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Luglio 2013

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TEGAMINI – Amore del Cuore, ma dove sono le Azzorre, di preciso?
AMORE DEL CUORE – …sono un po’ più in là delle Canarie.
TEGAMINI – Pensavo peggio.
AMORE DEL CUORE – Perché?
TEGAMINI – Perché potremmo andare là, in vacanza!
AMORE DEL CUORE – …
TEGAMINI – Massì, c’è la natura, ci sono le rocce vulcaniche, c’è l’acqua splendente, ci sono le balene!
AMORE DEL CUORE – Balene.
TEGAMINI – Ce ne sono tantissime, megabelle. L’ha detto Philip Hoare! Lui c’è stato e ci nuotava insieme… non vuoi nuotare con le balene? A Philip Hoare piacciono molto anche le balene dell’Artico, ma ho pensato che forse preferivi andare un po’ più al caldo in estate… quindi possiamo lasciar perdere la Groenlandia, per qualche tempo. Cosa dici? Ma lo sai che Melville c’è andato davvero, su una baleniera? Ma lo sai che il Physeter macrocephalus sta in una famiglia naturalistica tutta sua, che di bestie simili-simili non ce ne sono? Pensa, ha solo i denti di sotto, il capodoglio! E i calamari giganti esistono davvero e il capodoglio li mangia! Ma t’immagini? CAPODOGLIO vs CALAMARO GIGANTE!

Amore del Cuore, non ancora pronto ad affrontare un tale entusiasmo balenifero, mi ha lasciata sola a farneticare di cetacei, spermaceti, arpioni, fanoni, remore e vertebre. Ma posso sempre ammorbare voialtri. Perché ho letto Leviatano, mi sono divertita immensamente e adesso so anche mucchi e mucchi di cose, un po’ zoologiche, un po’ economiche, un po’ letterarie e un po’ sentimentali.

Mentre scorrazzano per i mari, i capodogli non si curano se sia giorno o notte. Come tutte le balene respirano in modo volontario e devono dunque rimanere svegli con metà del cervello quando si riposano. È quasi sicuro che sognino. A volte,dopo aver mangiato a sufficienza, fanno una pennichella tutti insieme, mettendosi in perpendicolare, come pipistrelli, con lo sfiatatoio sopra il pelo dell’acqua. Gradiscono il contatto reciproco e passano ore a strofinarsi e rotolare l’uno sull’altro appena sotto la superficie: «Sembra che si vogliano tutti bene, – dice Jonathan Gordon per descrivere questo balletto subacqueo. – Non è raro vedere individui che si tengono delicatamente per le fauci».

Teniamoci per le fauci!

In questo libro misterioso e bizzarro – scritto da Philip Hoare, l’uomo al mondo che più ama le balene, tradotto dai prodi Duccio Sacchi e Luigi Civalleri per le sempre adorabili Frontiere Einaudi – c’è tutto quello che serve per esplorare le profondità marine e tornare a galla per respirare con un bello sbuffone dallo sfiatatoio (N. B. se una balena che ha il raffreddore vi colpisce con il suo portentoso soffio, quando torna a galla, ebbene, il raffreddore ve lo prendete anche voi).
Comunque, Leviatano comincia con la storia di Moby Dick e delle ossessioni del suo autore, ci racconta le vicende dell’industria baleniera americana e i primi tentativi – sull’approssimativo andante – di studiare le creaturone più imponenti dell’oceano. Ci sono animali che si arenano sui litorali, richiamando l’attenzione di monarchi, principi e pittori. Ci sono lunghi viaggi, pericoli terrificanti, acque calde e acque gelide. C’è un beluga malinconico in un acquario di Coney Island e c’è la megattera che fa più versi di tutte le altre balene del pianeta. C’è la caccia con l’arpione e la descrizione di tutto quello che si può ricavare, ahimé, da una balena. C’è la balenottera azzurra appesa al soffitto del Museo di Storia Naturale di Londra, un affare gigante e molto realistico, costruito alla vigilia della Seconda guerra mondiale in una sala allestita appositamente… che le balene erano diventate TRENDY e la gente le voleva vedere.

Cinque anni dopo, nell’aprile del 1937, il capotecnico e imbalsamatore ufficiale del museo, Percy Stammwitz, si dichiarò disponibile a costruire il modello direttamente nella sala. Aiutato da suo figlio Stuart, impiegò quasi due anni per completare l’opera, basandosi sui dati forniti dalla spedizione scientifica nella Georgia del Sud. Seguendo giganteschi modelli di carta simili a quelli dei sarti, si tagliò il legno necessario per creare le varie parti dell’armatura e le stecche per tenerle assieme. Il tutto fu poi ricoperto di fil di ferro, sopra il quale fu modellato lo strato esterno di gesso. Era un lavoro lungo e faticoso. Durante la costruzione l’interno fungeva da tavola calda per le maestranze (nel 1853 Benjamin Waterhouse Hawkins ebbe l’idea di organizzare una festa di capodanno tra scienziati dentro il suo modello di iguanodonte ancora da completare, un evento che fu descritto dalla stampa periodica come una riunione di moderni Giona inghiottiti dalla balena).

Insomma, si fanno scoperte meravigliose – il cervello del capodoglio pesa sette virgola otto chili! Che roba è l’ambra grigia e per quale ragione olezza così tanto? Ah, che orrore! – e ogni tanto passa un serpente di mare mitologico. Conosceremo dinastie di cacciatori, marinai specializzati nell’intaglio di denti di capodoglio – J. F. K. li collezionava, pensa te -, leggende del mare e terrori atavici. E, finalmente, qualcuno ci rivelerà a che serve il corno del narvalo. Ma vi dirò di più, Philip Hoare, sui narvali, la pensa come me.

Anche nel narvalo ritroviamo la mesta bellezza del beluga, un’aura ferale suggerita dal suo stesso nome, derivato dall’antico norreno nar e hvalr, ovvero «balena cadavere», perché le chiazze della sua livrea ricordano le livide macchie dei corpi senza vita (…). Ciò non toglie che l’emblema della malinconia del narvalo risieda proprio nella sua caratteristica piú appariscente, sottolineata dal binomio del suo nome scientifico: Monodon monoceros, ovvero un solo dente e un solo corno.

BALENA CADAVERE.
MALINCONIA.
Povero, povero narvalo.

La zanna del narvalo è infatti un grosso dente vivo, che crescendo perfora il labbro sul lato sinistro della bocca e si avvita a spirale fino a sfiorare, e addirittura superare, i tre metri. (…) Le recenti analisi al microscopio elettronico hanno svelatola vera magia racchiusa nel dente del narvalo. La sua superficie,a differenza di quella dei denti normali, è attraversata da tubuli aperti verso l’esterno e connessi con i nervi interni.Il corno in pratica è un gigantesco organo sensoriale, fornito di decine di milioni di terminazioni nervose che permettono all’animale di registrare i piú lievi cambiamenti di temperatura e pressione. Si spiegherebbe cosí, tra l’altro, l’abitudine che hanno i narvali di sollevare il corno fuori dall’acqua, quasi annusassero l’aria. Altre ricerche hanno mostrato che questo dente, oltre a essere una sonda sensoriale, può anche fungere da trasmettitore e ricevitore acustico ed elettrico.

IL DENTE DEL NARVALO SERVE A MILLE COSE!
IL MONDO È UN POSTO MERAVIGLIOSO!

Ma ricomponiamoci, dopo questo momento d’euforia per il narvalo e le balene dell’Olartico – pagine bellissime, BELLISSIME, c’è persino il disegnone di un unicorno -, che bisogna concludere con dignità e un qualche genere di autorevolezza.

Leviatano mi è garbato immensamente. Philip Hoare è così felice di raccontarti tutte quelle storie sulle balene che finisci per appassionarti quanto lui. Io ho chiuso il libro e ho quasi pianto, consumata dal rimorso per essermi mangiata una bistecchina di balena quand’ero a Oslo. Philip Hoare, perdonami, non sapevo cosa facevo. Non conoscevo ancora la mirabile struttura del cranio del capodoglio o la complessità dei suoi rapporti sociali. Andrò all’inferno. Sprofonderò in un abisso pieno di furibondi calamari giganti. Comunque, se volete nuotare insieme al buon Hoare e alle musicalissime megattere, se volete partire per un viaggio con Ismaele – e capire, finalmente, anche le cose più astruse di Moby Dick – o anche solo imparare meraviglie sugli animali più grandi e difficili da studiare del nostro allegro pianeta, ecco, allora Leviatano vi garberà. Anzi, sarete tristi quando finirà… ecco una buona GIF in grado di riassumere i miei sentimenti:

***

P.S. Questa frase è straordinaria. Una cosa orribile, è vero, ma se cercherete di immaginarvi la scena sarà la fine.

A regnare sovrana era una palese indifferenza per la dignità degli animali, come illustra ancora il fatto che il personale delle stazioni antartiche di caccia alla balena era abituato a ravvivare il fuoco dei falò gettandoci sopra i pinguini come grasso da ardere.

Fra sei giorni e rotti minuti sarò in ferie. Ma saperlo non mi aiuterà. Mi aiuterà moltissimo, invece, pensare intensamente a qualcosa di insopportabilmente carino, tenerello e scaldacuore.
Con il patrocinio del volpino di Pomerania – mascotte ufficiale dell’operazione “Carinerie confortanti per i momenti difficili” – un pratico elenco di immagini semplici e banalissime che fanno del bene. Almeno a me.

 

Fresche fochine monache neonate, bianche come la neve, da usare come cuscino.

Lanterne di carta che volano, con dentro le candeline.

Pasticcini tondeggianti ripieni di minuscoli frutti di bosco.

Infradito numero ventinove, a forma di pulcino.

Le orchidee che si rifiutano di morire, perché sanno che non le tratti male apposta.

Le casette per i pipistrelli. E i pipistrelli che mangiano le zanzare.

La gente che ti telefona nel raro istante in cui hai voglia di rispondere.

Andare al cinema da grandi a vedere i film da piccoli. Però coi popcorn da grandi.

Usare discretamente le forbici con la mano sinistra.

Usare discretamente le bacchette con una qualsiasi mano.

Lontre piccole e molto espressive, lontre con le manine palmate che salutano.

Quando ti regalano delle cose e non capisci perché.

Ricevere un bel soprannome, tipo LADY MIDNIGHT.

I romanzi russi che ti piacciono sul serio. O che ti mettono molta ansia.

I cuscinetti sotto ai piedi di Ottone che diventano caldissimi quando gioca/corre/sclera.

Buttare via la carta. A pallette.

Jeoffrey Baratheon che prende dei nomi dal  suo elegante nonno.

Amore del Cuore che ogni tanto si sbuccia le ginocchia.

La pacifica consapevolezza di aver già fatto la spesa.

Capire senza i sottotitoli.

Sbagliare le vacanze ma prenderla bene, tutto sommato.

Cestini di cuccioli. Divani di cuccioli. Praterie di cuccioli poffosi. Cuccioli che rotolano e gorgogliano.

PER COERENZA, LA RECENSIONE DI PACIFIC RIM DOVREBBE ESSERE TUTTA IN MAIUSCOLO. E SE SOLO FOSSI CAPACE DI AUMENTARE LE DIMENSIONI DEL CARATTERE LA SCRIVEREI PURE PIU’ GROSSA. VISTO CHE NON SO FARE NIENTE DEL GENERE E CHE DOPO TRE RIGHE DI STAMPATELLO COMINCIO A SENTIRMI A DISAGIO COME QUANDO SI PROVA A CHIACCHIERARE IN DISCOTECA, CREDO CHE MI RIDIMENSIONERO’. MA NEL MIO CUORE C’È TUTTO UN TRIPUDIO DI CARATTERI CUBITALI, E VE LO DIMOSTRERO’! GO BIG OR GO EXTINCT!

SANTO CIELO, COME MI SONO DIVERTITA.
È COME SE FOSSE ARRIVATO UNO A DIRMI CHE I CARTONI ANIMATI SONO VERI.

Pacific Rim è una gloriosa celebrazione delle nostre lontane infanzie. Tutto è grosso, fosforescente, stereotipato, fumettoso, rumoroso, semplicione e pieno di lucette e accartocciamenti. Ruggiti, mazzate, devastazione, macchiette assolute, pepperepé musicali e unioni che fanno la forza. Alla terza volta che ho visto un pilota di jaeger che tirava su i pugni per spaccare il testone a un kaiju li ho tirati su anch’io. Quando ho visto i russi, poi, non vi dico, credo di aver sgambettato. Se avessi avuto un colbacco me lo sarei cacciato in testa.

Ma quanto sono meravigliosi, nella loro infinita improbabilità? Ma sono anche più belli dei cinesi sul robottone con tre braccia e lama rotante. Cioè, i russi guidano un coso che si chiama CHERNO ALPHA e somiglia a un ferro da stiro che ha avuto una brutta giornata. E niente, accetterete l’esistenza di due personaggi del genere perché il buon Del Toro – ma quanto gli piacciono gli ingranaggi e i bulloni, a Del Toro? – vi ha già abbondantemente mostrato ogni genere di enormità. Creature di milioni di tonnellate che rosicchiano i palazzi e corrodono interi quartieri con delle bave fluo super acide. Robot mezzi rotti che collassano su litorali dimenticati. Variegati terrori che emergono da portali in fondo all’oceano, così, perché la vita è ingiusta. E troverete il tutto estremamente rilassante, accetterete ogni cosa con serenità e gioia. E poi, una volta che vi sarete abituati all’intrinseca assurdità di quello che state vedendo – abbandonando consapevolmente la speranza di sentir dire a qualcuno una battuta che non sia una tonante spacconata e/o un bel luogo comune -, comincerete a fare il tifo. Io ho iniziato a sbracciarmi quando Gipsy Danger ha fatto partire il PUGNO-GOMITO, o come diamine si chiamava. L’apice della felicità, però, è la battaglia di Hong Kong. Sono convinta che l’ingegno umano non riuscirà a partorire nulla di più bello di un jaeger che si avvicina a grandi falcate a uno di quegli schifoni anfibi pieni di denti brandendo UNA PETROLIERA. Concretamente, non riesco a capire che cosa ci sia di così bello in un robot che prende a sganassoni un kaiju degli abissi con UNA PETROLIERA. Non me ne capacito, a livello razionale. So solo che ero felice come una bambina. Ci sarei stata delle ore, a vedere entità gigantesche che si percuotevano con delle imbarcazioni. Ma poi, che meraviglia era il kaiju grasso – felice incrocio tra un gorilla, un lottatore di sumo e un carlino – che lancia un’onda elettromagnetica scassa-macchinari dalla cima di quel suo cranio pieno di pistilloni frementi? E quanto era ancora più bello l’altro kaiju – quello che prende la petroliera in faccia – che si trasforma all’improvviso in un astiosissimo pterodattilo? Il momento pterodattilo ha risvegliato in me ogni genere di entusiasmo infantile. Al momento “tagliamolo in due con l’agile spadone seghettato in dotazione al nostro jaeger analogico” ho esultato, ammirando il maestoso orizzonte terrestre pieno dei pezzi maciullati del maligno creaturone.

Del Toro, diciamolo, coi mostri è sempre stato bravo. E i suoi kaiju sono belli sul serio. Tutti diversi ma anche tutti familiari, per qualche strano motivo. Un po’ coleotteri, un po’ coccodrilli, un po’ serpenti o scimmioni, sono delle bestie spaventose di un altro pianeta, ma qua e là, nei loro corpaccioni incasinati, c’è sempre qualcosa che possiamo riconoscere. E quando te ne accorgi ti spaventi davvero, perché smettono di sembrarti entità astratte e, anche nella loro infinita improbabilità, cominciano quasi a diventare plausibili. E poi sono interessanti. Hanno i loro poteri, i loro attacchi, sono dei cosoni complicati e, ogni volta che ne sbuca qualcuno per azzannare un ponte, sai bene che non vedrai lo stesso combattimento che ti ha fatto agitare i pugnetti in aria quindici minuti prima. Viva i kaiju e la loro immane varietà… anzi, fossero così avvincenti pure i personaggi, saremmo a cavallo.

Io dei personaggi non volevo nemmeno parlare, perché se tiri a mano un personaggio poi devi anche soffermarti su quello che dice e su come lo dice… e qua sarebbe meglio mettersi lunghi e distesi su una zattera appena sopra la breccia-portale-ingresso-kaiju. Inghiottici, kaiju gigante! O almeno, azzannaci le orecchie. Diciamolo, perbacco: i Power Ranger avevano una vita interiore ben più ricca di questi piloti di jaeger.
La povera Rinko Kikuchi, che l’avevano pure nominata a un Oscar, non fa altro che sgranare gli occhi. Io non so perché, ma passa metà del film a girarsi di scatto con due occhi così, come una foca monaca che ha appena preso una mazzata sul cranio, PAM! La sua versione piccola e disperata – con cappottino azzurro e scarpetta di vernice rossa -, è invece di un’espressività commovente. Quel che sospetto è che, in realtà, non piangesse tanto per il kaiju gigante che aveva appena sterminato la sua famiglia, quanto per la recitazione surreale della sua controparte adulta. Bei capelli, certo, ma santo il cielo.
L’altro marimittone biondo che guida Gipsy Danger non è da meno. Dovrebbe essere un’anima ferita, uno che ha sentito morire suo fratello con tutte le sinapsi a sua disposizione, uno che ha perso ogni ragione per vivere e passa il tempo a dare martellate a un muro inutile in Alaska. Ecco, noi dovremmo assistere alla trasformazione di questo reietto in un baluardo di speranza, in un eroe capace di vendicare l’intera umanità. E invece zero, tutte le volte che lo inquadrano ci ritroviamo a sperare, segretamente, che tornino a farci vedere un personaggio a scelta tra A) tizio hipster con basettoni, bretelle e farfallino (la sua unica funzione è osservare un display e annunciare l’arrivo di un nuovo kaiju. Se c’è proprio del dramma gli fanno anche dire di che categoria è e come si chiama) – B) matematico zoppo con la sindrome di Asperger – C) il biologo nerd, iperattivo come uno scoiattolo che ha passato la vita a rossicchiare semi di caffé, che dovevano fargli fare uno degli amici di Sheldon Cooper ma poi hanno capito che non era brutto abbastanza per essere sfigato sfigato davvero.
Sarò poi io che non ho capito, ma in base a che cosa si è deciso che Rinko e Marmittone Biondo – che mai s’erano visti in vita loro – erano così assolutamente adatti a guidare un robottone insieme? È perché lei continuava a sbirciarlo dal buco della serratura (con tanto di sobbalzo e sgranata d’occhi quando è passato mezzo nudo)? Per le quattro bastonate che si son dati davanti a tutti? Perché entrambi nascondevano traumi profondissimi e sconcertanti? Boh. A me sembravano due concorrenti del Grande Fratello. Sai no, quando arrivano nella casa, che nessuno sa chi è nessuno e dopo ventisei minuti si amano tutti alla follia? Ecco.
Palma imperitura dell’odio, però, va al cane di papà-figlio-Australia. E se mi venite a dire che quei cani lì sono belli e/o dolci, nella loro bavosa goffaggine, vi meritate una cataratta. Ron Perlman, ne sono certissima, la pensa come me… anche perché il cane lo si vede molto più spesso del suo spregevole e godibilissimo contrabbandiere di pezzi di kaiju.

Tutto quel pippone lì sui personaggi l’ho scritto solo per far vedere che non ho perso la voglia di criticare. Volevo però anche dirvi che è un discorso del tutto inutile: mettersi a questionare sulle espressioni più o meno ridicole di Rinko Kikuchi non ha alcun senso, così come recriminare per la buffa serietà marziale di Idris Elba. Se va avanti così, a fare parti da albero parlante – Heimdall! -, Idris Elba camperà cent’anni senza manco una ruga.
Comunque, non agitatevi, che non serve: al minuto uno vedrete un iguanodonte crestato alto ottanta metri che sgranocchia un viadotto e non ve ne fregherà più niente di niente.
Non vi sembrerà strano che bastino dieci elicotteri per trasportare a pelo d’acqua un jaeger che pesa come un Gesù. Non vi chiederete come sia possibile che a furia di mollare mazzate a bestie acide i robottoni non si ritrovino coi pugni tragicamente corrosi. Non batterete ciglio di fronte alla signorina Mori che nuota allegramente con tanto di armatura e stivaloni piombati, galleggiando con l’agilità di un delfino saltatore.
Nulla di tutto questo riuscirà a scalfirvi, perché ad un certo punto Marmittone Biondo e Rinko schiacceranno un bottone rosso con su scritto SWORD e ciao, insieme a un kaiju urlante e sputacchioso il buon Gipsy Danger affetterà in due anche il vostro cervello. L’emisfero sinistro vi spingerà a gettare per aria dei popcorn e ad emettere suoni inarticolati. L’emisfero destro governerà l’altro braccio, che deciderete di preservare così com’è, bello lindo e morbido, per farvelo ricoprire di tatuaggi di kaiju. E niente, sprofonderete felici nella magnifica insensatezza di questo film. Pacific Rim farà contento il vostro cuore, come il più gigantesco e ben fatto dei cartoni animati della vostra infanzia… e uscirete con un unico rimpianto: il Megazord di jaeger, perché non han fatto un Megazord coi jaeger? C’è un sequel, vero? MEGAZORD, vi prego, fate un MEGAZORD!


Non sarò una FESCIONBLOGGHER con tesserino di riconoscimento e cane ripugnante al seguito ma, se permettete, le borse piacciono pure a me. E quindi mi impiccio – e a gratis, mossa dal puro e semplice entusiasmo, che tanto se faccio finta ve ne accorgete subito.
Dunque, grazie a uno dei bellissimi Almeno tre cose di Zeldawasawriter, ho scoperto che al mondo c’erano le cartelle di le grenier de vivi. Mai al mondo avrei pensato che potesse piacermi una cartella, ma credo sia perché ne ho sempre viste di orribili. Fosforescenti, con le borchie, piene di pirolini e teschi, squadrate e dure come il mattone. Tutte uguali, noiosone e spigolose. Che siamo, degli ufficiali della Gestapo?
Ecco. Qua no, qua sboccia la poffosità. Il logo di le grenier è un cavallino a dondolo. Ci sono colori pastello, forme tondeggianti, ghirigori da piattini delle bambole. E mi sono subito sentita molto a mio agio. Anzi, pure incuriosita: ma da dove verranno? Chi se le sarà inventate? In un giorno di particolare risolutezza, dunque, ho gettato il cuore oltre l’ostacolo e ho mandato qualche domanda a Valentina D’Amato… e sotto le adorabili cartellette-rosette potete leggervi l’intervista.

Non sono molto da cartelle. O meglio, non lo ero. Sarà che non mi garbano i colori fluo o la pellaccia dura dura da anfibio Dr Marten’s (le mie non si sono MAI ammorbidite. Al solo pensiero ancora mi si spellano i calcagni). Poi, però, saranno i cavallucci a dondolo, saranno le fantasie da teiera della nonna, saranno i colori, ma mi sono convertita. Come si sceglie la stoffa per una cartella-fiaba? Perché è così che le vedo io, sono borse-fiaba.

È una questione di cuore, occhio, istinto. Ho sempre amato quel mondo segreto che sanno creare e vivere i bambini, fatto di stupore, curiosità, il perdersi nella ricerca di qualcosa che colpisca e attiri l’attenzione. Ecco, questa è la stessa cosa che accade a me quando inizio la ricerca di un tessuto.

Sempre parlando di stoffe, dov’è che si trovano delle meraviglie del genere? Anzi, facciamo che ci racconti anche il luogo di approvvigionamento più bizzarro, che fa poesia.

In Italia siamo pieni di bravissimi tessutai che hanno archivi che nascondono meraviglie. Uno dei più magici per me si trova in un piccolo paese in provincia di Como: varchi la soglia di un magazzino in una strada isolata e ti si apre un mondo!

Dieci anni dieci da Moschino, e poi un marchio tutto tuo. Ci vogliono sogni, ci vuole coraggio, ci vuole della sana incoscienza, insomma, cosa ci vuole per iniziare un’avventura così?

Non so se si tratta di coraggio, ma dell’istinto che ognuno di noi ha e dalla decisione di assecondarlo o meno. Per me è stato fondamentale decidere di fermarmi e ascoltarmi, è una sensazione bellissima che ripaga degli sforzi che ne conseguono nel decidere di cambiare rotta.

Com’era la prima borsa che ti sei inventata?

In realtà era uno zaino… ed è in programma l’idea di  realizzarlo per farvelo conoscere, quindi stay tuned!

Ma abiti davvero in campagna? Anatroccoli e tutto?

Sì, tra i cavalli, che sono il mio mondo, e tanti altri animali.

Che cosa hai in mente per il futuro delle tue cartelle e del fido cavallino a dondolo?

Continuare a rimanere in questo mio mondo un po’ fiabesco e preppy con nuovi modelli che verranno aggiunti in futuro.

 

Se quella meraviglia di roba che ha disegnato Leo Ortolani è una recensione che non serve più, figuratevi un po’ la mia. Ma che volete fare, i supereroi sono ormai una tradizione, qua nei Tegamini, mica potevo risparmiarvi le mie fondamentali riflessioni sul marmittone di Kripton, che poi magari pensate che sono diventata una personcina come si deve, che passa lo Swiffer e si alza all’alba per farsi la piega. Che è.

Orbene.

Dei Superman originali, quelli con Christopher Reeve che volava a pancia in giù su una tavola di legno, mi ricordo che li davano in tv in tre parti. Era una cosa inaudita. Fine primo tempo. Fine secondo tempo. Mi ricordo anche delle strida insopportabili di Lois Lane e delle mattacchionerie di Gene Hackman, che aveva un complesso termale in casa e degli scrigni pieni zeppi di kriptonite nascosti da tutte le parti, pure nella scarpiera. Di Superman Returns, invece, mi ricordo solo che faceva schifo pure ai cani morti. E ho visto anche Smallville, per un po’ di tempo. Era di una stupidità unica – sceneggiatori, per quante volte pensate di potervela cavare con “nessuno ha visto Clark in azione perché tutti quanti han preso una botta in testa e non si ricordano niente/hanno ingerito una tossina azzera-memoria/la peperonata ha offuscato i sensi dell’intera città”? Datecela pure a noi, una tranvata in testa, che almeno ci allineiamo alla popolazione della ridente cittadina del Kansas -, dicevo, a parte la cretinaggine cosmica di Smallville, io e mio padre stavamo lì perché ci piaceva Lionel Luthor, uno così bastardo da far credere a suo figlio di essere cieco, ma per diversi decenni. Comunque, vagamente menomata e/o sostenuta da tutto questo bagaglio supermaniano, mi sono avviata al cinema con una certa fiducia. Insomma, Superman – proprio per tutti quei trascorsi lì – non è mai stato il mio supereroe del cuore, quindi evviva, se mi piace bene, se non mi piace mica mi straccio le vesti. Fantastico. Visto che tutti quanti avete già visto il film, procederei con agili osservazioni in ordine sparso, che tanto bene fanno alla fantasia.

Direi di parlare subito di un fatto di rara rilevanza: i mutandoni.

Il mantello Superman non ce l’ha perché gli serve. Ce l’ha perché sa che a volare in giro col sederone per aria, foderato di rosso, non ci fa una bella figura. E’ anche un po’ per quello che sia il buon Reeve che quel Brandon-Kebab-Routh hanno dei mantellini che arrivano sotto al ginocchio, così, né lunghi né corti. Sono mantellini sfigati e si capisce benissimo che, una volta celato il Super Sedere, a nessuno gliene importava più niente di farli ricadere maestosamente a terra. Ora, quel gran figlio di Kripton di Henry Cavill, invece, ha mantello da vendere. Un glorioso viluppo di stoffa degno del miglior Spawn. E perché il mantello del nuovo Superman ha finalmente un senso, in tutto il suo fantastico e magicissimo ondeggiamento? Perché gli hanno finalmente tolto i maledetti mutandoni, liberando per sempre il supereroe più vetusto del mondo dall’increscioso problema del deretano rosso. Coriandoli!

Sono belli, i costumi, poche storie. I vecchi rincoglioniti di Kripton sembravano un po’ usciti dall’ultima sfilata di Dolce&Gabbana – quella con tutte le madonnazze d’oro zecchino, le corone e i gingilli penzolanti -, ma applaudo con entusiasmo, dall’alto del mio esigente gusto baroccheggiante-fantascientifico. Diamine, sembrava tonico e compatto persino quel SUFFLE’ gigante di Russel Crowe. I cattivi erano molto interessanti, soprattutto la stronzaccia supersonica col rossetto sempre in ordine, pure a lei hanno donato un gran mantello… sembrava un cormorano zuppo di petrolio, che per una generalessa spaziale di rara malvagità è un effetto molto appropriato. Forse erano un po’ troppo corazzati, i supercattivi, ma mi è venuto in mente solo alla fine, quando è rimasto in tutina da sub pure Zod. Ecco, a Zod dovevano dargli da mangiare qualche cinghiale di più, che vicino a quella santa abbondanza di deltoidi e bicipitoni di Cavill sembrava un po’ un cucciolo di iena.


Padre, non ti deluderò. Ora che so dove vanno le mutande, la Terra è salva.

Faora, millemila anni nello spazio profondo e nessun danno per lo SMOCHI AI.

Zod, che sembra un po’ un cosplayer che va in giro a fare Megatron con una cinghia del motorino attorno al collo.

Insieme alla costumaglia, ho apprezzato parecchio anche le buffe navi kriptoniane. La seppiolona terraformante era magnifica, soprattutto quando ha iniziato a funzionare. Sarà che ero una pippa ad Angry Birds Space, ma tutte le robe con gravità strana, palazzi che si accartocciano e aerei militari che vanno in orbita intorno a congegni alieni ormai mi intrigano un sacco. Avrei qualcosa da dire sull’architettura del pianeta Kripton – e sul fatto che tutti i mondi abitati da alieni super evoluti si somigliano… vedi Vulcano -, ma siamo in fascia protetta e di giganteschi peni a propulsione non si può parlare.

Ma che dire della storia di Kal-El? Ho apprezzato i saltabeccamenti passato-presente e, nonostante la faccenda patetica del cane in mezzo al tornado, il piccolo Clark e i suoi rustici ma saggi genitori non sono stati una disgrazia. Temevo le scempiaggini retoriche alla Smallville e il massiccio ricorso alle botte in testa azzera-memoria, ma il povero Kevin Costner è decorosissimo e ragionevole. Figlio mio, sei un alieno in un paese di bifolchi, vedi un po’ te. Forse è anche un po’ per quello che papà Kent ha finito per preferire il cane, accettando di buon grado di crepare in un turbine di lamiere e tronchi d’albero. Del padre-padre di Superman ho un’opinione meno scaldacuore. Di Jar-El conservavo un ricordo marlonbrandesco: un po’ apparizione mistica, un po’ voce del destino. Russel Crowe qua è una specie di ingombrante bug del computer di bordo di navi stellari a caso. Paf! Tu sei Kripton! Paf! Ferma Zod! Paf! ‘Spetta, che mi son dimenticato di aprirti la porta. Paf! Eccoti un bel costumino. Paf! Non è una S, è una SPERANZA. Ma padre, speranza inizia per S. Figlio, per queste pidocchierie lessicali vai a parlare con Lois Lane. E affrettati, sta precipitando, come al solito.

Figlio, è inutile che mi guardi così. Non mi hanno installato il plug-in ABBRACCI.

Ecco, nonostante tutto, mi sembra che il giovane e aitantissimo Superman sia venuto su piuttosto bene. Ha quello che un tormentato eroe solitario DC deve avere – inclusa la totale assenza di senso dell’umorismo e attitudine alla spensieratezza della vita – ma gli succedono delle cose che lo fanno cambiare e lo fanno crescere. E scusatemi se sono all’antica, ma a me i personaggi che si evolvono fanno sempre un gran piacere. Alla luce di questa incoraggiante premessa, dunque, mi chiedo che bisogno ci fosse di calcare la mano sulle analogie Superman-GESOO. E Superman va in chiesa a confidare i suoi tormenti. Dietro gli mettono questo mastodontico vetratone policromo con un Cristone ancora più grosso di lui. Lo interrogano e la prima cosa che gli fanno dire è che ha 33 anni. Ma allora sei proprio GESOO! Autorità, mi consegno a voi, guardate, vi fluttuo davanti già in posizione-crocifisso, va’ che bravo. Capisco che là fuori ci sia della gente un po’ dura di comprendonio, ma sul metaforone religioso-salvifico potevano andarci anche un po’ più delicati. Che cavolo, è uno che vola, spara raggi laser dagli occhi e si ripiglia da ogni male se lo metti al sole, che altro deve fare, vagare per il deserto e raddrizzare gli storpi?

La roba che mi ha convinto di meno, anche se dovrei amare le mazzate e divertirmi come tutti gli altri bambini delle medie, sono proprio i combattimenti. La sfida finale tra Superman e Zod era puro Dragonball, solo che Dragonball aveva quasi più PATOS. E Goku e Vegeta, lasciatemelo dire, hanno sempre avuto il buongusto di allontanarsi dai centri abitati. Quando sono finiti a prendersi a pugni sul satellite credo di essermi lasciata andare a un sonoro MAVAFFANCULO. L’unico aspetto positivo delle variegate distruzioni di Metropolis e Smallville sono le robe da allegro nerd che spuntano a destra e a sinistra. Io ho visto solo un camion della Lexcorp, ma poi ho scoperto che ci sono mille altre comparsate geografico-aziendali – tipo il satellite della Wayne Enterprises – che fanno proprio felicità.

Per finire – omettendo ogni genere di riflessione su Lois Lane, personaggio-pacco per eccellenza -, mi domando che mai dovrà fare il buon Clark Kent nel futuro… a parte andare al lavoro con su un paio d’occhiali che non ingannerebbero manco Santa Lucia, intendo. Io, scusatemi, ma la sospensione dell’incredulità su Clark Kent in borghese continuo a non riuscire ad applicarla. Hai appena salvato il mondo, davanti a miliardi di esseri umani che t’avranno pure visto. Figurati i vincitori di premi Pulitzer di Metropolis. E te arrivi là dentro, garrulo e smagliante, con su un paio d’occhiali e ciao? Accetto tutto, pure che ti possa piacere Lois Lane, ma la storia degli occhiali va oltre le mie capacità. Comunque, tornando al discorso sulle ipotetiche nemesi del futuro, che mai può esserci di peggio di altri kriptoniani incazzati? Gente programmata per dare calci in culo ai nemici, gente che ha passato trecento cicli (chissà poi quanto tempo è davvero) a congelare dentro a un buco nero radiocomandato in attesa di vendicarsi. Gli tirano dei kraken? Gli evocano Chtuhlu? Lo minacciano con lo spauracchio-mutandoni? E un’altra cosa. Quando trova la navettona d’esplorazione sotto a tutto quel ghiaccio, ma chi c’era nel lettuccio-criogenico vuoto? Perché Clark piomba nell’astronave – sereno e pacioso, nella sua maglietta di cotone – e in un lettuccio c’è un suo connazionale putrefattissimo, ma l’altro è vuoto e immacolato. Ci sarà ancora, da qualche parte, quel personaggio lì? E sarà buono o cattivo? Si tireranno i camion o canteranno canzoncine kriptoniane tenendosi per le manone indistruttibili? Ma soprattutto, se mi sto facendo questa quantità di domande-pippone, vuol dire che mi sono invasata anche con Man of Steel o c’è una S di Speranza pure per me? Per tutti i GESOO alieni, insegnatemi a sparare palle di fuoco dagli occhi, che il mantello-couture me lo procuro da sola!

 


Orbene. A Torino avevo il portinaio-marsupiale. A Milano, invece, c’è il secchiatore folle.

La storia è avvincente. E spaventosa.

Dunque. Arrivo a casa un po’ sempre alla stessa ora, magari compro un pomodoro e una boccia di vino al Billa e poi mi infilo nella mia viuzza – che poi è quella dove tutti gli avventori dell’Atomic, ad un certo punto della serata, vengono a pisciare o a vomitare -, pronta a riabbracciare il gatto Ottone e a raccogliere da sotto al tavolo tutte le cose che ha masticato durante la giornata. Ecco, da qualche settimana, assisto regolarmente a scene raccapriccianti. Ignari personaggi, pacificamente impegnati a transitare sul marciapiede per i fatti loro, si pigliano in testa delle gran secchiate d’acqua. Niente, uno sconosciuto individuo apre la finestra, aspetta che la gente a piedi arrivi in corrispondenza di un determinato tombino e tira giù una sdella d’acqua. E lo fa apposta, che se volesse solo buttare in strada dell’acqua potrebbe aspettare tre secondi e lasciar andare via chi c’è sotto. Non diventerebbe una persona normale, certo, ma sarebbe comunque un po’ meglio che prendere la mira e lavare l’unico passante nel raggio di cento metri.
Per quel che ho potuto vedere io, le vittime del secchiatore-folle sono ormai quattro… e l’ultimo, quello di ieri, avrei potuto salvarlo. Sarà che ho visto Superman l’altra sera, sarà che la cattiveria gratuita mi fa girare vorticosamente i coglioni,  sarà che non lo so, ma ora sono perseguitata dal senso di colpa. Perché sapevo che sarebbe successo, e non l’ho avvertito.
Il primo ad essere lavato dal secchiatore-folle è stato un fighetto in camicia azzurra, uno di quei Dorian Gray col capello untino, tutto tirato all’indietro. Ecco, Dorian è stato colpito di striscio, un po’ d’acqua sul tallone del mocassino violetto e tanti saluti. Ha fatto finta di niente – lasciando, probabilmente, l’incombenza dell’incazzatura al suo ritratto, al sicuro nel baule del Cayenne – e ha girato l’angolo.
I secondi a pigliarsi la subdola lavata è stata una bella coppia di ragazzi. Io ero lì, che aspettavo di attraversare la strada e guardavo contenta i loro fantastici FULARINI e SCIAF, presi in pieno dal secchiatore-folle. Dando prova di un autocontrollo principesco, han guardato un po’ le finestre – non s’è ancora capito da dove arrivi, la benedetta acqua – e hanno chiamato il 113. Che poi non sono stata lì a vedere com’è finita – che avevo il sugo surgelato Pronto Scoglio, quello alle vongole, che gridava vendetta – ma dubito che le forze dell’ordine siano in qualche modo riuscite a risolvere la questione.
Il terzo, quello di ieri, quello che avrei potuto salvare, era un signore un po’ stropicciato con una cocacola in mano. E anche a lui è toccato l’orrido doccione a sorpresa. Finalmente, però, ho visto qualcuno reagire con la corretta indignazione. STRONZO A TE E A TUTTA LA TUA RAZZA! SE TI VEDO TI DISFO! APRI! APRI LA FINESTRA, MERDA CHE NON SEI ALTRO, MERDA! Io al signore gli volevo dire “Guardi, non è solo. E mi dispiace, perché quando l’ho vista passare di lì, bello tranquillo con la sua cocacola, era chiaro che il secchiatore avrebbe agito. Mi perdoni, e mi lasci aiutare almeno con gli insulti. COGLIONE! SUDICIONE DISADATTATO, SPERO CHE TI ESPLODA LA LAVATRICE, ANNEGARE DEVI… E SCHIATTA MALE! Va bene, ora? Si sente meglio? Vuole che prendiamo a sassate le finestre? Non si capisce quale sia la sua, ma se le sfondiamo tutte di certo non sbagliamo…”

Secondo voi che devo fare? Sono incazzata nera. E senza aver manco preso una secchiata. Come possiamo difenderci dal secchiatore-folle? Come smascherarlo? Diamine, è come un Fantasma dell’Opera che fa i gavettoni! Come intimidirlo? Ce l’avrà un rubinetto dell’acqua che possiamo piombargli di nascosto? Fermiamolo, probabilmente attacca pure i petardi alla coda dei gatti! Ma non c’è qualche supereroe dal gluteo marmoreo che può intervenire?
Sono molto preoccupata. Non voglio abitare vicino al Joker.

 

TEGAMINI – Amore del Cuore, finalmente andiamo in qualche capitale europea col bel tempo! A Berlino era dicembre. Ad Amsterdam era dicembre. A Oslo era dicembre. Adesso è giugno, capisci? Il caldino!
AMORE DEL CUORE – A Praga c’è l’alluvione.
TEGAMINI – Ah. Ma io ho già fatto i cerchietti sulla guida a tutte queste birrerie all’aperto in riva alla Moldava…
AMORE DEL CUORE – Facciamo così. Se esistono ancora ci andiamo.

Glu-glu. Ma non il glu-glu dei gargarozzi che inghiottono birra. Un glu-glu più di natura che sommerge.

Ma sto già facendo del disordine. Diamo una parvenza di senso a questa Praga-cronaca, informiamo e intratteniamo come si deve, diamine.

Il taxi dall’aeroporto all’albergo non lo volevamo prendere perché non ci sentivamo abbastanza autorevoli. Noi siamo giovani turisti, non abbiamo un soldo, il taxi è una cosa che non si considera e basta. Il taxi diventerà un’opzione quando guadagneremo il nostro primo milione. Ma poi, però, ti accorgi che a Praga i taxi costano quanto un giro sul Malpensa Express e allora ciao. Il nostro guida-guida ha insistito nel farsi chiamare Francesco e nel venirci a prendere sotto casa al ritorno, facendoci pure 15 euro di sconto. Quindi insomma, pigliate il taxi, uno degli AAA. E, in generale, mettetevi d’accordo prima su quello che vi faranno pagare, che il tassametro non esiste. Un po’ come la metropolitana. Ma dov’era, la metropolitana?
Comunque.
Come ogni volta che prenota qualcosa Amore del Cuore, siamo finiti in una camera d’albergo a forma di appartamento – ben più grande di casa nostra. E, a parte gli spettrali corridoi a mattonelle grigiobianche, la totale assenza di altri esseri umani e l’acqua che non diventava mai calda, noi ai Pushkin Aparments ci siamo stati anche bene – pagando (a testa) tre patate, una cipolla e due cavoli verza. Se volete emozionarvi tantissimo, ecco l’alcova dell’appartamento 12, dove io e Amore del Cuore abbiamo russato, asciugamani a forma di Mothman compresi.

Poi ci si svegliava e c’erano tutti dei tetti.


Che mangiare, se si arriva in città alle undici e passa di sera? Ma che sarà mai, ci siamo detti, andiamo a Praga, mica a Santiago de Compostela, che a quell’ora lì son già tutti a casa a dire dei rosari! E invece no, si mangia presto e pure i bar e i pub del centro ti cacciano verso mezzanotte. Grande Giove, l’inedia ci stroncherà! Ma poi, dietro casa, c’era un albergone – u Zlateho Stromu – coi tavolotti fuori e la cucina volenterosamente aperta 24 ore su 24. E ci siamo arenati lì, sbloccando il birra-counter della vacanza e dando delle sbirciatone al Ponte Carlo. In un momento di particolare euforia, temo anche di aver gridato un BELLA CARLO.


E finirei di parlare della serata fingendomi una guida Lonely Planet: “Concludete la giornata su una panchina priva di schienale a domandarvi come facciano tutti quanti a sopportare la Becherovka”.

***


Ciao, siamo le pastarellone del buongiorno.

Allora. Le previsioni del tempo davano pioggia torrenziale e 15 gradi di massima. E invece no, giungiamo in cima al castello scansando cinesi col parasole che si accasciano in preda alla calura. Io, bardata con pantalonazzo autunnale, stivale e golfino, simulo noncuranza… bestemmiando però gli dei del sudore nel profondo dell’anima.


Alle spalle di Tegamini, notiamo un gruppo di turisti sicuramente non soggetti alle restrizioni bagaglifere imposte da EasyJet. E magari anche dotati di una miglior fonte di informazioni in quanto a previsioni del tempo.


Monumento commemorativo. Quello accasciato con le stelle in testa è il turista che fa i gradini. Da qualche parte c’era una specie di skilift, ma siamo naturalmente votati al masochismo e ce ne siamo disinteressati.


Santi che trucidano draghi di fronte a splendide cattedralone dedicate ad altri santi che però di draghi non ne hanno mai visti. Propongo un “celebrity deathmatch” tra san Vito e san Giorgio. Il drago fa il mostro finale.


Se volete far finta di saper fare le foto, cercate dei gargoyle.

Il castello di Praga è una specie di città. C’è la cattedrale di san Vito, l’antico palazzo reale, la Torre delle Polveri, il Vicolo d’Oro, la basilica di san Giorgio. E tutto è bene e tutto è bello ed istruttivo, soprattutto se decidete di affrontare la grandiosità della storia e della cultura dopo un’immeritata pausa di riflessione sulla terrazza del Lobkowicz Palace Cafe. Non vi meritate di mangiare e bere ancora, ma infischiatevene. E se volete preservare l’integrità della vostra calotta cranica, sedetevi di fuori, ma ben appiccicati al muro. Noi si voleva splendideggiare nei pressi della balaustra ma dopo otto minuti eravamo squagliati. Più che altro, se proprio non vi preme star bene voi, fatelo almeno per la vostra birra.


Date retta alle scrittine FAVORITE. Sono FAVORITE perché se lo meritano.

Orbene. Dopo esservi opportunamente ristorati, visitate tutto il visitabile. Soffittoni! Vetrate! Papere nelle fontane! Imponenti baldacchini pieni di polvere! Santi! Martiri! Stemmazzi nobiliari! Armature stipate in ambienti claustrofobici! Armature con gagliardi parapalle! Mattonelle calpestate da Kafka! Cripte! Altari! Troni! Camere di tortura!

Gli intriganti e petaluti soffitti del salone principale del vecchio palazzo reale. Un salone di rara immensità dove, con tutta evidenza, si tenevano anche i campionati mondiali di pallacorda praghese, con tanto di tribune per il pubblico.

Un papero praghese, residente nel castello, con la papera sua moglie. Fermatevi almeno dieci minuti a osservare i due ciuffetti arricciati sulla coda del signor papero.


Ritrova anche tu la fede in mezzo alla cattedrale di San Vito. È l’effetto “Pilastri della terra”, poche storie.


Cuori per GESOO. E cacca a Satana.

Ciao, Alphonse Mucha. Non è che hai tempo di venirmi a disegnare una vetrata, sai, per la cattedrale. Ti assicuro, è un compito degnissimo e patriottico. E poi ci sono delle sante che sono anche meglio di Sarah Bernhardt, altroché Parigi. Ti ringrazio anticipatamente. Tuo, San Vito.

RRRROOOOOOOOOH! La formella del secolo.

Fingendosi devotissimo, Amore del Cuore si prostra al cospetto di un santo luccicante e sbadiglia a ripetizione per una dozzina di minuti.


San Vito è diventato San Vito perché è riuscito a far crescere le fette di pizza sugli alberi.


Ciao, cattedrale. Adesso andiamo a vagare nel Vicolo d’Oro.


Il magico artista-vetraio-intagliatore del Golden Vicolo. L’uomo che ci vede meglio da vicino di tutta la Repubblica Ceca.


Ve lo dirò. Non provando un particolare impulso feticistico nei confronti delle dimore di Franz Kafka, il Vicolo d’Oro mi ha messo una discreta ansia. È una via di mezzo tra Gardaland e la casa di Polly Pocket, ma con più bambini che corrono da tutte le parti e scale molto molto più strette. All’armeria, incagliati in un passaggio segreto insieme a una scolaresca tutta spintoni e cappellini rossi, pensavamo di darci la morte gettandoci su un’alabarda. Per fortuna, però, c’erano anche ovetti e pulcini.

Tanto per fuffare, vorrei anche raccontarvi che il castello di Praga è un must assoluto per farsi le foto dopo il matrimonio. Abbiamo incontrato ben tre coppie di assurdi sposoni novelli.
COPPIA UNO – sposo issa sposa sul parapetto dei giardini del castello (senza ringhiera né niente, così, freestyle) e la osserva mentre un corpulento fotografo le ordina di fare avanti e indietro sul benedetto muretto. Poi l’han fatta fermare, intimandole di dominare il panorama. All’inizio mi spiaceva per lei, ma poi le ho visto le scarpe. Aveva su quelle infami Mary Jane di GOMMA che van di moda tra la gente che vuole sudare tra un dito del piede e l’altro. Viola. Di plastica. AL TUO MATRIMONIO. Volevo caricare a testa bassa e gettarla giù dal muretto, ma Amore del Cuore mi ha fermata. In compenso, c’è questa foto che documenta tutto il mio funesto sdegno.


Zia, io avrò anche il bracciotto cicciardo da tennista-manovale, ma te ti sei sposata con delle scarpe di gomma viola. Chi sei, la cognata di Walter White? La gomma viola non è un’adorabile stravaganza, è un crimine contro l’umanità tutta. Che Anubi ti ghermisca!

COPPIA DUE – sposo e sposa danzano in mezzo a un altro giardino. C’è il fotografo che filma e delle buffe damigelle che si nascondono in mezzo ai cespugli. E sono pure bravi. L’unica roba inquietantissima è che gli sposi danzano serenamente senza musica.
COPPIA TRE – sposo e sposa, tutti bardati e senza manco un capello in disordine, si stravaccano su una gradinata a fare picci picci. Intorno a loro, il deserto. Niente paparazzi, niente invitati, un cavolo di nessuno. Fotografo invisibile? Momento di anarchia? Fuga romantica e tanti saluti ad amici e congiunti? Non lo sapremo mai, ma non c’era un’anima che se li filava.

Bene.
Esauriti i doveri culturali, siamo ruzzolati giù per la collina. Strada facendo, abbiamo visitato una farmacia e ci siamo aggiudicati una tonnellata di pastiglie per il mal di testa a due euro e dieci. Da grande importerò analgesici dalla Repubblica Ceca, si sappia. Stanchi come asini grigi e in piena crisi d’identità – numi, sono quattro ore che non ci sediamo al bar! – ci siamo accasciati in una piazzetta vicino alla nostra augusta dimora per riposare le stanche e dolentissime membra. Poi niente, dopo dieci minuti che eravamo lì è arrivato un giovane e paffuto tedescone vestito da coniglio rosa e mi ha chiesto se gli potevo smaltare le unghie.

Epic win, pingue tedescone. Mi ha detto che stava bevendo dalle 5 e mezza del mattino, ma l’ho comunque cazziato perché quello smalto lì non si stendeva bene per niente.
Per dovere di cronaca, devo anche dire che il primo addio al celibato degno di nota in cui ci siamo imbattuti poeva quasi quasi competere con quello del corpulento roditore germanico. A Malpensa c’era uno con l’aderentissimo costume (casco incluso) di Kimberly, la Power Ranger rosa… quella che tira con l’arco e grida PTERODATTILO! ogni cinque minuti. Kimberly e Coniglione Germanico, sposatevi tra di voi, il mondo già vi acclama.

E mentre noi ce la ridevamo, Noè continuava a lavorare all’arca.

Ma è ora di cena, è ora di cena!
In realtà volevamo andare in un altro posto, ma poi ci siamo arrivati davanti ed era un po’ lugubre. Un tragico sotterraneo con le sbarre alle finestre e l’intonaco vecchio di secoli. Ansia e sconforto. Che non so voi, ma quando vado in giro e sbaglio posto per mangiare mi indispettisco come mai al mondo. Per fortuna a sette metri c’era Lal Qila, un ristorante indiano che l’autorevole Trip Advisor riempie di complimenti. E basta, ci siamo fidati… facendo un gran bene. Ma buono. Buonissimo. E super didattico – e menomale, il menu era praticamente un Meridiano. Mi hanno pure fatto un pesce nel magico forno tandoori che non c’era scritto da nessuna parte, tanto per farmi sentire importante. E avevano un pianoforte disegnato sul soffitto, con le gambe e lo sgabellino che uscivano di sotto. Altroché Viktor&Rölf.


Vedi? Vedi? C’è un pianoforte incastrato nel soffitto!

Amore del Cuore, colmo di naan al formaggio e altre amenità, ha poi richiesto specificamente di visitare il Bukowski’s, meraviglioso baraccio nel quartiere più palloso di Praga. O noi non abbiamo capito la guida, o la guida dice delle tonanti corbellerie. “Il quartiere con la più alta densità di pub al mondo, accorrete!” Ma dove sono i pub? Non c’era un’anima in giro, tutti palazzoni belli e distinti. Uno aveva addirittura parcheggiato la Ferrari in strada, così, come se fosse una biciclettina. Il Bukowski ci ha salvato. Gente incastrata anche nei davanzali, fumo da tutte le parti, oscurità. Una meraviglia. Il barista – inquietante incrocio tra Sean Penn, uno scheletro di plastica da laboratorio e Braccio di Ferro (ma solo per il mento) – ha scodellato un OLDFESCION per Amore del Cuore senza battere ciglio. Purtroppo, eravamo seduti al bancone e non si poteva fare draping.

Amore del Cuore, quando è costretto a produrre un autoscatto, non riesce a generare anche un’espressione.  Insomma, è il Nicolas Cage degli autoscatti, ma amiamolo fortissimo lo stesso.

***

Cielo.
Questo post non finirà mai, ma qualcuno deve pur parlare dell’orologio astronomico! A un certo punto, mentre stramaledicevo MADRE al telefono non mi ricordo più neanche per cosa, ci siamo trovati in piazza sotto al venerabile segnatempo. E niente, mancava poco allo scoccare dell’ora successiva e ci siamo messi lì sotto insieme alle genti del mondo per vedere che diamine sarebbe accaduto in tutte quelle finestrelle.

Ecco. Per una volta vorrei mettere da parte il cinismo, perché con l’orologio astronomico di Praga sarebbe troppo facile. È un prodigio e basta. Si aprono le porticine e passano dei piccoli santi, lo scheletrino lì attaccato a destra muove la mascella e agita gli ossicini, i guerrierini si dimenano con le loro mini-spade e ci sono una miriade di acuti rintocchi. Poi c’è un tizio in cima alla torre che suona la trombetta, la folla lo applaude, lui saluta come una vera star e tante care cose, si va via contenti che neanche a Eurodisney dopo il mondo in miniatura. Fingiamo di essere onesti cittadini dell’antichità, immaginiamo per un attimo di essere dei bei campagnoli col un mulo al guinzaglio… ecco, l’orologio, lo scheletrino e il trombettiere ci scalderanno il cuore. Agita quegli ossicini, vispo scheletrino!

Rinfrancati dalla splendida esperienza – e sicurissimi di che ora fosse – ci siamo poi infilati nel negozio più bello del mondo, l’Art Decoratif. Riproduzioni di gioielli art-nouveau a destra e a sinistra. Ma strabilianti. Volute, foglie, ghirigori, pietre, LIANE, libellule, mosconi e lucertole. Facendo fare una fatica invereconda all’anzianerrima proprietaria, mi sono regalata l’Orchidea di Lalique. Insomma, pigliamoci una roba sola ma bella bella, invece di seimila baggianate e bottiglioni di assenzio farlocco.

Poi volevamo andare al museo ebraico, ma ci siamo spaventati quando abbiamo visto come si chiamava l’audioguida in tedesco.


Le magliette del golem però meritavano un casino.

In compenso, Amore del Cuore si è regalato un orologio russo degli anni Cinquanta. C’era questo mini-negozio – Old Clocks, Maiselova 16 – pieno di ciarpame e ticchettii e cucù a sorpresa. L’orologio di Amore del Cuore, in realtà, non abbiamo ancora capito molto bene se funziona o se siamo noi che continuiamo a fraintendere i meccanismi che ne governano il movimento. Nel dubbio, chiederemo l’aiuto dello scheletrino dell’orologio astronomico. Agita quegli ossicini, agitali!

Poi abbiamo visto passare un brezel gigante e non siamo più riusciti ad avanzare. Tavoloni di legno su un bel marciapiede di ciottolini e viva il Kolkolvna, che sarà pure una catena – il che ti fa subito sentire meno sofisticato -, ma ha tutto il mio ruspante rispetto. Cotolettazza, goulash, birrotti e pingue felicità.


Postura da gioioso insaccato e visibile sollievo da vecchia signora che finalmente trova un posto dove sedersi.

Nel tentativo di darci un contegno, abbiamo poi deciso di visitare il museo dell’eccelso Alphonse Mucha, strabiliante maestro dell’art-nouveau e disegnatore dei poster più memorabili di inizio Novecento. A vedere come la disegnava lui, la Sarah Bernhardt mi è sembrata divina sul serio. Il museo è piccolino ma fascinoso. Ci sono le riproduzioni dei lavori più famosi di Mucha – dai cartelloni per gli spettacoli teatrali di Parigi ai dipinti a olio -, le prove di stampa dei manifesti e i bozzetti a carboncino, mille studi per oggetti e arredamento LIBERTI e un tripudio di decorazioni. Ci sono i libri di favole che ha illustrato, allegorie delle stagioni e donne con capelli bellissimi da tutte le parti. E c’è pure un cinemino che proietta un documentario molto istruttivo sulla vita di Mucha – le seggiole scricchiolano, state immobili. E insomma, uscirete gridando VAFFANCULO MINIMALISMO e sarete molto contenti.

TEGAMINI – Amore del Cuore, ci manca Piazza Venceslao. Vorrai mica lasciar perdere piazza Venceslao.
AMORE DEL CUORE – Eccola, tò. È lassù, alla fine del vialone. Lungo lungo. In salita. Vuoi che andiamo?
TEGAMINI – Ah, è fin là. Allora no, anzi, col cazzo!
AMORE DEL CUORE – …fiume?
TEGAMINI – Fiume. E poi?
AMORE DEL CUORE – Eh. Vaghiamo.

E poi si è sparsa la voce che avevo portato stivali e collant grevi e si è messo a piovere tantissimo. Ma l’ultima sera è stata lo stesso molto frufru. E credo proprio che il Bar and Books, rifugio dal legno asciuttissimo, possa finire di diritto nella top-qualcosa dei miei posti preferiti al mondo. Se vi garba l’idea di andarvi a bere delle robe perfette in una biblioteca, piazzatevi lì e stateci. Ero così contenta che mi sono persino seduta con la schiena dritta. Non avevamo il monocolo, ma se lo chiedevamo alla super cameriera in inestimabile tubino rosso secondo me ce lo portava. Anzi, un monocolo ad Amore del Cuore e una tiara a me. Olivette, cosini croccanti, cristallo e gioia.


***

Ecco.
Avrei anche finito.
Resta il grande rammarico di non aver potuto mettere piede sul benedetto Ponte Carlo, presidiato giorno e notte da arcigni poliziotti che volevano salvarci dalla piena, e di non aver comprato il GAGGET definitivo: la felpona con su scritto PRAGUE DRINKING TEAM, accessorio che invidio da decenni a chiunque sia stato portato in gita a Praga al liceo, mentre io scarpinavo per l’ottava volta per Parigi e osservavo con costernazione il mio professore di scienze in lacrime di fronte alla ricostruzione del laboratorio di Lavoisier. Facciamo che il prossimo che va a Praga me la piglia, la sacra felpa. Ho la M. E mi va bene anche il colore più pacchiano. Tranne il giallo, dai. Il giallo no.

***

Per chi volesse andare in giro dentro a un Tegamini, adesso c’è anche la pregiata sezione Posti.