Dunque, William Sidis è esistito davvero. È nato nel 1898 a New York da una coppia di ucraini emigrati (entrambi brillanti medici dal passato impervio se non invalidante) e pare conservi ancora il primato di Persona Più Intelligente Del Pianeta – almeno secondo alcuni criteri “consolidati” di misurazione. Mai capiti, i test del QI, ma utilizziamoli come dato storico che molto dice anche del contesto in cui sono stati architettati. COMUNQUE. Morten Brask trasforma la vita di Sidis in un romanzo – tradotto da Ingrid Basso per Iperborea –, facendo il possibile per renderci partecipi dell’intima visione del mondo di una mente ineguagliabile. Anzi, il binario è doppio. C’è il cervello di Sidis e poi c’è l’individuo Sidis. E il treno deraglia.
Perché un bambino di dieci anni che tiene una conferenza ad Harvard sulla quarta dimensione non ha vie e piazze intitolate al suo genio e alle sue scoperte? Dove sono le aziende, le invenzioni, i teoremi? Perché una mente simile non ha scalfito il corso della storia? Perché – in sintesi – Sidis ha fatto la stessa fine di noialtri scemi?
La vita perfetta di William Sidis non è un libro memorabile, se dobbiamo dirci “com’è il libro”, ma appartiene alla categoria per me felicissima dei libri che suscitano interrogativi e che utilizzano un “caso” per farci riflettere sulla storia e sulla mutevolezza della fede che epoca dopo epoca decidiamo di riporre in entità più o meno astratte o costrutti disparatissimi.
Per tutta la vita Sidis è stato trattato come una sorta di fenomeno da baraccone e sulle sue prodezze matematiche, linguistiche e nozionistiche sono stati rovesciati fiumi di inchiostro, ma le rotative che tanto aveva alimentato da piccolo con i suoi traguardi fuori dal comune hanno poi finito per triturarlo per la vicinanza e l’attiva adesione, in età meno tenera, alle idee socialiste e al pacifismo. È passato un secolo, ma Sidis è ancora uno degli incubi peggiori del sentire comune: è un talento “sprecato”, un’intelligenza fuori scala che ha scelto deliberatamente di non partecipare, di non lucrare sul suo genio, di non costruirsi un monumento. Sidis potrebbe, ma preferisce di no.
In un mondo – come è ancora il nostro – in cui si trasforma l’assoluta banalità dell’ordinario in qualcosa che dovrebbe ambire alla memorabilità, Sidis zoppica verso una normalità “privata” che gli è sempre stata preclusa. A che serve sapere tutto se è così faticoso esistere in mezzo agli altri? Cosa possiamo aspettarci da un bambino che si trasferisce in un dormitorio di Harvard? Che cos’è l’intelligenza? Immagazzinare all’infinito o sapersi muovere in un piano di realtà?
Brask non ha la più vaga idea – così come non possiamo averla noi – di come “funzionava” davvero Sidis, ma l’onore che gli rende è quello di lasciar affiorare il fardello impossibile di una responsabilità imposta: migliorare un mondo in cui non ci è stato possibile (o concesso) trovare uno specchio o un’isola rassicurante. Sidis è forse percepibile ancora oggi come eroe tragico perché ribalta i nostri assunti radicatissimi sull’ambizione, sull’eccellenza come puntello per l’individualismo, sul “fare” per potersi comunicare migliori e degni, per non svanire senza lasciare traccia del nostro passaggio. Che peccato, direbbero i sempre rumorosi paladini del “se le avessi avute io le tue possibilità!”. Che pace, risponderebbe probabilmente Sidis. Ma che possiamo mai saperne noi, in fondo.




La Grande Era dell’Autofiction ha fatto anche cose buone? Dipende. Ci son traumi su cui si mira a costruire (con furbizia nemmeno troppo mascherata) un rimbalzo emotivo che poco contribuisce alla generale crescita del mondo attraverso la collezione di testimonianze che riecheggiano nell’universalità – così, per farvi capire le pretese che ho quando leggo storie autobiografiche – e ci sono traumi che diventano “materiale” valido perché sono sostenuti da una voce che funziona o che, come in questo caso, sperimenta sul confine sempre complicato dell’umorismo, proprio dove non ci sarebbe un bel niente da ridere.
Utilizziamo, tutti i giorni, strumenti di cui non comprendiamo il funzionamento. Anzi, strumenti che imbrigliano e sintetizzano una sterminata serie di “competenze” che non possediamo come singoli e che,



Hilma Wolitzer è una relativa novità per noi: per la prima volta la troviamo 
È bellissimo. Leggetelo.
Il lavoro dei miei genitori – che era stato “certo” e “fisso” sin da subito e da un’età precoce, per gli standard attuali – occupava da sempre una fetta importante delle loro giornate, ma produceva anche dei benefici tangibili. Lavoravano, ma pareva ne valesse la pena. Lavoravano, ma esistevano delle certezze materiali di cui tutti quanti potevamo godere, ricompensandoli dell’indubbia fatica che per anni han fatto pure loro. Mia madre, dopo un paio di mesi dall’inizio del mio stage, giudicava con manifesto scandalo la mia scarsa propensione al risparmio. Nell’universo in cui era abituata a muoversi lei, infatti, c’erano di certo dei sacrifici e delle decisioni da prendere, ma non c’erano affitti da pagare, futuri più incerti della media e bilanci stabilmente in passivo. Se lavori riuscirai a mantenerti. Se lavori riceverai in cambio il necessario per fronteggiare i tuoi bisogni e gestire oculatamente anche il tuo futuro. Il fatto che non si rendesse conto che, con un rimborso spese di 500€ mensili – o, più tardi, con uno stipendio da neoassunta di 1.100€ -, il risparmio fosse un lusso è un altro tassello del problema. Ero di sicuro io che non sapevo farmi valere o che non lavoravo abbastanza, ero io che non sapevo convertire l’istruzione che avevano profumatamente pagato in un impiego degno del mio blasonato ateneo. E il fatto che la mia azienda avesse un nome importante – uno di quelli che funzionano all’interno di un “ah, sì… siamo molto contenti, mia figlia lavora da…” – tendeva un po’ ad accrescere le dimensioni del paradosso, almeno dal mio punto di vista.
Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Non so se si tratti di una stortura generazionale o probabilmente solo di una difficoltà molto privata e circoscritta ma, arrivata a un’età in cui non ho più motivo di scandalizzarmi se qualcuno mi si rivolge con signora, mi rendo conto di essermi trasformata in una lettrice disabituata alla poesia. Quando la poesia mi “trova” ne rimango affascinata e nutrita, ma si tratta quasi sempre di collisioni fortuite. Recupero con interesse vivissimo il lavoro poetico di autori e autrici che sono solita leggere in prosa o in un universo romanzesco, ma ho quasi sempre il timore di non essere abbastanza *sveglia* per squarciare il velo. Forse mi preoccupo ancora di dover essere interrogata alla seconda ora o di dover elencare a memoria tutte le figure retoriche che riesco a individuare in una strofa. Forse patisco un imprinting scolastico che ben poco ha fatto leva sulla meraviglia e sul potere della parola. O forse mi ritrovo a sgambettare in una bolla in cui ancora resiste il mito della poesia “difficile”, di quest’arte oscura e rarefatta che parla solo a spiriti eletti, alatissimi e immuni dai crucci del quotidiano.
