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La mia ignoranza musicale è assoluta. Non sto scherzando. Non so proprio niente. Classica, jazz, pop, rock… non importa, nella mia testa c’è solo uno sconfinato deserto roccioso falciato dalla tramontana. Ho avuto le mie folli passioni per incredibili band metal-core di omoni tatuatissimi e so a memoria la discografia dei Queen, ma rimango una bestia. Adesso che ci penso, però, alla fine del liceo adoravo follemente anche dei tizi vegani col mascara e una depressione conclamata. Mi piacevano i testi. Non ci si capiva granché, ma c’erano un sacco di immagini super tragiche e storie di solitudini irrimediabili che mi confortavano assai. Comunque, non so una mazza lo stesso. Non me ne vanto, sia chiaro, ma è inutile far finta di niente. Sono anni che cerco di spiegarmi questa atavica avversione, anni. E credo sia cominciato tutto con la faccenda del pianoforte. Visto che ero una bambina bionda estremamente rapida nell’apprendimento e che m’era rimasto un pomeriggio libero – i restanti erano occupati da tennis, ginnastica artistica e inglese… e a scuola facevo il tempo pieno – la famiglia stabilì, dopo una breve ricognizione delle biografie dei principali fanciulli-prodigio del pianeta, che dovevo imparare a suonare il pianoforte, con annesso spin-off solfeggio. Mozart alla tua età era già al cospetto dell’imperatore! E io lì, con un minipony in mano e i calzerotti rosa coi gommini. Ecco. A me suonare il pianoforte faceva schifo. Una roba che m’abbia fatto così schifo nella vita non credo di ricordarmela. Toh, forse il fegato in padella, le lumache senza guscio. La trippa. Ma niente mi faceva incazzare come il pianoforte. La musica, la gioia, il trionfo dello spirito umano. Macché. Spartiti che volano in corridoio. Dopo anni di conclamate rotture di palle, mi sono finalmente decisa a informare i miei congiunti che non intendevo prolungare quello scempio neanche di cinque minuti. Basta, io questa roba non la voglio più fare. Ma fatemi disegnare, no? Che lì è chiaro che sono portata. Coltiviamo il talento, non intestardiamoci a fabbricarlo quando è palese che non ce n’è. Ah, vi piace tanto il pianoforte? E suonatevelo voi, allora.
Superato questo grande scoglio, la musica ha solo vagamente sfiorato la mia aridissima anima. Credo di essere l’unico essere umano sul pianeta che non ha musica nel telefono. Mi piace Elio, perché Elio è un miracolo della creazione. Mi piacciono le musiche arroganti dei film, anche. A Torino, una volta, sono addirittura andata a sentire Michael Giacchino. Ha preso una banda di ragazzini dell’oratorio – giuro sul dottor Spock – e gli ha fatto suonare le sue colonne sonore. Quella è stata veramente una figata cosmica, ma si è trattato di uno sprazzo di isolatissimo buonsenso. Poi il buio, come al solito.
Eh.
Provate dunque a immaginare di ricevere un accorato e coccolosissimo invito per un concerto all’Auditorium di Milano, quello in Largo Mahler, coi corvi finti sui balconi e un casino di marmo da tutte le parti. Ti piacerà, Tegamini, c’è l’Orchestra Verdi che suona… e dietro passano i documentari della BBC. Si chiamano BBC Earth Concerts. Ce ne sono tre. Te vieni al primo, Planet Earth In Concert, poi vedi come gira. La BBC ci ha messo secoli a filmare tutta quella roba, e poi ha chiesto a un compositore – George Fenton – di scriverci su la musica. Te vieni, ti siedi lì e vedi cosa succede. L’orchestra la dirige Danilo Grassi.

G I O I A.
S P L E N D O R E.
M I R A C O L I.

Uccelli pazzi che cercano di sorvolare l’Everest. Elefantini che sbagliano strada e si smarriscono nel deserto. Foreste che cambiano maestosamente colore. LEOPARDI DELLE NEVI. LEOPARDI DELLE NEVI. LEOPARDI DELLE NEVI. Paperotti che si lanciano dagli alberi. Grotte sommerse, piene di robe spugnose fosforescenti di rara e delicata beltà. Coccodrilli che sterminano gnu. SQUALI BIANCHI GRANDI COME AUTOBUS CHE INGHIOTTONO FOCHE AL RALLENTATORE. Caribù neonati inseguiti dai lupi. Volpi artiche che molestano oche. PINGUININI.

Solo un maestoso documentario con gli animali poteva riconciliarmi con la musica. E solo la musica poteva accompagnare con una simile grazia delle bestie così notevoli. Lo spettacolo è diviso in segmenti, agilmente introdotti da una letturina del direttore d’orchestra. Ora vedremo degli orsi polari che escono dalla tana per la prima volta. E alè, orsi e musica. Poi ci sono i predatori, gli elefanti che nuotano, migrazioni colossali, caprette che fuggono, delfini che mangiano pesce in compagnia di pennuti tuffatori. Insomma, habitat diversissimi e creature di ogni genere, che fanno le loro cose splendide da animalini con l’accompagnamento di un’orchestra.
Una cosa emozionante. Ma sul serio. Al coniglietto della steppa Amore del Cuore mi ha dovuta immobilizzare.
La Verdi, durante l’estate, farà delle repliche di questo primo documentario – Planet Earth – e andrà avanti con gli altri due della serie – The Blue PlanetThe Frozen Planet. Io, fossi in voi, ci farei un pensierino. Ma indipendentemente dalla vostra predisposizione alla musica o alle bestie. È un’esperienza di gioiosa immersione audiovisiva che scioglierebbe anche il più coriaceo dei cuori. E poi ci vogliono tre mesi di appostamenti, per riuscire a riprendere un leopardo delle nevi. Tre mesi. Il minimo che possiamo fare è sederci in un auditorium e rimanere a bocca aperta per un paio d’ore.

La pecora è una bestia utile, ma fino ad oggi non sapevo quanto. E’ stato un cretino di Wild – trasmissione mirabilmente condotta da Fiammetta Cicogna – a spalancarmi gli occhi su abissi d’orrore ancora inesplorati. Bear Grylls appartiene alla deplorevole categoria di avventurieri che i produttori di documentari-spettacolo paracadutano su zone impervie allo scopo di offrire al famelico e sedentario pubblico un succulento collage di imprese schifose, potenzialmente (ma non abbastanza) letali e del tutto prive di senso. Qua, ho avuto l’ardire di assistere a questo Bear che va a sopravvivere in mezzo a una brughiera irlandese.
Cos’ho imparato? Per campare, serve una pecora morta.