparati, che a modo loro fanno provincia quasi autonoma. Son divisi dal tempo e dallo spazio e uno degli aspetti positivi del romanzo è la costruzione di ponti e nessi causali tra tutta questa roba che Uketsu apparecchia per costernarci.
Il titolo è sincerissimo, perché ogni porzione del mosaico poggia su un macro-indizio contenuto in un disegno o in una serie di disegni. Son quasi sempre dei brutti disegni ma, come un po’ tutto il resto, non sono lì per essere belli ma per essere utili: sono prove d’enigmistica all’interno di un grande esercizio, un invito ad allontanarci per mettere insieme i pezzi e scorgere l’impianto complessivo. Io, che sono qua perché i disegni erano il mio pretesto di curiosità, ne ho apprezzato l’utilizzo – anche se la genesi di alcuni è davvero stiracchiatina.

È un romanzo che si prende in mano e più o meno lo si vuole finire senza alzarsi, rimanendone quasi ipnotizzati? Direi di sì, perché è ingegnerizzato per quella precisa ragione – nonostante appaiano a più riprese degli schemini riassuntivi di quello che c’è scritto tre righe prima. Uketsu si impegna assai per rendersi accessibile, mettiamola così.
È anche un’esperienza di lettura orrenda? Per certi versi sì, perché è una scrittura puramente funzionale e quel che fa più paura in assoluto è sentir descrivere gli abissi dell’animo umano con quel tono lì. È come assistere a un massacro tra androidi con la telecronaca di un altro androide, insomma. È una pecca o un segnale di coerenza completa tra autore ed esecuzione? È tutta una gigantesca supercazzola? Un androide disegnerebbe meglio o peggio di Uketsu? È un altro mistero. In un paese in cui anche agli Evangelion venivano concessi carne, destino e sangue, Uketsu si veste da creepy-mimo e quello fa: disturba la nostra quiete con le conseguenze di un antico orrore, delegandoci i risvolti emotivi e lavorando solo col riflesso lontano di quel che dovrebbe essere una persona. Ma la trappola, efficientissima, scatta. 

Incontenibili dinastie di bambini-guerrieri e mini-valchirie popolano Bea Wolfscritto da Zach Weinersmith e illustrato dalla mano favolosa di Boulet –, imprevedibile rielaborazione del mito di Beowulf  e secondo volume della collana Cherry Bomb, curata da Zerocalcare per Bao Publishing. Com’era la prima uscita? Portentosa. E sta qui per chi volesse recuperarla. 

I mostri da combattere appaiono, tradizionalmente, per incarnare un Grande Male, per darci qualcosa di tangibile e reale da fare a pezzi e per aiutarci a identificare eroi, simboli positivi, ispirazioni, guide. Qui il Grande Male è il tempo che passa e che ci fa crescere, trasformandoci in quegli adulti tristi e grotteschi che tanto orrore fanno allo schieramento dei piccoli, invariabilmente rumorosi e spavaldi, disordinati e liberi.
Prodezze e marachelle diventano materiale leggendario e, nel ripudiare sia i grandi che gli adolescenti (agghiacciante trailer del futuro più prossimo), i bambini fondano una sorta di società alternativa in cui le regole imposte dal mondo “cresciuto” sono soppiantate dall’immaginazione, da una gioiosità esplosiva e da un codice basato sulla condivisione, sul rispetto guadagnato in corroboranti fanfaronate, sulla ricerca del divertimento e sull’accoglienza di chiunque voglia rimandare il più possibile l’ingresso nella condizione adulta.

Il materiale mitico di partenza diventa la base per episodi riadattati (spesso a colpi d’orsacchiotto) e per una rivisitazione linguistica: la scrittura di Wienersmith cerca infatti di riprodurne e richiamarne il ritmo, le sonorità e le figure retoriche – un accollo vero per Leonardo Favia, che riemerge vittorioso da una traduzione per nulla agevole.
Sarà vero che crescere comporta per forza la cancellazione di un’epoca selvaggia e prodigiosa? Per quanto ingrigita, mi auguro che qualcosa sopravviva ancora – anche se le caramelle gommose non le ho mai mangiate volentieri.