Tag

SUR

Browsing

È possibile innamorarsi perdutamente di una persona che non riusciremo mai a conoscere davvero e che in maniera sistematica ci nasconderà per tutta la vita informazioni rilevantissime sulla sua identità? C’è un limite fisiologico in quello che possiamo dire di sapere degli altri – “vicini” o lontani che siano: spesso dipende da omissioni deliberate e altrettanto spesso dipende da noi, da quello che capiamo e di cosa ricaviamo dai dati e dai racconti che riceviamo. Ma dove possiamo tracciare un confine d’accettabilità – sempre che tracciare un confine abbia senso? Gli inganni reggono perché scegliamo di farci prendere in giro o perché pensiamo di essere speciali, di essere le uniche persone al mondo che hanno potuto beneficiare del vero volto di qualcuno? O forse è solo una questione di fede o di sottomissione? Prendo quello che vuoi darmi e se vorrai darmi solo le briciole mi accontenterò, perché son bastate quelle tre briciole lì a rivoluzionarmi la vita e a farmi sentire felice.

Catherine Lacey si mette nei panni di una donna che è stata sposata per anni con un enigma all’apparenza insondabile. La X del titolo era una poliedrica artista che, per decenni, ha spaziato dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla fotografia. Una persona famosa, conosciutissima per il suo lavoro, onorata da retrospettive e considerata a pieno titolo una figura di spicco del mondo creativo.
X conquista una prima notorietà grazie a una performance decennale di rara ambizione, Il soggetto umano. In quest’opera tentacolare, che viene esposta in un accumulo di “prove” fotografiche e documentarie, X appare come una collezione di maschere: per quei dieci anni lì ha incarnato identità diverse, travestendosi, scegliendo nomi fittizi e presentandosi “in società” senza mai abbandonare questi personaggi. Le sue identità alternative hanno fatto musica, scritto libri, fondato case editrici, scatenato polveroni, fatto cinema e dipinto, senza lasciar mai intuire che dietro a tutta quella roba si celasse un’unica mente. Anche dopo essere uscita allo scoperto e aver raccolto gli applausi del caso, X non spiega mai le sue motivazioni, la sua vera provenienza, la sua storia. Non lo spiega alla stampa – che glielo chiede con assiduità – e non lo spiega a sua moglie, C. M. Lucca. Sarà proprio Lucca che, dopo la morte improvvisa dell’artista, decide di scrivere questa Biografia di X, un po’ per confutarne una piena di scemenze – per quel che può saperne, in fondo – e un po’ per esorcizzare X, per ricomporne l’immagine e scoprire, finalmente, chi era la donna che tanto ha amato… e che così poco ha condiviso con lei. Anche il loro matrimonio era solo un esperimento? Possiamo forse dire di aver creato una felicità autentica? Ma chi mai ho conosciuto io? Gambe in spalla, proviamo a capirlo, anche se molto male farà.

Lacey è molto abile e anche molto paziente. Il circo che tira in piedi con Biografia di X – tradotto per Sur da Teresa Ciuffoletti – è ambiziosissimo e anche ben congegnato, mi vien da dire.
Ogni volta che in un romanzo c’è un personaggio e se ne racconta la parabola si compila in fin dei conti una biografia immaginaria, ma qua troviamo una sovrapposizione di “filtri” e un’operazione di mimetismo che deforma la storia conosciuta del Novecento per creare una dimensione alternativa. Tanto per cominciare, gli Stati Uniti non esistono… almeno, per come li intendiamo noi. Nel mondo che Lacey immagina per Lucca e X, gli stati del Sud sono riemersi dalla Seconda Guerra Mondiale autodeterminandosi in un Territorio indipendente teocratico e totalitario. A questo Sud oscurantista e repressivo si contrappone un Nord dai valori liberali accentuatissimi e un Ovest che va un po’ per conto suo. I territori non comunicano tra loro – c’è proprio un bel muro a separarli – e si campa in una condizione di tensione perenne.
Il fatto che il paese di Lucca e X sia fatto così ha una profonda rilevanza e anche la scelta di collocare queste vite fittizie – ma riprodotte con la precisione che spetta a personaggi reali – tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta è funzionale alla tenuta del gioco. Sono anni di figure pubbliche mitologiche, anni di costruzione di un’idea di fama e celebrità che va a braccetto con sogni e volontà di riscatto, anni di tumulto creativo e tentativi di teorizzazione dello spazio individuale nella sfera pubblica. Di prese di posizione. Di truffe possibili, perché ancora possibile era far perdere le proprie tracce, cambiare pelle, vestirsi di inganni. Lacey consolida questi sforzi di radicamento in una realtà per noi familiare – ma anche profondamente straniante – costellando la Biografia di Grandi Nomi da far incontrare a X, nelle sue varie emanazioni. Da David Bowie a Carla Lonzi, X sfarfalla qua e là portando scompiglio e moltiplicando le superfici riflettenti e le cortine fumogene di questa storia. Ma c’è dell’altro, perché tantissimi passaggi, dichiarazioni pubbliche di X, dialoghi e testi critici che Lucca riporta come frammenti del “suo” mondo sono in realtà citazioni che Lacey ricava da testi, romanzi, interviste e saggi che esistono nel “nostro”. Non lo dichiara nel testo, se non in un’appendice conclusiva ricca, gustosa e labirintica, separata dal libro di Lucca.

Ma com’è, alla fine? Io l’ho trovato più interessante che “piacevole”, se devo sintetizzare. Lucca documenta la sua ricerca trascrivendo interviste, ripercorrendo la sua relazione con X e riempiendo i periodi di vuoto “informativo” con le parole di testimoni, fantasmi del passato e “vittime” quasi sempre ignare degli inganni di X. Incrocia quello che ha intuito con le prove contenute negli archivi di X, tramutando tutto questo materiale in un ritratto che riesce a ricomporre un puzzle fattuale ma mai a catturare davvero le motivazioni di sua moglie. Certe scelte diventano più chiare e certe congetture meno campate per aria, ma X resta un’anomalia, un pozzo auto-conclusivo di solitudine e mistero. Non tutte le parti dell'”indagine” hanno la medesima incisività, c’è una mastodontica quantità d’incredulità da sospendere – soprattutto perché ci viene chiesto espressamente di aderire all’inganno -, ho odiato X e ho odiato Lucca e nemmeno per un istante ho trovato in X un briciolo di quel fascino ammaliante che il mondo intero pareva attribuirle.
X è un mostro?
O X è diventata un mostro per sopravanzare circostanze mostruose?
Chi siamo noi per assolverla o condannarla?
Che diritto abbiamo di considerare patetica la sua vedova – che la piange e la maledice… ma la ama, anche se di lei ha intravisto solo un frammento?
E quanto senso ha poi associare alla trasparenza, alla sincerità e alla verità esibita e “vissuta” una dimensione di indiscutibile moralità?
L’arte è finzione?
O è mettendo gli altri nelle condizioni di immaginare che si può fare arte?
Quanto si può disperdere e frammentare la propria essenza prima di scordarci chi siamo?
Ed è importante sapere chi siamo o conta di più badare a quello che sentiamo?
Può un amore diventare l’unica verità da proteggere, anche se tutto il resto è un’illusione?
Se lo scoprite, venitemelo a raccontare. Nel mondo di X ci sarà sicuramente posto anche per un saggio critico sulla sua fosca eredità. 

Cinema! Sogni! L’età d’oro di Hollywood! Cellulosa! Divi! Dive! E Lucia Wade, sceneggiatrice. Insieme al marito Vincent – istrionico regista e assiduo sollevatore di bicchieri – forma una promettente coppia creativa. Lì per lì innamoratissimi, affiatati e pieni di idee, i coniugi Wade si fanno in quattro per racimolare i finanziamenti per il loro debutto sul grande schermo e, tra mille rogne e soluzioni creative, approdano ai tanto agognati successi. Si fanno un nome, si trasformano in acclamati autori e li troviamo pure candidati all’Oscar. Lui, vulcanico e umorale, si gode il prestigio riservato ai registi emergenti mentre Lucia macina pagine alla macchina da scrivere, senza badare troppo al ruolo evidentemente defilato che Vincent tende ad accordarle. È sicura del suo amore e farebbe di tutto per sostenerlo, anche se i rospi da ingoiare non sono pochi, i soldi scarseggiano sempre e l’ambizione (spesso frustrata) scava solchi di non facile gestione. Tutti quanti – Lucia compresa – sono convinti di vivere un Grande Amore Speciale, superiore alle tribolazioni e alle meschinità che distruggono i legami degli altri, ma scopriremo all’istante che nemmeno i Wade sono fatti per durare.
Chi siamo diventati?
Dov’è la persona che ho conosciuto?
Chi ho amato io è mai esistito?
Ne vale la pena?
Lucia si rifiuta di trasformarsi nel cliché della moglie abbandonata e affranta che tanto detesta scrivere e si aggrappa all’unica certezza che ha – che è proprio la scrittura, incidentalmente. Con o senza Vincent, lei è una sceneggiatrice. Brava, pure. Avrà vita facile fra produttori, studios, agenti e agghiaccianti consulenti con le competenze di nostro cugino chiamati a rivedere le sue pagine? Certo che no. A Hollywood o fai l’attrice o fai la segretaria… di sceneggiatrici in giro ce ne sono poche. E quelle quattro gatte già sembrano troppe…

Lucia Wade è Eleanor Perry e Pagine azzurre è una versione romanzata della sua vita e delle sue peripezie sentimental-lavorative. Uscito nel ‘79 negli Stati Uniti, il libro spunta qua da noi per la prima volta per SUR nella traduzione di Marco Rossari – che riesce a preservare mi pare assai bene il taglio da commedia brillante e a mantenere scoppiettanti e caustici i dialoghi.
La struttura non è lineare ma procede per balzi temporali e “scene”, come in un buon copione che non abusa dell’esposizione o dello spiegone trito. Lucia e Vincent ci appaiono a diversi gradi di deterioramento, anche se l’ossatura principale è fatta dal presente di Lucia, tra lavori frustranti, rivendicazioni di competenza che cadono tendenzialmente nel vuoto e relazioni con emeriti imbecilli. Il passato è fulgido e miserabile insieme, pieno di segnali che solo il senno di poi fa risultare ovvi. Lucia è disillusa ma battagliera, stufa marcia ma abbastanza scafata da godersi gli episodi più grotteschi che le capitano come uno spettacolo. Questo libro è uno sberleffo e una rivincita, il ritratto di un’epoca e di un settore specifico – molto meno favoloso di quanto vorrebbe la leggenda.
Ci son signore che hanno preso più di un pesce in faccia, risparmiandone forse qualcuno a noi, signore del futuro. La rete è ancora piena, ma Perry – facendoci ridere e schiumare di rabbia – è una voce degnissima di essere ancora ascoltata.

Appunto sparso: c’è pure Capote. Ovviamente camuffato. Ma si vola altissimo lo stesso.

Non mi sforzerò nemmeno lontanamente di compilare una classifica, che già è stato arduo arrivare a queste sintetiche conclusioni. Quella dei libri preferiti dell’anno è senza dubbio la lista più difficile da assemblare e mi getta puntualmente in un gorgo di dubbio, tentennamenti e FOMO retroattiva. Non si può nemmeno sfuggire a una certa ridondanza, perché se nell’arco degli ultimi dodici mesi ho apprezzato un libro è raro che non l’abbia già dichiarato qua e là, chiacchierandone su Instagram o scrivendone qua sul blog. Insomma, al netto di tutte queste menate, dedichiamoci a quest’impresa di sintesi che risponde alle seguenti coordinate:

  • i libri che mi sento di segnalare fra i preferiti dell’anno X non sono necessariamente usciti nell’anno X, anzi. La mia scarsa reattività al nuovo è tendenzialmente assai spiccata, quindi c’è un po’ di tutto – anche se nel 2021 sono caduta dal pero un po’ meno del solito, mi pare.
  • i criteri son più “sentimentali” e istintivi che rigorosi e bilanciati. Insomma, per una volta mi concedo il lusso di non pensare a equilibri ferrei tra fumetto, narrativa, saggistica, editori e cento altre interpolazioni possibili.
  • nel caso ci siano luoghi dove ho elaborato un po’ meglio le mie impressioni non esiterò a indirizzarvici per approfondire.
  • no, Crossroads di Franzen non l’ho ancora finito. Abbiate pietà per i ritmi altrui.

Benone, ribadendo l’onnipresente problema della fallibilità umana, ecco qua il mio miglior 2021 libresco.

*

Bernardine Evaristo
Ragazza, donna, altro
(Sur)
Traduzione di Martina Testa

Un esperimento narrativo corale che sintetizza senza retorica o condiscendenza tanto del dibattito (finalmente) attuale su rappresentazione, genere, identità e privilegio. Un libro prezioso per innovazione strutturale, piglio bellicoso e per rifocalizzazione del punto di vista.

Ecco qua dove ne avevo parlato in origine.

*

Elizabeth Strout
Olive, ancora lei
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Il ritorno di Olive Kitteridge, la bisbetica più amata del Maine, ha rinnovato la mia ammirazione per Elizabeth Strout, che si conferma splendida ritrattista delle minuzie del tran tran quotidiano e delle testarde meschinità con cui tendiamo a complicarci la vita. È anche un libro che indaga gli effetti del trascorrere del tempo e il coraggio necessario per concederci una seconda possibilità, per quanto tardiva e monca ci possa sembrare.

Serve un approfondimento? Accomodatevi qua.

*

Teresa Ciabatti
Sembrava bellezza
(Mondadori)

Cianciamo tanto della necessità di dipingerci “forti” e poco inclini a compromessi, ci dichiariamo pronte ad accogliere ogni genere di sensibilità – inclusi i personaggi femminili capaci di concedersi l’indubbio lusso di una spigolosità palese e impenitente – e applaudiamo senza remore i più vari elogi dell’imperfezione, ma quanto ci crediamo davvero? Quanto li digeriamo senza subirne con stizza l’urto inevitabile? Forse Teresa Ciabatti non è facile da leggere. Anzi, non è piacevole da leggere. Nella voce narrante che sceglie per Sembrava bellezza non c’è nulla di comodo, edulcorato o strutturato per rassicurarci. Ecco, reduce da un biennio in cui il mondo sembra essersi accorto (con comodo) che anche il pensiero positivo perenne e onnipresente può risultare tossico e colpevolizzante, ho trovato questo romanzo particolarmente liberatorio. Ma non tanto per il gusto di seguire le peregrinazioni di una ragazza “cattiva” che mai metabolizza fino in fondo delle ombre dell’adolescenza, credo sia più una questione di zone grigie. Non c’è desiderio di rivalsa senza insoddisfazione e non c’è narratrice inaffidabilissima che non sia anche profondamente consapevole delle proprie storture e delle proprie mancanze. Non c’è ambizione all’ascesa – sia estetica che di “status” – che non parta da un’intima conoscenza di una distribuzione disomogenea delle fortune. Credo sia anche per questo che ho amato questo libro: è probabile che i personaggi imperfetti la sappiano più lunga di noi perché conoscono sia i loro deficit che quel che occorrerebbe per raggiungere la felicità e l’appagamento. Vivono all’interno di quella distanza impossibile da colmare e ci abitano concedendosi il loro unico guizzo sincero: un’insoddisfazione sacrosanta, velenosa, più vera di ogni tentativo di dipingersi meglio di quel che sono e, nel non sapersi vendicare in prima persona, vendicano noi.

Per una cronaca un po’ più lineare di questo libro, qua si può riguardare la diretta con la sottoscritta, Daniela Collu e – in coda – Teresa Ciabatti, che appare come un cigno-fantasma.

*

Kazuo Ishiguro
Klara e il sole
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Ishiguro è stato uno dei graditi e attesi ritorni – non pochi, devo dire – del 2021. Anche a questo giro il tema al cuore del romanzo è il seguente: che cosa ci rende umani? Per ipotizzare una risposta, Ishiguro si fa aiutare da una schiera di simulacri – molto realistici e credibili, ma pur sempre artificiali – che popolano un mondo rarefatto e socialmente atomizzato. Si piange pure con gli androidi? Già.

Il post provvisto di tutti gli optional e degli upgrade più moderni si può leggere qua.

*

Giulia Caminito
L’acqua del lago non è mai dolce
(Bompiani)

Ho tifato tanto allo Strega – non è servito -, ma Giulia Caminito ha avuto la sua rivincita al Campiello e ne sono stata immensamente felice, di certo per il valore del romanzo ma anche per la soddisfazione di veder riconosciuto, per una volta, il talento di un’autrice limitrofa alla mia condizione anagrafica e che di sconfitte generazionali ha parlato senza piagnistei e deferenza verso l’ordine costituito. Gaia, la protagonista, è una piccola gorgone di lago e anche la lingua che Caminito sceglie per guidarci nella sua lotta quotidiana sconfina quasi nell’incisività e nel piglio del mito. Si parte da una famiglia disastrata, tenuta insieme solo dalla forza di volontà e dall’impermeabilità all’umiliazione dell’ingombrantissima madre, Antonia. Si procede per tappe, verso un riscatto imposto che passa per lo studio e le violentissime reazioni all’accumulo di ingiustizie di quegli anni che ci vengono spesso venduti come i più verdi e belli, ma sono verdi e belli quanto il fondo limaccioso e buio del lago di Bracciano, cornice di questa storia. Non ci si lamenta, non ci si rassegna, non si mostra il fianco. Ma dopo tutta questa fatica, tutta questa brace incandescente che coviamo e che man mano diventa sempre più fredda e rassegnata, dov’è tutto quello che ci è stato promesso? È forse mai esistito?

*

Leigh Bardugo
La trilogia di Shadow and Bone 

La serie di Netflix, almeno nel mio caso, ha prodotto quell’auspicabile esternalità positiva che prevede la trasformazione dello spettatore televisivo in lettore del materiale di partenza. Di solito preferisco arrivare “preparata” alla visione di una serie, ma in casi più rari può anche capitare che ci si trasformi in salmoni che compiono all’inverso il naturale percorso di avvicinamento. I tre romanzi di Tenebre e ossa mi hanno egregiamente tenuto compagnia, generando anche quell’effetto “devo vedere subito come va a finire” che non si manifestava da un po’. Per quanto trovi Alina irritantissima e per quanto io sia perfettamente in grado di scorgere più di un difetto nell’impianto generale e nella “resa” di questi libri, non è stato affatto impervio sedermi là a godermeli lo stesso. Innumerevoli sono stati gli incoraggiamenti a proseguire con Sei di corvi – se non proprio i “lascia perdere i primi tre, puoi leggere direttamente la duologia che è molto meglio”, ma m’è sembrato più opportuno farmi un’idea meno raffazzonata del mondo e dunque eccoci qua con un timbro nuovo di pacca sul passaporto del Grishaverse. Grazie per aver fornito il necessario intrattenimento, Leigh Bardugo. E un saluto anche a te, Ben Barnes.

*

Emmanuel Carrère
Yoga
(Adelphi)

Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala

Che anno denso di attesi ritorni (non deludenti) e di narratori splendidamente inaffidabili, è il caso di dirlo. Carrère continua a menarci per il naso? È possibile, ma a questa ipotetica grande mistificazione – che forse poi è la mistificazione strutturale che passa per la soggettività del ricordo e di quello che ci raccontiamo per sopportare quello che succede, forse – continuo a cedere volentieri.

Per impressioni un po’ meno nebulose, il post era qui.

*

A cura di Sheila Williams
Relazioni – Amanti, amici e famiglie del futuro
(451)

Dodici racconti – raccolti da Sheila Williams per l’annuale impresa antologica della longeva serie tematica Twelve Tomorrows del MIT – per ipotizzare altrettante nuove strutture dello “stare insieme” in un contesto più o meno dominato dalla tecnologia. Coppia, figli, dating, eredità e memoria… cosa ci riserverà il futuro nel vasto calderone del legame sentimentale, dell’ordine sociale e della relazione umana? Grandi nomi della speculative fiction e della fantascienza cercano di immaginare una risposta – e no, non è detto che sia catastrofica.

Per approfondire, ecco qua.

*

Anna Maria Ortese
Il mare non bagna Napoli
(Adelphi)

Qua c’è un racconto che chissà in quale maniera sconclusionata avevamo letto a scuola. È il racconto della bambina che non ci vede e finalmente riceve un paio d’occhiali, per poi scoprire che tutto sommato stava meglio prima, in una realtà ovattata e nebulosa che le risparmiava l’orrore di una messa a fuoco precisa dell’esistente. E quel che esiste attorno a lei è Napoli, una vertigine urbana che sobbolle e digerisce a ciclo continuo ogni possibile configurazione dell’umano. Non rammento una lezione su Anna Maria Ortese, a scuola, ma il racconto della bambina mezza orba sì. Gli altri quattro movimenti di questa sinfonia dissonante e magnifica sono un tardivo recupero e, credo, anche una prova di coraggio – non tanto per me che leggo, ma più per Ortese che scrive senza pentimenti. Il tempo per pentirsi e limare sarebbe poi arrivato, ma quel che resta è una capacità magnetica di creare una distanza, il distacco necessario ad esercitare la libertà dello sguardo, a inforcare quegli stramaledetti occhiali per esercitare una soggettività unica, inclemente, poetica, mostruosa e viva.

*

Madeline Miller
Circe
(Marsilio)

Traduzione di Marinella Magrì

No, non so ancora dirvi nulla sulla Canzone di Achille. Dopo aver così apprezzato Circe, però, sono certa che lo affronterò presto e con una certa fiducia. Figlia del Sole e della ninfa Perseide, Circe cresce fra i Titani imparando a schivare le folgori delle nuove divinità olimpiche. Da sempre poco malleabile e incomparabilmente meno luminosa dei suoi fratelli, compatisce Prometeo e crea mostri, cercando un luogo dove potersi sentire davvero a casa. Paradossalmente, la vita di Circe sembra germogliare davvero da quella che per dei e mortali potrebbe somigliare alla peggiore delle condanne: l’esilio eterno sull’isola di Eea. Tra animali e piante, Circe asseconda la magia e diventa il cuore pulsante di un universo di prodigi, incontri, lotte secolari e sorti illustri. Una rivisitazione godibilissima e colta che espande il mito e trasforma in protagonista indimenticabile una figura in cui siamo abituati a imbatterci quasi di sfuggita: la comparsa infida ed egoista nella grande epopea dell’astuto e nobile Odisseo assume qui rotondità, mente, cuore e potere. Non solo equipaggi trasformati in maiali, insomma, ma una maga che pur andando ben poco a spasso contiene moltitudini. Viva Circe. E occhio a Scilla.

*

Paolo Cognetti
La felicità del lupo
(Einaudi)

Allora, io a Fontana Fredda non ci vivrei in pianta stabile, ma mi fa piacere soggiornarci per qualche tempo per andare a trovare i personaggi di Cognetti. Forse no, non ho ancora finito la mia decrescita cittadina e non sono ancora pronta a confrontarmi con l’immensità glaciale delle vette montane, ma anche questa volta il sortilegio d’alta quota si è ripetuto. È un romanzo che rallenta il ritmo del quotidiano e lascia intravedere un’alternativa che ha poco della negazione e del rifiuto e molto della ricostruzione ragionata. Pur restando dove sono, è un libro che mi ha fatto bene.

Per qualche impressione un po’ più articolata, vi indirizzo volentieri qui.

*

Concluderei con un ringraziamento un po’ ridicolo. Vorrei ringraziare i libri che sono riuscita a leggere quest’anno – pure quelli brutti o deludenti – per avermi accompagnata per un pezzo di strada. Neanche il 2021 è stato un anno semplice o particolarmente ricco di speranze provenienti dal mondo esterno e poter costruire, leggendo, un rifugio o un’oasi di sano svago ha rappresentato per me un buon punto fermo. Pochi o tanti che siano, i libri che ho letto o ascoltato – e qua nei preferiti ce ne sono diversi che ho ascoltato, da Circe a Il mare non bagna Napoli, ma anche Giulia Caminito – sono stati un puntello e un posto diverso dove far lavorare il cervello. Pochi o tanti che siano, è andata bene così.

Ulteriori rotte per la navigazione:
– siete in ritardo coi regali ma volete fare dei regali “letterari”? Vi lascio un memo per Storytel. Ci sono un casino di gift card e qua c’è sempre il mese gratis che vi donano perché siamo amici.
– a parte Instagram, anche qua nella vetrina Amazon cerco sempre di tenere traccia di quello che leggo man mano.
la lista di Natale “generale”.
la lista di Natale per i piccoli e le piccole.

Che cos’è Ragazza, donna, altro? Voto per farcelo spiegare direttamente da Bernardine Evaristo:

Ho deciso di scrivere il romanzo per rappresentare una moltitudine di donne nere britanniche. Per me era importante includere tante storie: ci sono dodici protagoniste, ma le persone rappresentate sono molte di più. Lo scopo del libro è espandere la rappresentazione di chi siamo noi donne nere britanniche. Per fare ciò avevo bisogno di una gran varietà di alterità. Il desiderio di scrivere queste storie nasce dal mio percorso di attivista e dalla carenza, nella letteratura britannica, di storie non stereotipate sulle donne nere.

[La citazioncina arriva da un’intervista che potete leggere tutta intera chez Il Libraio].

Uscito in Italia per Sur con la traduzione di Martina Testa – dopo aver vinto il Man Booker Prize a parimerito con I testamenti di Margaret Atwood – Ragazza, donna, altro è un oggetto letterario di forma insolita e splendida complessità. Nasce come contenitore e amplificatore di voci strutturalmente poco ascoltate, come una macchina da presa elastica e mobilissima che si sofferma sulle innumerevoli sfaccettature che può assumere l’identità. Le dodici portavoce di questo esperimento di rappresentazione collettiva sono altrettante donne che prendono a turno la parola per costruire una vasta e ramificatissima vicenda corale. Le loro rispettive traiettorie si intersecano in più punti, così come intersezionale è la commistione delle loro vicende biografiche e il più ampio colpo d’occhio che se ne ricava.

Tutto parte da Amma, bastian contraria della scena teatrale londinese – femminista militante, nera, lesbica – che si prepara a debuttare con il primo spettacolo della sua carriera che sia mai davvero riuscito ad approdare al mainstream. Attorno a lei, più o meno direttamente, si aggrovigliano e si srotolano nel tempo le esperienze delle altre undici staffettiste. Ciascun personaggio corre la sua frazione del percorso tenendo ben alta una fiaccola che illuminerà per noi una fetta diversa di quell'”alterità” che Evaristo vuole finalmente portare al centro del discorso. Per quanto questo obiettivo strutturale ci risulti evidente – e per quanto qualche passaggio sia più didascalico di altri -, sono donne che galoppano veloci e sicure, lasciandosi alle spalle il rischio di risultare artificiose. Metafore podistiche a parte, il cuore del libro è proprio in quest’alternanza di contesti, prese di posizione, sfumature, epoche e provenienze. È un romanzo ricco perché ricco è lo spettro di possibilità che ospita.
Sono dodici donne nere britanniche che, tutte insieme, costruiscono un racconto che parla di radici, immigrazione e sesso, di colore della pelle e di fluidità del genere, di lavoro, violenza e privilegio, di estrazione, eredità, e riscatto, di indipendenza, relazioni e amore, di amicizia, femminismo e tempo, di età, maternità e società, di evoluzione e cambiamento. Sono cinquecento pagine, ma si fa prima a leggerlo che a tentare di restituirne le stratificazioni elencando tutto quello che ci si trova dentro. È un libro che non tralascia gli ingarbugli del presente ma che riesce anche, saltando di generazione in generazione, di madre in figlia o da matriarca che regna sul suo pezzo di terra a social-attivista contemporanea, a restituirci quella stratificazione storica che colloca ogni donna di questo romanzo in una dimensione rotonda e ancorata al più vasto orizzonte del mondo.

Altro aspetto rilevante: la lingua. E la struttura.
Le donne di Evaristo prendono la parola a turno, in flussi in bilico tra ricordo, rievocazione e narrazione orale. Sembrano pezzi scritti per il teatro, monologhi creati per associazione di idee, assonanze tematiche e sentimento. Non ci sono punti, non ci sono maiuscole all’inizio delle frasi o dei paragrafi. Sono storie che di fluido hanno anche la forma e la libertà di scorrere in tutte le direzioni. È insolito? Di sicuro. È fastidioso? Lì per lì spiazza, ma dopo poche pagine si ingrana e si diventa parte integrante del ritmo. È una scrittura che avvolge e trasporta.

Insomma, Ragazza, donna, altro è un esperimento che rende pienamente onore alle sue ambiziose premesse. Ci si lamenta sempre di quanto difficile sia orientarsi nella complessità relazionale, sociale e “sentimentale” del nostro presente… e anche di quanto sia impervio rappresentarla senza risultare stucchevoli e/o parrucconi e/o eccessivamente semplicistici o condiscendenti. Ecco, Evaristo assembla per noi un coro di esperienze che non solo risultano “vere” e vive – ed estremamente coinvolgenti da leggere -, ma che si inseriscono con la loro ricchezza in un dibattito globale indispensabile a cui, in un modo o nell’altro, stiamo contribuendo tutte. In conclusione, se vi va di inaugurare il 2021 con una lettura importante, leggetevi Bernardine Evaristo.

Quest’anno avrò letto abbastanza? Certo che no. Anzi, non credo esista il concetto di “leggere abbastanza”. In qualche lingua dal potenziale combinatorio più potente dell’italiano penso ci sia un unico termine capace di definire il concetto di “mi prendo a calci nel sedere da sola perché vorrei leggere di più ma poi per una roba o per l’altra finisce sempre che mi sembra di aver letto di meno di quanto penso potrebbe essere utile, auspicabile e sensato per il mio sviluppo emotivo/culturale e pure per accrescere la mia capacità di comprendere il mondo circostante e gli altri esseri umani che lo abitano”.
Circa.
Insomma, non ho un termine… ma il sentimento è quello.
Prendendola più sportivamente, il 2019 è stato un anno di buoni libri e ottime scoperte. Questo sarà un post riepilogativo che non intende aggiungere un granché rispetto a quello che magari ho già raccontato in giro. È proprio un post per fare mente locale.
Ecco, dunque, i miei preferiti di quest’anno – son libri usciti anche prima? È possibile. Ma li mettiamo qua perché li ho letti nel 2019, non perché sono effettivamente usciti nel 2019.
Bene. Procedo in ordine sparso.

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Hanya Yanagihara, Una vita come tante

Se ben ci pensiamo, è un mistero. Perché abbiamo collettivamente amato così tanto un romanzo che fa stare così male? Linea agli psicologi all’ascolto.
Baggianate a parte, ecco qua il post che avevo scritto per cercare di incanalare meglio l’infinito strazio che Jude, Willem, Malcolm e JB sono riusciti a mettermi addosso: “Il gruppo di sostegno per Una vita come tante.

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Samanta Schweblin, Kentuki

Kentuki ha conquistato il Premio MACHEDIAV dell’anno. Metafora solo all’apparenza giocosa del nostro rapporto con la tecnologia, è una collezione di istantanee e di storie complicate che indagano, in realtà, la nostra capacità di stringere legami e di fare del male – soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi o possa richiamarci alle nostre responsabilità. Ho avuto ance il grande onore di presentare l’autrice qua a Milano e voglio ringraziare ancora Sur per la meravigliosa opportunità.
Ecco i pensierini che avevo prodotto:

“Kentuki” merita un posto di riguardo nel pantheon dei libri bizzarri. Più che a un romanzo, somiglia a un’indagine – per episodi più o meno collegati – che si dipana a partire da un’idea di fondo molto ricca ed emblematica. Funziona così. In un presente del tutto analogo al nostro, approdano sul mercato dei pupazzi interattivi. Conigli, gatti, draghi, corvi… non sono particolarmente belli o ben fatti, ma sono “telecomandabili” da remoto. La persona X si compra un pupazzo e la persona Y, da qualche parte nel mondo, compra una connessione e “diventa” il kentuki che abita da X, vedendo cosa fa X e inserendosi nella sua quotidianità, pur non potendo comunicare verbalmente. X e Y non possono nemmeno scegliersi a vicenda: il sistema ti assegna un pupazzo (e un “padrone”) in modo casuale e la connessione resiste finché il kentuki resta carico o finché una delle due parti non sceglie di interrompere il rapporto (smenandoci dei bei soldi, pure). Samanta Schweblin, a questo punto, ci porta a spasso per il globo, seguendo diverse coppie di padroni e utenti e osservando, insieme a noi, quello che accade quando un kentuki interviene a modificare i tuoi concetti di intimità, responsabilità, umanità, realtà. Il libro è un susseguirsi di incursioni in presa diretta che illuminano, man mano, diversi aspetti di un fenomeno degno di una puntata di Black Mirror – con una struttura narrativa anche assai simile, mi viene da dire. È un libro che potrebbe continuare potenzialmente all’inifinito, man mano che la mania dei kentuki si diffonde e si stratifica. Cosa diventiamo, quando ci sembra di poter governare (o di spiare, non visti e coperti dall’anonimato) la vita di un’altra persona? E perché mai quest’altra persona ce lo fa fare? Quanto profonda è, davvero, la nostra solitudine “strutturale”? Cosa possiamo scoprire di noi, riflettendo su come scegliamo di gestire la nostra libertà?

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Stefania Auci, I leoni di Sicilia

Quando un libro va primo in classifica – e ci rimane saldamente per un bel po’ – arrivano regolarmente i consueti “eh, ma lo leggono tutti… sarà una porcheria”. Ecco, vorrei mettere felicemente da parte lo snobismo editoriale per applaudire Stefania Auci e il capitolo inaugurale della saga dei Florio. È un romanzo che riesce a produrre un felice equilibrio tra “epica commerciale” e storie personali, storia d’Italia e sentimenti, lingua ben radicata nel contesto e scorrevolezza generale. Evviva!
P.S. La tentazione di pianificare un nuovo viaggio a Palermo per un Florio-tour è forte.
Ecco i pensierini.

Che vasta piacevolezza. Che bel polpettone – nel senso più onorevole del termine. Stefania Auci (documentandosi come una matta, presumo sapendo di non sbagliarmi) ricostruisce l’epopea economica e “sentimentale” della famiglia Florio, approdata a Palermo dalla Calabria per campare di commercio. Dal chinino al marsala, dallo zolfo ai pizzi, la dinastia Florio attraversa i grandi rimescolamenti storici dell’Ottocento con caparbia lungimiranza e indomito spirito d’iniziativa, facendo e disfacendo instancabilmente. Schifati dai nobili di sangue (ben più poveri di loro) e mai perdonati dai pari rango per il successo estrosamente ottenuto, i Florio si scrollano di dosso la muffa della prima bottega per trasformare tonnare in ville visionarie, cambiali in tesori, scommesse azzardate in solide eredità. È una narrazione vasta e vivace, che alterna amori e conflitti casalinghi a incursioni nel più ampio orizzonte dell’Italia pre-unitaria. La Sicilia è presente nella lingua – i dialoghi sono curatissimi – e ribolle di contraddizioni, splendori e magnifiche miserie. Le ossessioni dei Florio – e di Vincenzo in particolare, in questo primo volume – sono quelle di un mondo che rigenera faticosamente i propri ingranaggi, tra dovere, nostalgia, ambizione e sacrifici spesso cocenti. Che ne sarà dei Florio? Ci tocca aspettare con una certa impazienza il secondo volume.

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Alberto Madrigal, Pigiama computer biscotti

Quante volte avrò già consigliato questo libro? Duemila? Di più, forse.
La storia è quella di un neo-papà, ma ha parlato forte e chiaro anche a me. Sarà perché è un fumetto che riflette sulla creatività, sulla vita pratica da amministrare, sui nuovi inizi e sui bambini che nascono. Sarà che sono rimasta affascinata dalla sensibilità e dalla franchezza di Madrigal. Sarà che lavoro in pigiama pure io. Non lo so, ma in Pigiama computer biscotti c’è qualcosa di speciale. Ed è un gioiello che custodirò con cura.
Ecco qualche approfondimento:

Alberto Madrigal ha il raro dono di raccontare l’ansia senza fartela venire troppo. Non te la fa passare, intendiamoci, ma la sfuma e la scompone, ci pensa su insieme a te e la gestisce un pezzettino alla volta. In questo fumetto – che si costruisce sotto ai nostri occhi, perché dentro al fumetto c’è anche Madrigal che cerca di capire che fumetto fare – si parla di creatività, dei compromessi della vita adulta, di case che non si puliscono da sole, di traslochi – perché aiutiamo sempre tutti a traslocare e poi quando tocca a noi arrivano quattro gatti? -, di paternità, mal di testa inevitabili e colazioni al bar la domenica. È un magnifico distillato di quotidianità e dilemmi, di equilibri impossibili tra le esigenze della sopravvivenza e il lusso di poter perdere tempo. In questo libro c’è, soprattutto, la strada tortuosa che dobbiamo imboccare per riconciliarci con l’idea di responsabilità. C’è la frustrazione che spesso ci accompagna quando cerchiamo di far crescere un’idea che, spessissimo, si modifica sotto ai nostri occhi e cambia pelle quando pensiamo di averla ormai afferrata – un po’ come le abitudini dei bambini, che sono abitudini per due giorni e poi diventano altro e tu devi ricominciare da capo con tutti i tuoi processi di adattamento. C’è la routine che mangia le energie, ci sono quei due secondi limpidi di ispirazione e di gioia che ti convincono a non gettare via tutto – o magari sì. E c’è un bimbo che nasce e che, nel mondo nuovo che crea per te, attira nella sua orbita tutto quello che stai cercando di capire e te lo restituisce un po’ masticato e morbidino, ridimensionato ma anche spaventoso. Che vogliamo fare? Si procede. Inventando una pagina alla volta. Saggi e lievi, pacifici e preoccupati.

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Imogen Hermes Gowar, La sirena e Mrs Hancock

Che la mia vera vocazione siano i polpettoni storici? Chi può dirlo. La sirena è un’altra felice rivelazione di quest’anno. Me lo sono letto in inglese prima di scoprire che sarebbe uscito nei Supercoralli – quando succede mi sento sempre di un’intelligenza che non vi so descrivere – e ho apprezzato l’opulenza e la complessità della ricostruzione “ambientale” così come la deriva fantastica che finisce per insinuarsi come una nebbiolina ineluttabile nelle vite dei protagonisti. Dovrei sfoderarlo più spesso quando mi chiedono “uno di quei libri che riesce a portarti altrove”.
Ecco i pensierini originari:

Nella Londra georgiana di Imogen Hermes Gowar si aggirano almeno due meraviglie. Una sirena imbalsamata di una bruttezza sconcertante – sbarcata da un vascello della flotta di Jonah Hancock, mercante di mezza età abituato a commerci molto meno stravaganti – e la più fulgida cortigiana della capitale, da poco tornata in società dopo la morte di un amante facoltoso. Decisa a cavarsela da sola, Angelica riapparirà nel bordello di lussuosissimo (dove ha militato per anni) come ospite d’onore di una festa a dir poco elaborata. Ed è lì che le due meraviglie – una un po’ più gradevole a vedersi dell’altra, a dire il vero – si incontreranno, con grande stravolgimento del signor Hancock. Mi vuoi, mercante goffo e bruttarello? Dovrai consegnarmi una sirena tutta per me! E il signor Hancock non se lo farà ripetere due volte…
Trama a parte, questo romanzo d’esordio è un gioiello d’ambientazione. E se è vero che ci mette un po’ a ingranare – raggiungendo le sue pagine più fascinose quando la seconda nave farà ritorno a Londra col suo carico WINK WINK – rimane una riuscitissima celebrazione dell’insolito e un “polpettone” (nel senso migliore del termine) molto godibile. È una specie di kolossal storico e sentimentale, che fonde in maniera ricchissima reale e fantastico, ambizione e rovina, bellezza e sconforto, carne e nobiltà d’animo, strade putride e carta da parati, desideri grandiosi e conseguenze catastrofiche. Datemi un muro da foderare di conchiglie. O almeno un ventaglio.

*

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Sally Rooney, Persone normali

Di Sally Rooney tanto si è discusso e, sospetto, ancor più si discuterà. Nel mio piccolissimo, sono felice che una Sally Rooney sia spuntata nel panorama letterario mondiale. Ecco qua il post che avevo scritto per il suo secondo romanzo, Normal People.

*

Il mio preferito dell’anno forse va raccontato nel suo complesso. Perché è una trilogia che funziona (anche) per accumulo e per stratificazioni. Transiti è il secondo capitolo. È stato preceduto da Resoconto e le operazioni si sono chiuse con Kudos – in italiano si chiamerà Onori e sta per uscire in Stile Libero per far compagnia agli altri due. Siamo abituati a confrontarci con protagonisti e personalità ipertrofiche, ma Rachel Cusk ha scelto di fare diversamente. La sua narratrice è una spugna, un fantasma, uno specchio, una trasmittente che capta e immagazzina. E per tre libri compone per noi un mosaico di incontri casuali ma decisivi, catalogando punti di svolta e spostamenti nello spazio e nella coscienza. Sono storie che seguono un arco che non somiglia al consueto tragitto di un eroe o di un’eroina da romanzo, sono archi narrativi che richiamano il modo in cui gli esseri umani “veri” si rendono conto che sta succedendo loro qualcosa di fondamentale. O che hanno perso un’opportunità. O che un pezzo di un passato sepolto sta tornando a interrogarli. O che un cambiamento necessita di essere digerito e capito. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così sfuggente e potente al tempo stesso. Di sentire i pensieri altrui con una nitidezza così spietata e illuminante. O di sentire così poco il bisogno di una struttura più “normale”, anzi.
Vinci tu, Rachel Cusk.
E ora voglio conoscerti meglio.
Perché l’ambizione di “leggere altro”, come ben sappiamo, non ci abbandonerà mai. 🙂