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Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Leggo Hamid sempre con grande interesse – Exit West, il romanzo precedente, credo sia un libro importantissimo e avevo aspettative assai vispe anche per questa novità. In L’ultimo uomo bianco – in libreria per Einaudi nella traduzione di Norman Gobettinon ci si sposta nello spazio utilizzando porte “magiche” (passatemi la semplificazione) ma al centro della storia c’è un altro fenomeno insolito, rivoluzionario, pronto a sovvertire l’ordine costituito e pure inspiegabile: i bianchi cominciano all’improvviso a diventare neri. Lo scopriamo insieme al protagonista, che un bel giorno si sveglia, si specchia e scopre di avere la pelle marrone. Così, sbam. È sempre lui, ma non è più un uomo bianco.

Quello di Anders è un caso isolato? Giammai. Tutti attorno a lui cominciano gradualmente a cambiare, in un crescendo di sconvolgimenti identitari che il tessuto del mondo non può che metabolizzare in maniera conflittuale, farraginosa, imperfetta e faticosa. Seguiamo la parabola di questo mutamento rimbalzando dal punto di vista di Anders a quello di Oona, la ragazza (anche lei bianca) che stava frequentando alla vigilia di questo immane cambio di paradigma.

Anders e Oona non sono due antropologi e nemmeno due col dottorato in sociologia, quindi non ci offriranno effetti speciali “concettuali” di portata sconvolgente, ma accompagnandoli nella loro quotidianità ci faremo strada in questo grande WHAT IF constatandone l’impatto su un orizzonte di ordinarietà che potrebbe somigliare a quello di chiunque. Questa normalità che incarnano penso sia al contempo una scelta utile, ma anche una fragilità di fondo. O, almeno, è così che ho provato a spiegarmi la sensazione di “ma tutto qui?” che ho spesso provato leggendo.
È un romanzo che parte da una premessa ricchissima di implicazioni e, sebbene sia delicato, profondo e splendidamente eseguito, lascia comunque una certa insoddisfazione – e non di sicuro per carenza di conflitto che emerge nel mondo “nuovo”. Sono personaggi che sembrano svuotarsi col procedere della storia, come se l’aver vissuto un fenomeno così portentoso li riguardasse alla lontana. Non so se è Hamid che vuol dirci che possiamo superare egregiamente anche il più inedito e potenzialmente destabilizzante dei fenomeni – e che nessun preconcetto regge di fronte al vivere davvero nei panni di qualcun altro – o se son solo Anders e Oona ad avermi “dato” un po’ meno di quel che volevo sapere.

L’episodio scatenante, in Tutto per i bambini di Delphine De Vigan, è la scomparsa di Kimmy, una bambina di sei anni già veterana di YouTube. La madre, Mélanie, gestisce con enorme successo (e proventi notevoli) uno di quei canali “di famiglia” che documentano con dovizia ogni avventura domestica. Cominciato quasi per gioco – e forse per un’esigenza di visibilità in grado di compensare una carriera da reality-star mai decollata -, quello di Mélanie è diventato un lavoro a tutti gli effetti, che coinvolge i due figli imponendo loro i ritmi pressanti che conseguono al dovere di “esserci” online, costruendo di fatto una normalità posticcia, dove si recita a beneficio degli sponsor e anche i più piccoli di casa sono chiamati a contribuire.

Mélanie, non si sa se per ingenuità, opportunismo o mera ambizione, cerca di convincersi che tutto quello che lei ama fare, apparendo, sia un gioco e una gioia priva di vincoli anche per i suoi figli – oltre che per un pubblico sterminato e molto partecipe -, ma sarà davvero così? Se il maggiore, Sam, non manca mai di dimostrarsi collaborativo, lo stesso non si può dire della sorellina minore, che crescendo pare sempre meno entusiasta di guardare in camera e recitare il copione prestabilito…

Il romanzo (tradotto per Einaudi da Margherita Botto) si muove su diversi piani temporali e punti di vista, invitandoci a esplorare i trascorsi e il presente delle protagoniste (Mélanie e Clara, la puntigliosa investigatrice/archivista assegnata al caso). A inframezzare la narrazione troviamo capitoli che riproducono i verbali della polizia parigina: le trascrizioni delle deposizioni raccolte o la meticolosa mappatura di quel che si vede sul canale YouTube della famiglia e sui social di Mélanie. Insomma, Tutto per i bambini è un ibrido tra il giallo e lo scavo virtual-sociologico, dagli albori televisivi dei reality a un futuro in cui De Vigan tenta di immaginare quali potranno essere le ripercussioni di questa sovraesposizione strutturale, mediata dalle piattaforme social ma comunque profondamente invasiva (per quanto non scevra di benefici materiali che si fanno man mano sempre più paradossali).

Al di là dell’indagine per ritrovare Kimmy (che qua funge da pretesto per esplorare un tema ramificato, riuscendo comunque a risultare avvincente), De Vigan costruisce una riflessione pungente e assai sensata sulle potenziali conseguenze a lungo termine della spettacolarizzazione fai-da-te del tran tran domestico. Il confine labile è quello tra strumentalizzazione e buone intenzioni, tra ricerca del benessere e sfruttamento spintissimo della privacy, tra spontanietà e canovacci commerciali, tra etica e intrattenimento. È una storia che indaga la nostra identità di consumatori (sia di merci che di contenuti) e ci ritrae nel ruolo di spettatori famelici e giudici implacabili, di “cittadini” di contesti virtuali che stanno modificando sia il nostro modo di guardare che di presentarci al resto del mondo.

 

Che c’è di vero nei ricordi di famiglia?
Forse niente – ed è un niente molto più tentacolare di quello che accompagna i ricordi “normali”. Quel che c’è di vero sono le tracce che ci rimangono addosso e le spiegazioni che proviamo a darci, ma è una verità che associamo a un sentire sanguigno e non è raro che differisca di parecchio dalla cronaca imparziale e scientifica dei fatti.
Che possiamo saperne degli altri, poi?
Registriamo l’urto che generano su di noi, ma mai capiremo sul serio il perché profondo di quelle collisioni: si cresce compensando con l’invenzione i misteri imperscrutabili di casa propria e si cresce scegliendo cosa omettere o cosa infiorettare per cavarsela. Si cresce inventandosi una vita d’uscita e barando con tutta la gaiezza che possiamo chiamare a raccolta.

Vi ho quasi certamente attaccato una pippa superflua, però. Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), non è uno di quei cronaconi formativi dolenti, ma somiglia di più a un’allegrissima operazione di esorcismo del gettonatissimo POVERA ME GUARDA CHE MI È TOCCATO.
Una madre capace di localizzarti a casa di chiunque – esteri compresi – in un’epoca priva di cellulari. Un padre che tira su tramezzi in casa trasformando un appartamento di 60 metri quadri in una sorta di alveare labirintico. Vestaglie, emicranie e Radio3. Vacanze che vanno a rotoli. Diffidenze ginecologiche strutturali e fidanzati che non ti vogliono mai al momento giusto – e poi trovano pure Gesù. Cofani fracassati. Ragazzine mummificate nello Scottex per non farle sudare. Zie pugliesi che ti infamano perché sei l’unica senza tette. Randagismo e case altrui. Lettere piene di frottole e scarponi in spiaggia perché ci sono i vetri. Rompersi le palle – anche grazie ai libri -, fratelli prodigio, clamorose truffe artistiche, bidelli coglioni, maniaci con l’impermeabile e nonne che parlano con la televisione.
La mitologia domestica di Veronica Raimo è una collezione di pessimi esempi, un esperimento di fuga continua, di adattamento tragicomico, di costruzione storta ma efficiente di un orizzonte sgombro dalle menate che ci buttano addosso. Anzi, è una rivendicazione surreale e molto divertente del diritto di fabbricarci le nostre personalissime menate, perché almeno in quello sarebbe bello poter fare di testa propria.

Perché scriviamo? Non posso rispondere per Raimo, ma forse lo facciamo per inventarci un posto più abitabile, per vendicare una versione più antica di noi, per dimostrarci di aver scansato l’ennesimo sabotaggio, per sincerarci di aver scendo, per non concedere a un male di svanire col tempo o per vincere ridendoci su. Scriviamo sulle ingessature che ci toccano in sorte mentre aspettiamo che le nostre ossa tornino a saldarsi. Ne usciamo più storte e di certo diverse da un ipotetico “prima”, ma quel che conta è come decidiamo di ricomporci. Che sia osso o memoria poco conta: restano comunque pezzi strutturali di noi.

Vorrei esordire con una personalissima constatazione: Paolo Cognetti mi infonde serenità.  Non c’è romanzo o cronaca del suo filone “d’alta quota” – da Le otto montagneSenza mai arrivare in cima – che non mi abbia avvolta in questa specie di sacco a pelo imbottito di calma, orizzonti sgombri e moti essenziali dell’animo. In un presente dove ogni minimo dettaglio si trasforma in un labirinto ipertrofico di cavillosità, incombenze invasive ed erosione inesorabile del tempo, Cognetti sfronda e ci offre uno spiraglio alternativo di mondo, senza però provare a venderci il sogno della vita semplice e della natura che salva. Nemmeno i suoi personaggi vagano per boschi e vette con l’adamantina certezza di sapercisi stabilire e di trovare fra le frasche tutte le risposte ai loro dilemmi, ed è proprio questa ricerca a renderli preziosi: si concedono lo spazio per pensarci, sono disposti a deviare dalla rotta che conoscono per mettersi alla prova in un ritmo nuovo. Tendiamo ad attribuire una valenza estremamente positiva all’imposizione della nostra volontà sul mondo che ci circonda, ma quanto possiamo dire di controllare davvero il nostro angolino di realtà? Che cosa succede quando ci spostiamo in un ambiente non addomesticato, in un posto dove la natura prevale ancora sulle nostre incursioni? Che cosa rimane di quell’ambizione di controllo, quando il paesaggio muta radicalmente di stagione in stagione e ci comunica la nostra sostanziale irrilevanza?

La felicità del lupo è un tentativo corale di riposizionamento e ricerca. Fausto, a quarant’anni, si separa dalla moglie e decide di tornare a schiarirsi le idee a Fontana Fredda, il paesino di montagna che conosce fin da bambino. Il fatto che il suo matrimonio si disgreghi senza particolari scenate o clamori è di certo il segnale eloquente di una fiammella ormai estinta da tempo, ma non semplifica le cose. Perché Fausto in montagna scappava già da un pezzo e Veronica non manca di rinfacciargli una frattura di fondo, che forse è sempre dipesa più da lui che da loro:

Ci pensi mai agli altri, mentre fai la tua decrescita felice?

A Fontana Fredda, una manciata di case attorno a una pista da sci, ci sono signore novantenni che raccolgono le erbe selvatiche nei campi, case da affittare a sparuti turisti, aste comunali per assegnare cataste imponenti di legname, “local” che si conoscono tutti e un unico ristorante aperto da una ex-ragazza di città che in montagna doveva rimanere poco ma che poi s’è lasciata convincere dall’amore. Babette offre a Fausto un lavoro in cucina per la stagione e Fausto, che ha più buona volontà che alternative a disposizione, si lascia reclutare volentieri. Babette smista sciatori, addetti al gatto delle nevi e manovratori di seggiovie mentre Fausto prepara da mangiare e Silvia serve ai tavoli. Silvia ha finito di studiare e sta inanellando una serie di esperimenti. Nel suo personale multiverso di tentativi c’è il ristorante di Babette, c’è l’idea di passare un altro pezzo della stagione “calda” ad accudire gli alpinisti che esplorano i ghiacciai del Rosa o a raccogliere le mele. Fausto diventa una fonte di tepore che potrebbe spegnersi o accompagnarla lungo la strada, ma per scoprirlo serve un tempo fatto di gesti essenziali e istintivi, che somigliano a ogni altra manifestazione della natura. La montagna si rivelerà gentile coi suoi nuovi e vecchi abitanti? Fontana Fredda diventerà il posto in cui si trovano finalmente le risposte che cerchiamo o il campo-base per scarpinare verso le domande veramente necessarie?

Se vi è garbato Le otto montagne, qua ritroverete una versione – forse ancora più essenziale – di “quel” Cognetti. È un romanzo che culla e avvolge, nonostante ci porti in paesaggi poco clementi e lungo crinali che franano tritandoci le mani. Ci sono corpi che faticano, che guariscono, che si spostano in uno spazio selvatico come molti pensieri che cerchiamo di non far riaffiorare. Essenzialmente, è un libro che molto indaga l’idea di cura – per gli altri, per la propria solitudine, per i legami col posto che ci scegliamo, per il bosco e le vette, per la semplicità dei gesti che ci assicurano le basi della sopravvivenza, per la ricerca (individuale) di una forma più abitabile di futuro. Si finisce per somigliare al luogo in cui decidiamo di stabilirci? Forse dipende da quanto fiato abbiamo: tendiamo a usarlo per continuare a ripeterci che serve troppo coraggio per cambiare e un po’ meno per sostenere i nostri passi verso alternative nuove. Non serve scalare una montagna per andare a cercarci, ma è anche molto vero che più si sale più diventa importante non limitarsi a camminare con le gambe: per non mettere un piede in fallo, per evitare i crepacci nascosti e per non accasciarsi stremati alla prima asperità ci vogliono una testa saldissima e la disposizione ad accogliere ogni appiglio che può esserci fornito. E coltivare certi appigli, molto umani e molto adatti al nostro cuore, è un atto di semplice fede che protegge anche dall’inverno più inclemente.

Quel che sappiamo del “mondo” di Biglietto blu è essenziale (e all’apparenza semplicissimo, nel suo funzionamento): alla prima mestruazione, tutte le ragazze vengono accompagnate in un edificio governativo per l’assegnazione del biglietto che determinerà il loro futuro. Biglietto bianco: avranno una famiglia e dei figli. Biglietto blu: lavoreranno, non saranno obbligate a stringere legami duraturi e dovranno obbedire all’imperativo di non riprodursi. Dopo l’estrazione, le biglietto-bianco saranno caricate su un’auto che le accompagnerà al loro nuovo nido, mentre le biglietto-blu, tempestivamente dotate di spirale, dovranno cavarsela da sole per raggiungere “la città”, abbandonando su due piedi la famiglia d’origine e affrontando un viaggio assai poco rassicurante. Hai fame? Nessun problema, cattura un bel coniglio selvatico e scuoiatelo a mani nude. Hai freddo? Peggio per te. Ti si sono sfondate le scarpe? Rubale a qualche altra ragazzina che vaga sulla statale.
Il biglietto si può cambiare? No, il “sistema” decide, provvede, traccia la rotta e, soprattutto, non sbaglia. Non ci si appella all’assegnazione del biglietto così come non si mettono in discussione le grandi certezze della natura: il sole sorge e tramonta, le biglietto-bianco accudiranno i loro figli e le biglietto-blu saranno produttive, indipendenti e “libere”. Le biglietto-bianco non frequentano le biglietto-blu e nessuna sa più di quello che le occorre sapere. A ogni donna è assegnato un dottore che, a cadenza serrata, si prenderà cura della sua mente e del suo corpo. I dottori sono figure ibride, un po’ psicanalisti, un po’ medici generalisti e un po’ funzionari pubblici, controllori e guardiani. Ti misuro la pressione e mi assicuro che anche questa settimana non ti siano venute le piattole, ti parlo e ti ricordo immancabilmente qual è il tuo posto e che cosa ci si aspetta da te, ti racconto che il sistema ti conosce e che il biglietto che hai è proprio quello che asseconda la tua indole più profonda. Ma fila sempre tutto liscio? Ogni donna obbedisce e si allinea al ruolo che le toccato in sorte? Dipende. Questo romanzo esiste perché esiste una ribelle. 

In tutta sincerità, ero in apprensione per la tenuta di questo libro. Nel recente passato, sono spuntati parecchi romanzi che hanno cercato di esplorare i margini di manovra delle femmine all’interno di società e contesti più o meno normati, mondi alternativi che portano all’estremo i germi non sempre benevoli del presente che abitiamo per provare a farci intravedere un fosco orizzonte incombente – o per farci più che motivatamente incazzare. Alcuni libri hanno assegnato alle donne poteri in grado di sovvertire lo status quo – penso a Ragazze elettriche, tanto per citarne uno molto fortunato e credo pure piuttosto riuscito – mentre altri sono partiti da premesse “croccanti” (e forse anche un po’ furbette) per risolversi poi in pasticci che poco aggiungono alla consapevolezza collettiva o si trasformano, più semplicemente, in occasioni sprecate. Insomma, un Racconto dell’ancella non può materializzarsi in libreria tutti i giorni, ma quel che possiamo augurarci è di imbatterci, di tanto in tanto, in un romanzo che non si sfilacci sotto al peso di una premessa forse troppo ambiziosa, per quanto significativa e stimolante. Ecco, Sophie Mackintosh non ci tradisce. Ci tratta un po’ come i medici di Biglietto blu – uscito nei Supercoralli Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti – trattano le loro pazienti: ci fornisce l’impianto basilare del mondo e lascia che sia Calla, la biglietto-blu che ci farà da portabandiera, a tratteggiare per noi il paesaggio interiore delle non-allineate. È il tocco di un’accorta stratega, ma è anche molto efficace, “vivo”. Un po’ funziona perché l’isolamento di Calla rispecchia i compartimenti stagni che separano forzosamente le detentrici dei due tipi di biglietto, ma anche perché l’imperativo a cui Calla finirà per rispondere è intimo, slegato dalle circostanze e dalle lecite possibilità che le spettano e, soprattutto, nasce da una presa di coscienza che demolisce i limiti per esplorare il cuore vero della questione: la possibilità di scegliere.

Siamo forse più abituate a lottare per il riconoscimento del nostro sacrosanto diritto a non diventare madri. Mackintosh assegna alla sua protagonista un imperativo diametralmente opposto: in una società che non prevede per le biglietto-blu la possibilità di fare figli (e che con ogni mezzo cerca di convincere le biglietto-blu che quella sia la strada più adatta a loro), Calla cerca di tenere a bada un grumo inammissibile di desiderio, finendo poi per accettare questo “sentimento oscuro” e passare consapevolmente all’azione, preparandosi ad affrontare le poco rosee conseguenze della sua scelta. Lottare per diventare madri o per non diventare madri? In realtà, stiamo parlando della stessa cosa. La gravidanza clandestina di Calla sfonda i confini del lecito per abbattere una barriera che intrappola sia le biglietto-blu che le biglietto-bianco: non ci sarà libero arbitrio per nessuna, finché un sistema senza volto (e forse anche governato da caso) continuerà a stabilire il destino biologico delle sue pedine. Lo status riproduttivo dell’una o dell’altra categoria è solo il tassello iniziale di un’estensione capillare del controllo: nel mondo di Calla viene accettato come fatto inconfutabile che lavoro e cura della famiglia non possano coesistere, che una vivace attività sessuale non possa accompagnarsi alla gestione del focolare domestico, che l’ambizione all’indipendenza economica non possa riguardare anche le madri. Da ambo le parti, le donne vengono catechizzate sistematicamente e strumentalmente. Guarda come sei fortunata, puoi uscire la sera, scopare con chi ti pare, fare carriera e coltivare la tua individualità. Guarda come sei fortunata, puoi coccolare un bebè e vivere in una bella casa, sei al sicuro, là fuori ci si affanna ma tu non devi preoccuparti di nulla. Calla avanza, giorno dopo giorno, con la convinzione di essere difettosa, di non aver meritato il biglietto-bianco, di essere carente su qualche fronte decisivo. Le viene ripetuto che non dipende da lei, che quello che le è stato assegnato è esattamente quello che merita e che le si addice di più, perché il sistema le conosce tutte e sa che cosa è meglio per ciascuna. Non è tutto più semplice, alla fin fine, quando qualcuno traccia già il sentiero per noi? Perché affannarsi tra decisioni, scelte e cantonate inevitabili, quando possiamo riconoscerci nel ruolo che ci è stato assegnato e risparmiarci un sacco di fatiche e di sofferenze? Calla si renderà presto conto, però, che per quanto un carceriere possa apparirci benevolo, sempre un carceriere resta.

Per non rovinarvi avvenimenti e colpi di scena non mi addentrerò nel viaggio di Calla – ormai smascherata da una pancia prominente, verrà magnanimamente invitata a lasciare il contesto civile di cui non può più dirsi parte – ma quel che mi sento di dire è che sì, regge fino alla fine. Anzi, il finale è un bel treno che vi investirà. Giuro, sono dilaniata.
Mackintosh è asciutta, diretta, essenziale. Calla esordisce con reticenza, perché molto del suo cuore è abituata a nascondere per poter continuare a esistere “libera”, ma quello che si concede di provare cresce gradualmente col venire meno delle impalcature che da sempre la ingabbiano. È un romanzo che rifugge ogni approccio impositivo all’identità, che rivendica un territorio dove sentirci alleate, dove poterci evolvere e riconoscere. È un romanzo che parla di corpo, di strutture di controllo e di indipendenza – che non deriva semplicemente dal poter esercitare un individualismo “produttivo”, ma dalla possibilità di costruire uno spazio di scelta che non dipenda da legittimazioni esterne o dall’imposizione di un modello. È un libro, anche, che demolisce l’illusione confortante di una deresponsabilizzazione sistematica: vogliamo prenderci cura di te, vogliamo toglierti un peso, ti vogliamo semplificare la vita… ecco perché decidiamo per te. Tu non ne sei capace, è chiaro, ma siamo pronti a farci carico anche di questo tuo limite. Ci sta a cuore il tuo bene, davvero, compenseremo noi le imperfezioni che ti impediscono di affrontare l’universo in autonomia. Ma cosa stiamo al mondo a fare, se non per tentare con le nostre migliori forze di far combaciare la realtà esterna con la realtà che ci portiamo dentro? Cosa ci resta, se non veniamo manco ritenute in grado di sapere chi siamo o di scoprire, col tempo, che cosa desideriamo davvero? Un biglietto colorato, forse. Assegnato per caso.

Claudia e Francesco condividono un legame antico. Un po’ dipende dalla fascinazione di lui e un po’ dalle circostanze: la madre di Francesco e il padre di Claudia sono amanti. Quando, ancora ragazzini, si trovano a dover imparare a convivere con questa realtà parallela – che sgretola famiglie “ufficiali” ma spalanca uno spazio di sentimento libero, nonostante tutto – diventano un punto di riferimento l’una per l’altro. In comune hanno più di quanto si potrebbe sospettare e, negli anni, nemmeno la distanza li separerà, perché quello che davvero li fonde è l’essere perennemente spostati rispetto al contesto a cui appartengono.
I ritmi del distacco sono diversi. Claudia sceglie di andarsene dalla Puglia appena può, prima per studiare a Milano e poi per lavorare all’estero. Francesco resta, ma la sua vita “reale” è nel contatto assiduo che mantiene con Claudia, in quello che capita a lei molto lontano – amori compresi. Quel che si dicono, le poesie che si leggono, la musica che si scambiano sono da sempre una rete di salvataggio e il muro di cinta del loro universo privato. Ma per quanto potranno continuare a sorreggersi “da lontano”?

Spatriati di Mario Desiati è un romanzo che si allontana dalla narrazione di relazioni “lineari” e dall’utilizzo dei luoghi come cornici neutre o mero sfondo. Claudia e Francesco abitano un limbo fluido che si apre a un’idea di famiglia come spazio interiore, di ricerca di identità e di sperimentazione sessuale. Racconta anche di una generazione che osa immaginare l’altrove e che colleziona sconfitte, facendo della possibilità di mutare la sua unica vera arma. Si va alla deriva e si accetta quest’estraneità strutturale, senza mai smettere di cercare. Quel che salva, quel che fa “casa” è chi ci vede per quel che siamo e che nel tempo ci ha permesso di scoprirlo.

Per buttarla in metafora astronomica, Claudia e Francesco sono una specie di sistema binario che funziona con una gravità tutta sua, accogliendo nella sua orbita erratica parecchie meteore – più o meno destinate alla permanenza. In realtà, però, quel che davvero si cerca è una stella polare – che ritroviamo sempre anche se cambiamo latitudine. E c’è chi nella sua latitudine non si amalgama mai, ma ha avuto l’occhio lungo di scegliersi una stella polare molto brillante.

Nozioni di base: Olive, ancora lei di Elizabeth Strout – in libreria per Einaudi con la traduzione di Susanna Basso – è il seguito di Olive Kitteridge uscito… quand’era? Nel 2008. Ne rispecchia spirito, intenti e struttura e, anticipando una possibile e legittima domanda, ha sicuramente più senso se li si legge in ordine. Perché il secondo è proprio un “sequel”.

Ma come sono fatti, questi libri? Sono narrazioni corali con un centro di gravità geografico – la cittadina costiera di Crosby, Maine – e personale – Olive.
Non tutti i capitoli riguardano Olive o la sua famiglia in senso stretto, ma tutti i capitoli la vedono apparire (anche solo fugacemente) o lasciare un’impronta di qualche genere – e spesso indelebile – sui personaggi che incontra.

Chi è Olive? Un’insegnante in pensione dotata di filtri ridottissimi e di un perentorio spirito critico. Insomma, insiste per spiegarti come si sta al mondo anche se non gliel’hai chiesto, si impiccia e sentenzia, ma non la tiri sotto con la macchina perché sovente si dimostra più saggia di te. E non è immune alle miserie umane che tanto mostra di disprezzare e compatire.

In questo secondo capitolo la vediamo alle prese con la vedovanza e con il possibile germogliare di un nuovo sodalizio… e torna anche ad affacciarsi il bistrattato figlio Christopher, che appena ha potuto è scappato lontanissimo da Crosby. In generale, è un libro che misura il tempo che passa e tutti i personaggi fanno i conti con quello che sono riusciti a combinare nella vita. Che è poco, di solito. O è qualcosa che non era stato particolarmente preventivato. Come si gestiscono i rimpianti? Ma che abbiamo fatto con gli anni che ci sono stati concessi?

È un libro che mette in fila le minuzie del quotidiano e i dettagli “pratici” del vivere, per analizzare sentimenti e dilemmi giganteschi. Ci sono esseri umani nudi e crudi, travolti da menate legittime, tragiche e plausibili. È anche un libro che racconta la lenta moviola dell’invecchiamento, gli acciacchi e la caparbietà con cui fingiamo di non esserne scalfiti. Olive battaglia con tutto e tutti, ma la sfida più aspra che la attende è quella col suo corpo che perde colpi e con la sua mente che non guizza più come un’anguilla elettrica. Questa parabola, credo, resta la più profonda, spinosa e toccante del libro.

Insomma, ho ritrovato lo spirito di Olive Kitteridge è stato affascinante osservare l’impronta del tempo che transita su Crosby, sui suoi ben poco tediosi abitanti e sui numerosi scheletri che ospitano nei loro armadi. Il tramonto di Olive è, come ogni tramonto con un po’ di senso del teatro, uno spettacolo che meraviglia e scalfisce.

Quest’anno avrò letto abbastanza? Certo che no. Anzi, non credo esista il concetto di “leggere abbastanza”. In qualche lingua dal potenziale combinatorio più potente dell’italiano penso ci sia un unico termine capace di definire il concetto di “mi prendo a calci nel sedere da sola perché vorrei leggere di più ma poi per una roba o per l’altra finisce sempre che mi sembra di aver letto di meno di quanto penso potrebbe essere utile, auspicabile e sensato per il mio sviluppo emotivo/culturale e pure per accrescere la mia capacità di comprendere il mondo circostante e gli altri esseri umani che lo abitano”.
Circa.
Insomma, non ho un termine… ma il sentimento è quello.
Prendendola più sportivamente, il 2019 è stato un anno di buoni libri e ottime scoperte. Questo sarà un post riepilogativo che non intende aggiungere un granché rispetto a quello che magari ho già raccontato in giro. È proprio un post per fare mente locale.
Ecco, dunque, i miei preferiti di quest’anno – son libri usciti anche prima? È possibile. Ma li mettiamo qua perché li ho letti nel 2019, non perché sono effettivamente usciti nel 2019.
Bene. Procedo in ordine sparso.

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Hanya Yanagihara, Una vita come tante

Se ben ci pensiamo, è un mistero. Perché abbiamo collettivamente amato così tanto un romanzo che fa stare così male? Linea agli psicologi all’ascolto.
Baggianate a parte, ecco qua il post che avevo scritto per cercare di incanalare meglio l’infinito strazio che Jude, Willem, Malcolm e JB sono riusciti a mettermi addosso: “Il gruppo di sostegno per Una vita come tante.

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Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Samanta Schweblin, Kentuki

Kentuki ha conquistato il Premio MACHEDIAV dell’anno. Metafora solo all’apparenza giocosa del nostro rapporto con la tecnologia, è una collezione di istantanee e di storie complicate che indagano, in realtà, la nostra capacità di stringere legami e di fare del male – soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi o possa richiamarci alle nostre responsabilità. Ho avuto ance il grande onore di presentare l’autrice qua a Milano e voglio ringraziare ancora Sur per la meravigliosa opportunità.
Ecco i pensierini che avevo prodotto:

“Kentuki” merita un posto di riguardo nel pantheon dei libri bizzarri. Più che a un romanzo, somiglia a un’indagine – per episodi più o meno collegati – che si dipana a partire da un’idea di fondo molto ricca ed emblematica. Funziona così. In un presente del tutto analogo al nostro, approdano sul mercato dei pupazzi interattivi. Conigli, gatti, draghi, corvi… non sono particolarmente belli o ben fatti, ma sono “telecomandabili” da remoto. La persona X si compra un pupazzo e la persona Y, da qualche parte nel mondo, compra una connessione e “diventa” il kentuki che abita da X, vedendo cosa fa X e inserendosi nella sua quotidianità, pur non potendo comunicare verbalmente. X e Y non possono nemmeno scegliersi a vicenda: il sistema ti assegna un pupazzo (e un “padrone”) in modo casuale e la connessione resiste finché il kentuki resta carico o finché una delle due parti non sceglie di interrompere il rapporto (smenandoci dei bei soldi, pure). Samanta Schweblin, a questo punto, ci porta a spasso per il globo, seguendo diverse coppie di padroni e utenti e osservando, insieme a noi, quello che accade quando un kentuki interviene a modificare i tuoi concetti di intimità, responsabilità, umanità, realtà. Il libro è un susseguirsi di incursioni in presa diretta che illuminano, man mano, diversi aspetti di un fenomeno degno di una puntata di Black Mirror – con una struttura narrativa anche assai simile, mi viene da dire. È un libro che potrebbe continuare potenzialmente all’inifinito, man mano che la mania dei kentuki si diffonde e si stratifica. Cosa diventiamo, quando ci sembra di poter governare (o di spiare, non visti e coperti dall’anonimato) la vita di un’altra persona? E perché mai quest’altra persona ce lo fa fare? Quanto profonda è, davvero, la nostra solitudine “strutturale”? Cosa possiamo scoprire di noi, riflettendo su come scegliamo di gestire la nostra libertà?

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Stefania Auci, I leoni di Sicilia

Quando un libro va primo in classifica – e ci rimane saldamente per un bel po’ – arrivano regolarmente i consueti “eh, ma lo leggono tutti… sarà una porcheria”. Ecco, vorrei mettere felicemente da parte lo snobismo editoriale per applaudire Stefania Auci e il capitolo inaugurale della saga dei Florio. È un romanzo che riesce a produrre un felice equilibrio tra “epica commerciale” e storie personali, storia d’Italia e sentimenti, lingua ben radicata nel contesto e scorrevolezza generale. Evviva!
P.S. La tentazione di pianificare un nuovo viaggio a Palermo per un Florio-tour è forte.
Ecco i pensierini.

Che vasta piacevolezza. Che bel polpettone – nel senso più onorevole del termine. Stefania Auci (documentandosi come una matta, presumo sapendo di non sbagliarmi) ricostruisce l’epopea economica e “sentimentale” della famiglia Florio, approdata a Palermo dalla Calabria per campare di commercio. Dal chinino al marsala, dallo zolfo ai pizzi, la dinastia Florio attraversa i grandi rimescolamenti storici dell’Ottocento con caparbia lungimiranza e indomito spirito d’iniziativa, facendo e disfacendo instancabilmente. Schifati dai nobili di sangue (ben più poveri di loro) e mai perdonati dai pari rango per il successo estrosamente ottenuto, i Florio si scrollano di dosso la muffa della prima bottega per trasformare tonnare in ville visionarie, cambiali in tesori, scommesse azzardate in solide eredità. È una narrazione vasta e vivace, che alterna amori e conflitti casalinghi a incursioni nel più ampio orizzonte dell’Italia pre-unitaria. La Sicilia è presente nella lingua – i dialoghi sono curatissimi – e ribolle di contraddizioni, splendori e magnifiche miserie. Le ossessioni dei Florio – e di Vincenzo in particolare, in questo primo volume – sono quelle di un mondo che rigenera faticosamente i propri ingranaggi, tra dovere, nostalgia, ambizione e sacrifici spesso cocenti. Che ne sarà dei Florio? Ci tocca aspettare con una certa impazienza il secondo volume.

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Alberto Madrigal, Pigiama computer biscotti

Quante volte avrò già consigliato questo libro? Duemila? Di più, forse.
La storia è quella di un neo-papà, ma ha parlato forte e chiaro anche a me. Sarà perché è un fumetto che riflette sulla creatività, sulla vita pratica da amministrare, sui nuovi inizi e sui bambini che nascono. Sarà che sono rimasta affascinata dalla sensibilità e dalla franchezza di Madrigal. Sarà che lavoro in pigiama pure io. Non lo so, ma in Pigiama computer biscotti c’è qualcosa di speciale. Ed è un gioiello che custodirò con cura.
Ecco qualche approfondimento:

Alberto Madrigal ha il raro dono di raccontare l’ansia senza fartela venire troppo. Non te la fa passare, intendiamoci, ma la sfuma e la scompone, ci pensa su insieme a te e la gestisce un pezzettino alla volta. In questo fumetto – che si costruisce sotto ai nostri occhi, perché dentro al fumetto c’è anche Madrigal che cerca di capire che fumetto fare – si parla di creatività, dei compromessi della vita adulta, di case che non si puliscono da sole, di traslochi – perché aiutiamo sempre tutti a traslocare e poi quando tocca a noi arrivano quattro gatti? -, di paternità, mal di testa inevitabili e colazioni al bar la domenica. È un magnifico distillato di quotidianità e dilemmi, di equilibri impossibili tra le esigenze della sopravvivenza e il lusso di poter perdere tempo. In questo libro c’è, soprattutto, la strada tortuosa che dobbiamo imboccare per riconciliarci con l’idea di responsabilità. C’è la frustrazione che spesso ci accompagna quando cerchiamo di far crescere un’idea che, spessissimo, si modifica sotto ai nostri occhi e cambia pelle quando pensiamo di averla ormai afferrata – un po’ come le abitudini dei bambini, che sono abitudini per due giorni e poi diventano altro e tu devi ricominciare da capo con tutti i tuoi processi di adattamento. C’è la routine che mangia le energie, ci sono quei due secondi limpidi di ispirazione e di gioia che ti convincono a non gettare via tutto – o magari sì. E c’è un bimbo che nasce e che, nel mondo nuovo che crea per te, attira nella sua orbita tutto quello che stai cercando di capire e te lo restituisce un po’ masticato e morbidino, ridimensionato ma anche spaventoso. Che vogliamo fare? Si procede. Inventando una pagina alla volta. Saggi e lievi, pacifici e preoccupati.

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Imogen Hermes Gowar, La sirena e Mrs Hancock

Che la mia vera vocazione siano i polpettoni storici? Chi può dirlo. La sirena è un’altra felice rivelazione di quest’anno. Me lo sono letto in inglese prima di scoprire che sarebbe uscito nei Supercoralli – quando succede mi sento sempre di un’intelligenza che non vi so descrivere – e ho apprezzato l’opulenza e la complessità della ricostruzione “ambientale” così come la deriva fantastica che finisce per insinuarsi come una nebbiolina ineluttabile nelle vite dei protagonisti. Dovrei sfoderarlo più spesso quando mi chiedono “uno di quei libri che riesce a portarti altrove”.
Ecco i pensierini originari:

Nella Londra georgiana di Imogen Hermes Gowar si aggirano almeno due meraviglie. Una sirena imbalsamata di una bruttezza sconcertante – sbarcata da un vascello della flotta di Jonah Hancock, mercante di mezza età abituato a commerci molto meno stravaganti – e la più fulgida cortigiana della capitale, da poco tornata in società dopo la morte di un amante facoltoso. Decisa a cavarsela da sola, Angelica riapparirà nel bordello di lussuosissimo (dove ha militato per anni) come ospite d’onore di una festa a dir poco elaborata. Ed è lì che le due meraviglie – una un po’ più gradevole a vedersi dell’altra, a dire il vero – si incontreranno, con grande stravolgimento del signor Hancock. Mi vuoi, mercante goffo e bruttarello? Dovrai consegnarmi una sirena tutta per me! E il signor Hancock non se lo farà ripetere due volte…
Trama a parte, questo romanzo d’esordio è un gioiello d’ambientazione. E se è vero che ci mette un po’ a ingranare – raggiungendo le sue pagine più fascinose quando la seconda nave farà ritorno a Londra col suo carico WINK WINK – rimane una riuscitissima celebrazione dell’insolito e un “polpettone” (nel senso migliore del termine) molto godibile. È una specie di kolossal storico e sentimentale, che fonde in maniera ricchissima reale e fantastico, ambizione e rovina, bellezza e sconforto, carne e nobiltà d’animo, strade putride e carta da parati, desideri grandiosi e conseguenze catastrofiche. Datemi un muro da foderare di conchiglie. O almeno un ventaglio.

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Sally Rooney, Persone normali

Di Sally Rooney tanto si è discusso e, sospetto, ancor più si discuterà. Nel mio piccolissimo, sono felice che una Sally Rooney sia spuntata nel panorama letterario mondiale. Ecco qua il post che avevo scritto per il suo secondo romanzo, Normal People.

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Il mio preferito dell’anno forse va raccontato nel suo complesso. Perché è una trilogia che funziona (anche) per accumulo e per stratificazioni. Transiti è il secondo capitolo. È stato preceduto da Resoconto e le operazioni si sono chiuse con Kudos – in italiano si chiamerà Onori e sta per uscire in Stile Libero per far compagnia agli altri due. Siamo abituati a confrontarci con protagonisti e personalità ipertrofiche, ma Rachel Cusk ha scelto di fare diversamente. La sua narratrice è una spugna, un fantasma, uno specchio, una trasmittente che capta e immagazzina. E per tre libri compone per noi un mosaico di incontri casuali ma decisivi, catalogando punti di svolta e spostamenti nello spazio e nella coscienza. Sono storie che seguono un arco che non somiglia al consueto tragitto di un eroe o di un’eroina da romanzo, sono archi narrativi che richiamano il modo in cui gli esseri umani “veri” si rendono conto che sta succedendo loro qualcosa di fondamentale. O che hanno perso un’opportunità. O che un pezzo di un passato sepolto sta tornando a interrogarli. O che un cambiamento necessita di essere digerito e capito. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così sfuggente e potente al tempo stesso. Di sentire i pensieri altrui con una nitidezza così spietata e illuminante. O di sentire così poco il bisogno di una struttura più “normale”, anzi.
Vinci tu, Rachel Cusk.
E ora voglio conoscerti meglio.
Perché l’ambizione di “leggere altro”, come ben sappiamo, non ci abbandonerà mai. 🙂

Orbene, dopo due anni in agenzia sono diventata allergica ai contenuti tematici e pure alle cose legate a una specifica occasione di calendario. Ma proprio un odio che provoca anche reazioni psicosomatiche, mica solo un lieve fastidio. Orticaria visibile. Mal di stomaco da rigetto. Poi, però, mi sono accorta che nella mia libreria ci sono numerose (e valentissime) opere narrative che potrebbero ben adattarsi a una giornata che celebra mostri, spaventi vari, inquietudini, terrori e oscurità. E ho deciso di fare un esperimento. Anche perché, in questo caso, non ho clienti che non vedono l’ora di farmi correggere un copy chiedendomi FRANCESCA VA BENE È GIÀ MOLTO EFFICACE MA POSSIAMO FARLO UN PO’ PIÙ CREEPY?
Ecco.
Per la mia tenebrosa gioia e anche un po’ per la vostra – spero -, ecco qua una lista di letture più o meno recenti da abbinare alle vostre zucche. Ma qua c’è qualcuno che ha mai effettivamente mutilato una zucca a scopi decorativi? Io no di certo, ma per leggere non è necessario.
Di alcuni libri ho probabilmente già parlato su Instagram o qui sul blog, ma ho comunque deciso di inserirli nell’elenco perché mi sembrava che non potessero mancare all’appello.
Se li conoscete già siate tolleranti.
Se li vedete per la prima volta, invece, tanto meglio. Sarà una scoperta in più.
Se amate qualcosa che non è nella mia lista, poi, consigliatemelo caldamente nei commenti. Anch’io ho bisogno di suggerimenti, credetemi.

Procediamo!

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Joshua Foer, Dylan Thuras, Ella Morton
Atlas Obscura
(Mondadori)

Traduzione di T. Albanese, G. Cecchini e della mia amica Francesca Mastruzzo

L’Atlas Obscura non è propriamente un libro che fa paura o che contiene cose particolarmente inquietanti. È, più che altro, un libro per esploratori dell’ignoto e delle piste meno battute. Un grande atlante illustrato, diviso per aree geografiche, delle mete “oscure” in quanto poco conosciute. Un catalogo di meraviglie geografiche lontane dalle rotte classiche e di posti che nascondono storie spesso imprevedibili. Insomma, una guida di viaggio per chi non ha paura di spingersi là dove pochi sono già stati prima.

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David Almond
Skellig
(Salani)

Traduzione di P. A. Livorati

Skellig, secondo me, è uno di quei romanzi che non andrebbero rinchiusi nella categoria dei “libri per ragazzi”. Ci sono libri che parlano a tutti e che affrontano temi giganteschi, indipendentemente dall’etichetta “lettura consigliata dai 9 anni in su”. Freghiamocene altamente, dunque. Il protagonista di questa storia è un bambino che sta facendo del suo meglio per superare con coraggio un momento difficile, che non riesce nemmeno a decifrare completamente. La vita della sua sorellina è appesa a un filo e l’atmosfera, in casa, non è delle più spensierate. Servirebbe un miracolo, forse, ma il destino manda a Michael qualcos’altro. Una creatura fatta di piume e ombre che appare all’improvviso nel garage di casa. Non si sa da dove viene, non si sa che cosa vuole. Ha solo bisogno d’aiuto e di un po’ di tempo per riprendersi. E Michael decide di soccorrerlo, vincendo una paura molto più vasta e terrificante di quella del buio.

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Michail Bulgakov
Cuore di cane & Uova fatali
(Feltrinelli)
A cura di S. Prina

Dunque, potevo anche parlare del Maestro e Margherita – che in questa lista farebbe un figurone -, ma in un’esplorazione delle opere di Bulgakov e della letteratura fantastica in generale credo sia saggio riesumare anche queste due novelle lunghe. O romanzi brevi. O quello che sono, insomma. Gli argomenti sono all’apparenza molto diversi, ma esplorano in entrambi i casi il tema della metamorfosi, dell’ambizione umana e dell’imprevedibilità intrinseca di quello che speriamo di controllare, anima compresa. Cuore di cane racconta un orrido esperimento scientifico: trasformare un cane randagio in un essere umano, grazie a una specie di trapianto di cervello. Nelle Uova fatali, invece, incontriamo uno scienziato che progetta un raggio in grado di accelerare esponenzialmente la crescita delle cellule. Le conseguenze, in entrambe le vicende, saranno particolarmente catastrofiche… e sviscerate con dovizia di particolari e con l’intento, assai poco celato, di smascherare la natura repressiva e miope dell’ordine sovietico.

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Susanna Clarke
Jonathan Strange & il Signor Norrell
(TEA)
Traduzione di P. Merla

Visto che ai due maghi avevo addirittura dedicato un post, credo sia opportuno sfoderarlo di nuovo.

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Gipi
La terra dei figli
(Coconino Press)

Gipi racconta e disegna la fine della civiltà. Non conosciamo le origini del cataclisma, ma quel che sappiamo è che quasi nulla è rimasto. La narrazione segue le peregrinazioni di due fratelli in una terra devastata, dove anche la parola si è contratta, adattandosi a un nuovo sistema in cui la sopravvivenza più brutale è alla base di ogni rapporto “umano”. I fratelli, dopo aver perso il padre, vagano alla ricerca di una madre che forse hanno solo immaginato e che abita in un diario che non hanno il permesso o le capacità di leggere.
Un fumetto rarefatto, crudo e potentissimo.

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Neil Gaiman
Il figlio del cimitero
(Mondadori)

Traduzione di G. Iacobaci

Neil Gaiman meriterebbe una lista a parte, visto che quasi tutto quello che ha deciso di inventare rientra perfettamente nello spirito dell’impresa. Considerate Il figlio del cimitero come un degno apripista, dunque, e proseguite con le esplorazioni se ancora non vi siete soffermati particolarmente sul mondo di Gaiman. La storia è gustosa: sfuggito all’omicidio dei suoi genitori, Bod gattona fino a un cimitero e viene adottato e cresciuto dalla comunità dei defunti. La Morte gli dona la capacità di comunicare coi trapassati, che lo proteggeranno e lo alleveranno come se fosse figlio loro. Il destino di Bod, però, è in agguato oltre i cancelli del camposanto… là fuori c’è la vita che un “vivo” dovrebbe inseguire, ma ci sono anche degli assassini con un lavoro da completare. E la vendetta, un po’ come la Morte, può essere inesorabile. Mistero! Scheletri! Tombe! Cadaveri!

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Emil Ferris
La mia cosa preferita sono i mostri
(Bao Publishing)
Traduzione di M. Foschini

Che libro stupefacente. Ne ho già parlato con grande trasporto su Instagram, ma ci tengo a sprigionare ammirazione anche qui. Emil Ferris è un’esordiente dalle vicende biografiche che rasentano l’assurdo. Dopo aver militato per lunghi anni nel mondo dell’illustrazione, rimanendo però sempre in una posizione un po’ defilata, ha deciso di presentarsi finalmente al grande pubblico con questa graphic-novel, un libro stratificato e complessissimo che, raccontando la quotidianità di una ragazzina di undici anni nelle periferie non proprio idilliache della Chicago del 1968, riesce a trasportarci nella Germania nazista e a frugare nei meandri più remoti dei nostri cuori. La grande metafora che la Ferris sceglie di utilizzare per accompagnarci in questo viaggio è quella del “mostro”, ma seguendo due filoni diversi. Ci sono i “mostri buoni”, che ci insegnano a difenderci e ci fanno compagnia quando sono gli altri a vedere in noi qualcosa che non capiscono. E ci sono i “mostri cattivi”, che soffocano la nostra voce e tramano per distruggere quello che di più umano possediamo. I disegni sono strabilianti – le penne a sfera possono fare magie, a quanto pare – e i riferimenti all’arte, al cinema e all’immaginario horror si sprecano. Attendo con trepidazione il secondo volume.

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Jonathan Hickman, Tomm Coker
Black Monday
(Mondadori)
Traduzione di L. Fusari

Esoterismo, sangue e alta finanza: che cosa c’è di meglio? Ecco qua l’approfondimento che avevo scritto per l’uscita del primo volume. Il secondo è disponibile già da un mesetto e l’ho ordinato ieri.

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Shirley Jackson
L’incubo di Hill House
(Adelphi)
Traduzione di M. Pareschi

Non ho la minima intenzione di vedere la serie di Netflix ispirata a questo romanzo. E non lo dico per snobismo. Lo dico perché quelle cose mi fanno una paura eccessiva e passerei i prossimi tre mesi ad accendere tutte le luci di casa anche solo per andare in bagno dopo le sette di sera. Il libro, per ammissione degli stessi produttori, è ben diverso dalla trasposizione televisiva. Ed è un racconto di follia, tormento psicologico, ricordi aggrovigliati e pavimenti che scricchiolano. Può un luogo portare alla pazzia? Certamente, se stiamo parlando di Hill House. Shirley Jackson – autrice con cui vi perseguito già da secoli con Abbiamo sempre vissuto nel castello, altra meraviglia degnissima di menzione in questo frangente – è abilissima nel manipolare la tensione e nel farci sentire continuamente minacciati, anche quando le cose sembrano assolutamente innocue. Ed è quello il vero prodigio del terrore più autentico: trasformare la paura in tarlo, la razionalità in sospetto, la solidità delle cose in dubbio strisciante. Sempre.

Per chi volesse approfondire il mondo dell’autrice o frugare nel suo stipetto dei ricordi, è da poco uscito anche Paranoia, una raccolta di pagine sparse, racconti brevi, riflessioni sul mestiere di scrivere e istantanee quotidiane.

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Richard Matheson
Io sono leggenda
(Fanucci)
Traduzione di S. Fefè

Dimenticate Will Smith, ve ne prego. Se c’è una cosa bella di questo libro è il finale. E il film riesce a sputarci su con una disinvoltura che rasenta l’inspiegabile, visto che è il finale a rendere speciale e sensata tutta questa narrazione. Non spoilero, giuro, ma è una roba che mi manda al manicomio.
Dunque. Robert Neville è l’ultimo essere umano rimasto sul nostro pianeta – per quel che ne sa. Gli altri, contagiati da una specie di virus, sono diventati vampiri. Il mondo che conosciamo non esiste più e Neville tira avanti come meglio può, cercando di studiare la mutazione che ha sconvolto l’ordine costituito e barricandosi nel suo rifugio di notte, quando i vampiri escono a dargli la caccia. Ma cosa succede quando l’aberrazione diventa normalità? Qual è la creatura che ha davvero il “diritto” di sopravvivere? Che cosa siamo tutti quanti, se non scherzi dell’evoluzione che hanno imparato a coesistere? Will Smith dei miei stivali.

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Michele Mari
Fantasmagonia
(Einaudi)

Anche Michele Mari sarebbe quasi da inserire in blocco qua dentro. Ma Fantasmagonia mi pare il libro più adatto. Perché è un compendio di tremori letterari e di immaginazioni sghembe, una collezione di creature da temere e luoghi da osservare con reverenza. E contiene anche la ricetta per creare un fantasma.
Per approfondire, ecco il post che avevo scritto qualche anno fa, all’uscita del Supercorallo.

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Gianluca Morozzi
Blackout
(TEA)

Non riesco a vedere le cose “horror” in tv, ma poi leggo serenamente Morozzi. Non so. C’è qualcosa di strano. È anche vero che Morozzi ha la capacità di carpire l’attenzione del lettore con un’efficacia rara, ma ci sono robe in questo libro che fanno venire da vomitare anche solo a pensarci e che non sopporterei mai e poi mai in un’ipotetica versione cinematografica – CHE SPERO VIVAMENTE NON VERRÀ MAI REALIZZATA PERDONAMI MOROZZI SO CHE I DIRITTI SULLA TV E SUI FILM SON SOLDI MA IO NON VOGLIO SAPERNE NIENTE PER CARITÀ. Comunque. La faccenda è relativamente semplice: quattro sconosciuti col loro personalissimo bagaglio di problemi, turbe e segreti si ritrovano intrappolati insieme in un ascensore angustissimo a Ferragosto. I telefoni non prendono, non c’è in giro un cane e le probabilità di ricevere soccorso appaiono assai remote. Che cosa succederà? Tutto il male possibile.

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Cees Nooteboom
Tumbas. Tombe di poeti e pensatori
(Iperborea)

Traduzione di F. Ferrari

Cees Nooteboom ha passato una trentina d’anni a viaggiare per il mondo alla ricerca delle tombe dei poeti, dei pensatori, dei filosofi e degli scrittori che più hanno segnato il suo percorso intellettuale. Tumbas raccoglie le sue fotografie e trasmette, per capitoli fulminei, l’eredità storica e artistica di chi occupa quelle sepolture. È un libro stranissimo, che sceglie di mantenere viva la memoria delle idee attraverso la lapide, uno dei manufatti più statici e definitivi che siamo riusciti a inventarci.

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Mervyn Peake
Tito di Gormenghast
(Adelphi)
Traduzione di A. Ravano

Giuro, non pensavo di aver già scritto così tante cose sulla frazione più temibile e fascinosa della mia biblioteca personale. Ecco qua un bel biglietto per Gormenghast!

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Anne Rice
Intervista col vampiro
(TEA)
Traduzione di M. Bignardi

Anne Rice, una colonna della mia adolescenza. Non so se ringraziarla o stramaledirla. La saga delle Cronache dei vampiri è vasta e assai articolata… dopo averne letti diversi, negli anni, mi viene anche da dire che fermarsi a Intervista col vampiro potrebbe non essere una cattiva idea. Quello che di sicuro Anne Rice è riuscita a fare, però, è creare una sorta di versione “moderna” del vampiro. Non è la sola ad aver rivisitato e arricchito il mito originario, ma ha lasciato un’impronta molto potente nel nostro immaginario, costruendo per i suoi personaggi una sfera emotiva (e sentimental-comportamentale) molto specifica e persistente. Mi viene da dire che è quasi colpa di Anne Rice se, anni dopo, ci siamo ritrovati con Edward che luccica e con una miriade di sottoprodotti e calchi di Lestat, Louis, Armand e Claudia. Ma chi se ne importa. Ognuno è libero di scegliere il vampiro che preferisce. E i miei prediletti, anche a distanza di ere geologiche, saranno sempre quelli di Intervista col vampiro, coi loro pizzi stazzonati e il loro vasto terrore di trascorrere un’eternità di vuoto assoluto.

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Bonus track: libri che ho sfogliato ma che non ho ancora letto

Vasti festeggiamenti per il bicentenario di Frankenstein: Utet ha pubblicato da poco una corposa biografia di Mary Shelley (La ragazza che scrisse Frankenstein di Fiona Sampson), mentre il Castoro ha dedicato alla scrittrice un romanzo illustrato di rara bellezza: Mary e il Mostro di Lita Judge.
Per chi poi volesse farsi una cultura solidissima del macabro – anche nelle sue sfumature storico-religiose più solide – o gustarsi fumetti spaventosamente spensierati il consiglio è di consultare il vasto catalogo di Logos Edizioni. Io ho intenzione di cominciare da un corroborante volume fotografico sugli ossari. E dall’edizione illustrata di Carmilla.

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Niente. Sono certissima di aver scordato cose fondamentali o di aver citato opere che ormai hanno già letto tutti, ma spero comunque di aver fornito qualche spunto avvincente. Se così non fosse, consoliamoci con secchi di cioccolato estorto ai vicini di casa. :3