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Dunque, partiamo da una domanda che potrebbe sorgere spontanea: ma se mi è piaciuta la saga di Blackwater mi piacerà anche Gli aghi d’oro (in libreria con la traduzione di Elena Cantoni)? E chi può dirlo. Si tratta sempre di Michael McDowell – in questo suo molto ben confezionato ripescaggio dall’oblio – ma non ci sono chissà quanti altri punti di contatto. Sì, anche qui ci troviamo alle prese con vicissitudini e turpitudini di famiglia, anche qui possiamo crogiolarci nella deliziosa scelta di publishing di Neri Pozza – che continua ad affidare la copertina all’esimio Pedro Oyarbide – e anche qui c’è un certo gusto per il macabro, ma l’ambientazione è lontanissima dal limaccioso Perdido e manca anche l’adesione ai filoni “gotici”, magici o “mostruosi”. Qui siamo più nel territorio del poliziesco o del penny dreadful e l’intreccio personale – così come il peso che ha la caratterizzazione dei personaggi – viaggia su un binario all’apparenza molto più improntato alla funzionalità.

Che succede? Siamo a New York nel 1882 e un abisso separa i rispettabilissimi benestanti dalla feccia tignosa dei bassifondi – zone in cui una casa, oggi, costa centordicimila paperdollari al metro quadro… ricordarlo mi pare sempre divertentissimo. Le due categorie umane sono qua rappresentate dalla stirpe dell’inflessibile giudice Stallworth – repubblicano di ferro e fan sfegatato delle impiccagioni – e dalla famiglia di Black Lena Shanks, ricettatrice astuta, potente e a suo modo assai rispettata. Lei e il giudice hanno dei trascorsi non proprio idilliaci e sarà un omicidio all’apparenza casuale – come tanti se ne verificano nei quartieri del vizio – a riportare a galla gli antichi rancori. Gli Stallworth mirano a migliorare la propria posizione ergendosi ad arbitri assoluti di virtù, scatenando una campagna pubblica contro il malaffare del Triangolo Nero. Black Lena, che non ama il clamore e vuole continuare serenamente ad occuparsi degli affaracci suoi, dovrà mettere il proprio acume al servizio della vendetta. Tra oppiomani catatonici, gioielli, bambini inquietanti, gole tagliate, bische, mignottoni, dame di carità, scrofolosi e materassi infestati dai pidocchi, l’ombra lunga del Triangolo Nero finirà per lambire i quartieri altolocati, smascherando l’ipocrisia e la grettezza dei più ferventi difensori della rettitudine.

McDowell riproduce gli stessi meccanismi di morbosa curiosità che la cronaca nera – resa nella sua crudezza e nella sua ricerca esasperata del sensazionalismo – scatena nel romanzo. È una forma di “commento” e di citazione sfiziosa, va detto. Tanto spazio è lasciato al sordido e a una vasta gamma di espedienti criminali, ma l’intreccio è ben lontano dal risultare miracoloso. La ricostruzione dell’ambiente è suggestiva ma calcatissima e si mangia i personaggi, che sono incarnazioni schematiche ed essenziali di un ventaglio di disvalori che superano le identità di classe. Il ribaltamento di prospettiva che se ne ricava è gustoso e, come da copione, si tifa per la vendetta… anche se ci si arriva con poco slancio. Black Lena e il suo clan di donne a loro modo estremamente talentuose ricordano la struttura matriarcale che ha plasmato le sorti dei Caskey e, pur trovando apprezzabilissima questa “abitudine” di McDowell di mettere in mano alle femmine il potere, qua mi è sembrato di veder transitare delle figurine che compensano lo scarso spessore con una stravaganza da freakshow.
Per sintetizzare: pensavo meglio? Pensavo meglio. Ci manchi, MaryLove. Eri più cattiva te.

Non pensavo fosse un buon momento per imbarcarmi in un mattone di mille e passa pagine. A dirla tutta, non lo penso praticamente mai. Credo mi capiti perché cerco di prevenire un eventuale fallimento, perché temo sempre di finire schiacciata da slanci avventurosi che non posso sperare di sostenere. I libroni mi attirano, però. Vediamo se riesci a tenermi lì con te, librone. Vediamo cosa sai fare. Vediamo se sarò degna di te, librone. Cominciare il 2024 con L’ottava vita di Nino Haratischwili – in libreria per Marsilio con la traduzione di Giovanna Agabio – si è dimostrato un azzardo riuscitissimo. Non tanto perché al romanzo serva ancora dimostrare qualcosa – l’accoglienza trionfale della critica è stata praticamente unanime già dalla prima pubblicazione, nel 2018 -, ma più per la crescente sfiducia nelle mie capacità di gestione di un’epopea monumentale, di un libro “importante”, ramificato, tumultuoso. Non credo si possa mai davvero scegliere da cosa lasciarsi catturare e non tutti gli atti di fede vengono sempre ripagati, ma quando l’impresa riesce è anche salubre mettere in piedi un piccolo festeggiamento. Bravo, librone. Eccoci qua.

Haratischwili ha trascorso l’infanzia in Georgia negli anni Novanta e abita in Germania dal 2003. Anche Niza, la sua narratrice e una delle “vite” del romanzo, è emigrata a Berlino e gestisce con estrema farraginosità la complessa eredità della sua parabola familiare all’interno dell’ancora più travagliata parabola “rossa” novecentesca. Haratischwili – che ha scelto di scrivere in tedesco, forse per garantirsi una sorta di cuscinetto protettivo – affida alla famiglia Jashi il compito di riprodurre su scala “umana” i molti stravolgimenti di un paese intero nel corso del Novecento. Visto che far piovere così tanta sfortuna su così poche teste potrebbe risultare un po’ bizzarro – nonostante l’inclemenza strutturale della storia in determinati angoli di mondo e il compiacimento del pubblico per la scalogna più nera -, Haratischwili porta in scena una sorta di profezia autoavverante: il capostipite degli Jashi è un pasticcere straordinario, unico inventore e depositario di una ricetta segreta per una cioccolata così buona da far spavento (letteralmente). Chi la assapora non avrà scampo… e di cioccolate se ne berranno parecchie, col procedere della narrazione.
Tutto comincia proprio da una florida bottega di dolci, nella Tblisi del 1917, per approdare a un recentissimo presente in cui la transfuga di un Est devastato tende la mano a una nipote ribelle, che balla sui resti di una storia di famiglia troppo intricata per essere ricomposta, troppo tragica per lasciar presagire futuri meno nefasti o disorientanti. Sarà Niza a rimettere insieme i pezzi per Brilka, a riconsegnarle il mosaico della sua discendenza, indissolubilmente legata alla storia di un paese dall’identità cangiante, fagocitato dall’orbita russa ma “produttore” certificato di ambiziosi progetti di rivalsa e di Grandi Mostri. Anzi, di Generalissimi – è così che Stalin viene identificato (o non nominato) nel libro – e di Piccoli Grandi Uomini – AKA Lavrentij Berija. Dalla deposizione degli zar alla battaglia di Stalingrado, dallo spauracchio del gulag alla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica, dalla Primavera di Praga al crollo del muro di Berlino, la famiglia Jashi procede sul filo del conflitto perenne e dell’incomunicabilità generazionale. È come se il disegno di una grande utopia fatta di pace, uguaglianza, collaborazione e abbondanza – così orrendamente disattesa dalla realtà – si riflettesse sulle utopie “private” di serenità, successo e amore della famiglia, disinnescandole o reclamando sacrifici impossibili. Haratischwili manovra con abilità sia la storia della sua terra d’origine (e della Russia, nelle sue tante emanazioni) che quella dei suoi personaggi, che diventano man mano sia strumenti utili a descrivere un movimento collettivo (o uno smarrimento generale di fronte alle enormità dei fatti) che creature indipendenti, “rotonde”, credibili nelle loro mancanze, nelle loro irrazionalità e nei loro vuoti. Tutti si misurano con un’ombra nascosta, con la perenne assenza di padri e con l’onnipresenza di padri della patria che tutto vedono e tutto possono prendersi. Gli Jashi sono – salvo un’unica eccezione, direi – dei disallineati, ma nessun colpo di testa verrà loro perdonato. E no, non si tratta soltanto della maledizione della cioccolata.

Come fila via la lettura? Molto bene. Chiaro, non tutte le sezioni – perché il libro è diviso in “vite”, di volta in volta dedicate a un personaggio che funge da snodo centrale – vi appassioneranno in egual misura o procederanno con il medesimo ritmo, ma c’è uno splendido equilibrio tra lo scopo di produrre un Grande Affresco e l’idea di raccontare cosa succede a della gente che si incontra, si innamora, va in malora, si illude, parte per la guerra, fa figli, si dimentica i figli, prende in casa figli non suoi, balla, sogna, immagina l’Ovest, cura il giardino, fuma sigarette, beve troppo, si dispera, combatte, si vendica, si nasconde, va a scuola, si vende pure i fazzoletti sporchi, casca, si tira su, ricasca, rimane per terra, vede i fantasmi, si inganna, si sbaglia, si intestardisce, scappa, torna. È un libro che mette insieme una lunga serie di eventi irrimediabili e si interroga su come ci si possa convivere. È il resoconto di un percorso accidentato, contraddittorio e violento, costellato da sprazzi di speranza e di legami che diventano ancore, anche quando si disgregano nell’illusione. Si sopravvive scegliendo di chi prendersi cura, forse. Anche quando non conviene, anche quando non ha senso ma ci si sente in dovere di esercitare almeno quel minuscolo margine di libertà. Non c’è clemenza nella Grande Storia di questo libro, ma mai uno Jashi vi darà l’impressione di volersi arrendere, di aver raggiunto la meta di una lunga ricerca. In bocca al lupo, Brilka. A voi, se vi capiterà di voler leggere L’ottava vita, non servono formule benauguranti. Fa già tutto Haratischwili, con l’Est che ha conosciuto e con l’Est che ha scelto di restituirci.

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.

Per tradurre bisogna essere allo stesso tempo umilissimi e superbi: si lavora con la consapevolezza della fallibilità – e forse anche della fondamentale impossibilità del compito – ma lo si fa come se l’esattezza incontrovertibile fosse una meta plausibile, realistica. Non è mai vero, ovviamente, e forse è per quello che le macchine traducono così male. Un’entità che funziona per esattezze non sa (e speriamo non impari mai davvero) come gestire il grigio. E la traduzione è una gigantesca campitura grigia. Va così perché le lingue non sono una fila di mattoncini immutabili e non sono fatte di parole fossilizzate: le lingue vivono nell’esperienza di chi le parla e di chi le scrive, sono cultura, mito, riferimenti condivisi, radice antica e germoglio imprevedibile. Il ramo che un secolo fa (o ancora prima) è spuntato per darci modo di descrivere qualcosa che prima non esisteva è oggi la matrice di mille altri significati. Si lavora brandendo contesti, mettendoci addosso una voce che non è la nostra, cercando di capire da dove si parte e dove è necessario arrivare: si fa un ponte e lo si percorre portandosi sulle spalle un agglomerato di parole che la traversata è destinata a trasformare.

Perché si traduce? Per rendere fruibile un testo a chi non conosce la lingua d’origine di quel testo.
Perché si traduce *davvero*? Perché le storie meritano di trovare chi ha voglia di leggerle e nessuna barriera ha mai giovato al sapere o alla scoperta.
La tradizione biblica individua nel crollo della torre di Babele l’inizio della discordia tra i popoli, che prima erano in grado di comprendersi senza intermediazioni e senza possibilità di fraintendimento. L’unità dell’umano era un’unità linguistica che annullava le distanze e rendeva possibile il progresso, perché capirsi è costruire insieme. E “Babel”, non a caso, è anche il nome del dipartimento di traduzione di Oxford al centro di questo romanzo di R.F. Kuang – tradotto da Giovanna Scocchera per Mondadori (Oscar Vault) con maestria e sprezzo del pericolo.

Cosa succede?
Kuang decide che i traduttori hanno in mano il mondo. Anzi, che la traduzione è la chiave per il dominio del mondo.
La premessa è la trasformazione di una manchevolezza strutturale – tradurre in maniera perfetta è impossibile – in una risorsa. Le lingue non combaciano mai in maniera totale e assoluta perché i termini possono obbedire a un ventaglio di sfumature, possono descrivere una specifica area culturale che non si riscontra simmetricamente in altri luoghi/tempi, possono riferirsi a tradizioni o trascorsi storici che per forza di cose non sono condivisi da chi appartiene a dimensioni differenti. Tutti quei termini che “non si possono tradurre” vivono in un limbo che, se correttamente esplorato dagli studiosi di Babel, può produrre effetti tangibili sulla realtà – e il monopolio sulle altre civiltà. Il tradimento che si annida in ogni traduzione è un bacino di combinazioni semantiche da incidere su tavolette d’argento – ricchezza vera delle nazioni in questa versione alternativa dell’Inghilterra del 1800 e rotti – che producono una specie di “magia” linguistica. Scegliendo le parole giuste e collocando le tavolette dove si ritiene possano funzionare, insomma, si tengono su ponti, si fanno andare le navi più veloci, si mantengono le carrozze in carreggiata, si riducono guasti ai macchinari, si uccide, si allestiscono impianti d’allarme… si fanno i soldi, sia per Babel che per l’Impero.

Santo cielo, non è già un’idea affascinantissima? Non sto qua a sciorinarvi esempi di applicazione delle tavolette perché è molto gustoso trovarli man mano che si legge e non voglio soffermarmi molto nemmeno sul quartetto di studenti che arrivano a Babel per cominciare i loro prestigiosi studi. Sono dei simboli, anche loro. Una è figlia dell’Impero mentre gli altri tre sono a vario titolo prodotti del dominio coloniale. “Vi salveremo e vi istruiremo – anche se siamo sempre noi ad aver asservito e spremuto la vostra madrepatria -, voi ci riserverete gratitudine e impiegherete a beneficio di Babel e dell’Impero tutto quello che vi insegneremo. Vi disprezziamo e la vostra gente non è civilizzata, ma siete indispensabili alla nostra macchina produttiva”. Perché Robin – che l’unico studioso di lingue asiatiche di Babel strappa dalle braccia della madre morente a Canton -, Ramy – indiano – e Victoire – haitiana – sono così importanti? Perché conoscono lingue non ancora battute da Babel. E una lingua che non è ancora stata setacciata in profondità è un bacino inestimabile di nuove combinazioni. Ma cosa succede quando tre bambini che crescono dovendo ringraziare i loro “benefattori” anche per l’aria che respirano si rendono conto di chi sono? Qual è il vero tradimento: tradurre “male” o rendersi complici di un sistema fondamentalmente predatorio, paternalistico, impari e oppressivo?

Se il tema della traduzione vi affascina, se siete ancora in attesa di una letterina da Hogwarts, se siete in cerca di un sistema magico davvero originale e se i temi legati al colonialismo, alla “legittimità” delle rivoluzioni e all’etica applicata ai sistemi economici e alle relazioni globali vi stanno a cuore, Kuang ha confezionato il romanzo per voi. È una storia stratificata, importante, ricchissima di spunti di discussione. Ci parla da un’epoca parallela, ma arriva al cuore di molte storture di oggi… e ci arriva perché per una manciata di valori fondamentali dell’esistenza non dovrebbero esserci zone grigie. Ci arriva perché la traduzione, quando è al nucleo dell’umano che si rivolge, è capace di ricostruire la Babele perduta.

Non so se si tratti di una stortura generazionale o probabilmente solo di una difficoltà molto privata e circoscritta ma, arrivata a un’età in cui non ho più motivo di scandalizzarmi se qualcuno mi si rivolge con signora, mi rendo conto di essermi trasformata in una lettrice disabituata alla poesia. Quando la poesia mi “trova” ne rimango affascinata e nutrita, ma si tratta quasi sempre di collisioni fortuite. Recupero con interesse vivissimo il lavoro poetico di autori e autrici che sono solita leggere in prosa o in un universo romanzesco, ma ho quasi sempre il timore di non essere abbastanza *sveglia* per squarciare il velo. Forse mi preoccupo ancora di dover essere interrogata alla seconda ora o di dover elencare a memoria tutte le figure retoriche che riesco a individuare in una strofa. Forse patisco un imprinting scolastico che ben poco ha fatto leva sulla meraviglia e sul potere della parola. O forse mi ritrovo a sgambettare in una bolla in cui ancora resiste il mito della poesia “difficile”, di quest’arte oscura e rarefatta che parla solo a spiriti eletti, alatissimi e immuni dai crucci del quotidiano.
Quante cretinate, possiamo dirlo?
Già. Il perché lo riassume alla perfezione il titolo della nuova collana che dal 21 marzo troveremo in allegato al Corriere della Sera: La poesia è di tutti. E lo scopo dell’impresa – a cui contribuisce anche  l’Università Cattolica – è aiutarci a rammentarlo senza indugi e ipotetici complessi. È un invito gentile che scaccia le sovrastrutture polverose che potremmo aver accumulato strada facendo e che, semplicemente, ci esorta a leggere e a ritrovarci capaci di quella connessione istintiva e consapevole tra pagina e pensiero.

Le voci che man mano incontreremo sono numerose, illustri ed emblematiche, oltre che felicemente discontinue dal punto di vista cronologico e geografico. Insomma, avremo la possibilità di ripassare i “fondamentali” della disciplina poetica di questi ultimi 150 anni, ma il contatto con il presente e i tanti ponti che ci collegano ai nostri ieri saranno presidiati e lasciati risuonare forte e chiaro. Kavafis e Auden si accomoderanno vicino a Ocean Vuong e Anna Achmatova, mentre la curatela resterà saldamente affidata a Daniele Piccini, che ha anche il grande merito d’aver firmato le introduzioni ai volumi – come sono? Accessibili, curiose, “veloci” ma ricche, accoglienti. E le copertine (BELLISSIME, posso dire?) sono state progettate e illustrate dallo studio XxY, che in ambito editoriale ci ha abituati bene e che qua non si smentisce.

Informazioni pratiche? Volentieri.
La poesia è di tutti debutta in edicola il 21/3 con Pablo Neruda. Ogni martedì vi aspetterà un nuovo volume in allegato al Corriere della Sera a 3,90€.

Per un trailer che ci illumini il futuro, ecco qua il piano dell’opera:

1 | Pablo Neruda | 21/03/2023
2 | Wisława Szymborska | 28/03/2023
3 | Costantino Kavafis | 04/04/2023
4 | Alda Merini | 11/04/2023
5 | Eugenio Montale |18/04/2023
6 | Charles Baudelaire | 25/04/2023
7 | Jericho Brown | 02/05/2023
8 | Dino Campana | 09/05/2023
9 | Emily Dickinson | 16/05/2023
10 | Ocean Vuong | 23/05/2023
11 | Federico García Lorca | 30/05/2023
12 | Wystan Hugh Auden | 06/06/2023
13 | Pedro Salinas | 13/06/2023
14 | Anna Andreevna Achmatova | 20/06/2023
15 | Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud | 27/06/2023
16 | Fernando Pessoa | 04/07/2023
17 | Umberto Saba | 11/07/2023
18 | Boris Pasternak | 18/07/2023
19 | Vittorio Sereni | 25/07/2023
20 | Novalis | 01/08/2023
21 | Ghiannis Ritsos | 08/08/2023
22 | Rainer Maria Rilke | 15/08/2023
23 | Giorgio Caproni | 22/08/2023
24 | Shelley, Keats, Byron | 29/08/2023
25 | Mario Luzi | 05/09/2023

Serve un sito? Recatevi qua.
E felice costruzione di una bibliotechina poetica a noi, in santa pace e con i migliori slanci del nostro cuore. È sempre stato il momento giusto, ma forse ci preoccupavamo troppo per accorgercene. La poesia è di tutti… come dovrebbe esserlo la libertà – di leggere, di immaginare, di esplorare e di spostare il nostro orizzonte un po’ più in là, quando ne sentiamo il bisogno.

Come si dormiva nel Medioevo? Nudi? Vestiti? Da soli? Con tutta la famiglia (ed eventuali viandanti)? E se ti ammalavi e finivi all’ospedale? Quanto si puzzava e come la si risolveva? Come si fronteggiava il gelo? Chi fabbricava i letti? Qual era il destino di una puerpera? Con che grado di libertà ci si poteva avvicinare alle stanze di una dama? Dove si riposava la servitù? Boccaccio ci ha raccontato – tutto sommato – delle grandi verità? Come si intreccia un pagliericcio?

Guidandoci tra cortine, cuscini e cassoni, Chiara Frugoni – nostro malgrado da poco scomparsa – ci invita a coricarci in una stanza da letto del Medioevo, unico posto in un’abitazione di quell’epoca che potrebbe essere considerato “comodo” per gli standard moderni.
Facendo il consueto e sapiente uso di fonti iconografico-letterarie, dalle miniature ai garbugli amorosi del Decameron, Frugoni ricostruisce la storia sociale, materiale e culturale di un arredo domestico che, nell’espletare la sua funzione all’apparenza essenziale e semplice, spalanca in realtà vaste implicazioni romantiche, organizzative e addirittura morali. A letto nel Medioevo– in libreria per Il Mulino, come molti altri splendidi saggi storici di Frugoni – è un piccolo gioiello, degno di una studiosa che ha saputo come pochi altri conciliare curiosità, rigore, bellezza e gusto divulgativo.

Siamo in una cittadina irlandese nei giorni che precedono il Natale del 1985. Fa freddo e alle stufe del circondario pensa Bill Furlong, alacre commerciante di legna da ardere e carbone. Ha una moglie e cinque figlie. È una brava persona.
A casa sua regna un’atmosfera di indaffarato ma caloroso disordine e i dipendenti della sua ditta non hanno nulla di cui lamentarsi – la paga è puntuale e i conti sono in ordine, anche se il camion delle consegne perde qualche colpo e tutti hanno imparato a convivere con la fuliggine che li ricopre in pianta stabile. A domenica si va a messa col vestito buono e le notizie della città – chi nasce, chi muore, chi s’ammala, chi dovrebbe frequentare un po’ meno il pub e chi sta passando un guaio – circolano in un costante chiacchiericcio che non azzoppa eccessivamente le regole del buon vicinato.

Furlong è cresciuto nella proprietà più ricca della città, dove sua madre prestava servizio. Non sa chi sia suo padre, ma sa che la signora Wilson non ha mai pensato di sbatterli fuori. Pur non mancando di tenerli “al loro posto”, ha provveduto a loro e ha sostenuto l’educazione e i primi passi di Furlong in un mondo che non è abitualmente clemente con chi ha scarse credenziali dinastiche o dubbie origini. La gente mormora e mormorerà sempre, è vero, ma di Furlong non si può che mormorare bene.

Piccole cose da nulla di Claire Keegan – tradotto da Monica Pareschi per Einaudi Stile Libero – è una cronaca lieve ma densissima degli ultimi giri di consegne di Furlong in vista delle feste. Le porte a cui bussa sono tante – anche quelle impenetrabili del convento della cittadina – e i ricordi che affiorano, avvolgendo il presente in una malinconia indaffarata, sono quelli di un uomo che tenta con grande cocciutaggine di continuare a meritarsi le fortune che gli pare d’aver costruito.

Siamo abituati a considerare l’ambizione come uno slancio titanico verso traguardi rivoluzionari, conquiste che riusciranno a elevare la nostra posizione in una immaginaria catena alimentare. Furlong è un uomo pratico, vuol cambiare gli infissi di casa perché sua moglie soffre gli spifferi e vuole sentirsi “presente” quando è circondato dalle persone che ama, anche se non è abituato a godere di un tempo improduttivo e d’istinto rincorre continuamente quel che va fatto per continuare a tenere su la baracca. Quand’è che ci si sente davvero autorizzati a meritarsi quel che si ha? Furlong sente di non potersi fermare, soprattutto quando un destino che pare rimasticargli un “e se fosse toccato a noi?” del passato lo mette di fronte a dilemma.

Keegan riesce a raccontare un tempo recentissimo – e anche un orrore istituzionalizzato, come scoprirete – con il passo di un piccolo classico. Sembra una storia fuori dal tempo, ma è un’indagine calorosa e profonda sulla giustizia, sulla dignità e sui nostri grandi dilemmi: chi vogliamo essere, soprattutto quando nessuno ci guarda? Perché siamo spesso convinti che a far meglio ci penserà sempre qualcun altro? Dove ci collochiamo, agendo nel quotidiano, tra quello che ci conviene – perché rispettando lo status quo ci preserviamo – o quello che sarebbe più giusto fare? Perché accogliamo in maniera così arbitraria e respingiamo le difficoltà altrui come se potessero contaminarci o incrinare la nostra “posizione”?
Insomma, in un universo non sempre clemente o misericordioso – nonostante le genuflessioni in chiesa -, Bill Furlong porta il fuoco… anzi, porta quel che serve per accenderlo e scaldarci. E fa una fatica immane, perché il carbone pesa, sporca e non basta mai, ma lui ci prova – e arriva puntuale quando comincia a far freddo davvero.

Veleggiando splendidamente verso gli 80, Bianca Pitzorno decide di raccontarsi nel modo forse più azzeccato per una scrittrice dall’eredità così vasta, varia e avventurosa: che lettrice sono stata? Che posto hanno occupato nella mia vita i tantissimi libri che prima o dopo mi hanno accompagnata? Cos’hanno lasciato a me e cosa spero la lettura possa lasciare agli altri?
Alla vicenda personale di una bambina precoce, felicemente disordinata, curiosa e aperta a un sano conflitto si mescolano, in Donna con libro, ricordi, imprevedibili lessici famigliari e pure un bel pezzo di storia d’Italia – prima insulare e poi “continentale”.

Da Salgari a Mann, passando per la sconfinata BUR e le tante collane “inventate” decennio dopo decennio per ospitare storie e pensieri, Pitzorno ci accompagna alla scoperta di una biblioteca interiore che funziona come fucina inesauribile di identità e prospettive sul mondo, come polmone di formazione continua.
Non c’è la minima boria, in questo libro. Non c’è traccia di quella seriosità parruccona e arrogante di chi pare leggere più per farti pesare una posizione di presunta superiorità che per autentico trasporto e gioia privata. A Bianca Pitzorno frega pochissimo di leggere con quell’ansia strumentale di “posizionamento”. Legge – e ci spiega com’è leggere per lei – perché non può farne a meno, perché la fa felice e perché le piacerebbe trasmetterci il medesimo sentimento di soddisfatto abbandono e inesauribile stimolo alla scoperta.

Insomma, in un universo di tacchini da combattimento, siate il più possibile delle Bianche Pitzorno. Perché no, non è un caso che chi è capace di leggere e di parlare di libri con questo serafico affetto istintivo abbia anche scritto così tante storie che hanno contribuito in maniera decisiva a farci diventare lettrici e lettori.

*

Un’altra signora ragguardevole che di recente ha deciso di auto-ritrarsi attraverso i libri – quelli che di “peggio” le hanno fatto nella vita, nel caso specifico? Daria Bignardi. Ecco qua Libri che mi hanno rovinato la vita (e altri amori malinconici).

Cora Seaborne entra a far parte a pieno titolo della schiera di signore rispettabili che iniziano a campare meglio all’indomani della dipartita dei loro coniugi. Lo sforzo vero, per la protagonista del Serpente dell’Essex così come per le vedove sue colleghe di fine Ottocento, consiste nel continuare proiettare per un tempo ritenuto decoroso quel dolore e quella contrizione che il lutto richiede, industriandosi però clandestinamente per trovare un nuovo scopo e un modo per impiegare al meglio la libertà fortuitamente conquistata.
Per Cora – che ha perso l’uomo rivelatosi crudelissimo che ha sposato sull’onda di una fisiologica inconsapevolezza giovanile -, questa libertà consiste nel recupero di una sua personalità più antica, “selvatica” e rozza, almeno per gli standard londinesi.
Per ritrovarsi, cambiare finalmente aria e ricominciare, Cora inizia col trasferirsi con figlio e bambinaia-confidente a Colchester, nell’Essex, con l’unica ambizione di rivoltare pietre in cerca di reperti preistorici e di infangarsi il più possibile gli scarponi.

Il punto di riferimento di Cora è Mary Anning, pioniera della paleontologia del Regno Unito (e del mondo intero) e scopritrice di fossili che hanno fatto la storia. Anning, armata di cestino, martello e scopettini, setacciò la costa di Lyme Regis – poi ribattezzata Jurassic Coast – rinvenendo scheletri di ittiosauri, plesiosauri e rettili marini.
In un’epoca in cui le scienze naturali potevano godere di diffusione accademica ma anche dell’apporto di un nutrito movimento “dilettantistico”, Anning rimase una sorta di felice eccezione in un panorama irrimediabilmente dominatissimo da studiosi maschi, ma di certo rappresentò un esempio di caparbia intraprendenza, reale autorevolezza e disinteresse per le convenzioni. Il valore del suo lavoro e delle sue scoperte furono riconosciuti – un traguardo non scontato, data l’agguerrita competizione – e i suoi reperti più significativi sono ancora esposti al British Museum.

Già, credo che il canetto di Mary Anning stia cercando di fare la cacca. Su un fossile di plesiosauro, probabilmente.

Ma rimettiamoci in carreggiata.
Che succede a Colchester e nel contiguo bacino del Blackwater? Si direbbe poco, perché son posti pittoreschi e ameni ma di certo molto diversi dal frenetico ribollire della grande città. Cora, però, riceve una provvidenziale soffiata: annegamenti sospetti, villici che perdono il senno e pecore disperse si moltiplicano… che sia tornata la bestia leggendaria che infesta il fiume? Cora decide di vestire i panni della studiosa razionale e di cominciare a indagare con oggettività sul fenomeno. Psicosi collettiva, antiche superstizioni riemerse in un momento di scalogna o autentica opportunità per rivenire un fossile vivente?
Pur con intenti diversi – placare una congregazione sempre più inquieta e riportare la serenità nel villaggio – anche il reverendo Ransome sta cercando di far luce sul caso del presunto mostro del fiume. La sua traiettoria e quella di Cora sono destinate a incrociarsi e a generare ripercussioni insospettabilmente vaste, tra status quo turbati e massimi sistemi che precipitano, condensandosi, nel rapporto tra due persone che sperano di scovare un litorale clemente su cui approdare.

Se amate i romanzi storici – con tanto di scambi epistolari -, il moto inesorabile delle maree e le narrazioni che nelle tribolazioni minute provano a mettere in scena i grandi dilemmi – dal conflitto tra fede e ragione a quello tra classi sociali, dalla rettitudine del buon padre di famiglia agli albori delle rivendicazioni di indipendenza delle donne, dalla superstizione al senso di colpa, dalla purezza dell’anima che lotta per non farsi “contaminare” dalle pulsioni del corpo -, Il serpente dell’Essex è un bel posto dove sguazzare: scrittura ricca (e ben tradotta da Chiara Brovelli per Neri Pozza), ricostruzione accurata e colpi di scena gestiti con elegante aplomb, per quanto i drammi e le inquietudini non manchino. Che siate più inclini a soccombere a mistiche atmosfere minacciose o a tifare per “poligoni” affettivi variamente ingarbugliati, è di certo un bel congegno romanzesco. Ma ci sarà davvero, questo serpente? Tutto dipende dalla rete che vi andrà di gettare in acqua…


Segnalazioni televisivo-cinematografiche

Dal romanzo di Sarah Perry è stata recentissimamente tratta una serie TV con Tom Hiddleston – SCARSA FANDOM QUI – e Claire Danes.
Ho scoperto che esiste anche un film su Mary Anning. Si chiama Ammonite e Kate Winslet interpreta la nostra indefessa paleontologa.
Ho già visto qualcosa? Figuriamoci, ma segnalo comunque volentieri. E allungo la mia lista delle cose da recuperare.

 

Quante delle usanze che diamo per assodatissime sono in realtà costrutti sociali o “riti” relativamente recenti? Non so stilare un elenco completo, ma fra queste lente sedimentazioni storiche c’è senz’altro la misurazione del tempo che trascorre secondo scansioni convenzionali/condivise e l’abitudine di festeggiare il compleanno, considerandolo sia come una ricorrenza o un giorno “speciale” che come rigoroso traguardo periodico che ci consente di dichiarare con precisione la nostra età anagrafica.
Perché per secoli non si è sentito tutto questo gran bisogno di sapere con esattezza quanti anni avevano le persone?
In un più vasto ordine delle cose, era ritenuto più importante a livello simbolico il momento della nascita, quello della morte o il battesimo?
Qual era il rapporto tra tempo “collettivo” e tempo individuale?

L’invenzione del compleanno di Jean-Claude Schmitt – un saggio snello e curioso, supportato da un ricco apparato iconografico che un po’ ci assiste nel controbilanciare un’esposizione non proprio spumeggiantissima – ripercorre le tappe che ci hanno gradualmente condotti a spegnere le candeline su torte di varia foggia mentre intoniamo (ragliando allegramente) canzoncine assortite.

Dalle feste pagane alla “censura” introdotta nel Medioevo dal cristianesimo – che considerava il giorno in cui moriamo il vero inizio della vita, perché è della dimensione ultraterrena dell’anima che è più opportuno occuparsi -, Schmitt scartabella illustri diari, minuziose cronache di corte e calendari pieni zeppi di santi per tracciare la rotta evolutiva del compleanno “moderno”, svelandoci – fra le altre cose – l’insospettabile legame tra Goethe e la torta con le candeline.