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Ci siamo, il Natale sta per assalirci.
Cosa donare ai consanguinei?
Cosa regalare a chi ha saputo conquistare il nostro affetto?
Un libro va sempre bene? Giammai! Funziona se lo si sceglie con cura e se risponde con allegra puntualità a un interesse o a una passione – e magari anche a una più che legittima inclinazione estetica. Insomma, questo fanno le strenne: sono libri belli o edizioni pazze e preziose, sono libri ben delimitati dal punto di vista tematico, sono libri estrosi che si lasciano associare volentieri alle fissazioni e alle curiosità dei destinatari. La premessa metodologica di queste liste festive è sempre la stessa, ma trovo sensato ripeterlo anche per il 2025.
In caso di ulteriori necessità esplorative, al fondo trovate i rimandi anche alle edizioni passate di queste carrellatone.  
Ultima nota e poi si parte: liberissimi e liberissime di segnarvi su un pezzo di carta le proposte che troverete qua dentro per andarvele a comprare in libreria, senza necessariamente avvalervi dei link (sì, sono affiliati).
A posto? A posto.
Sproniamo le renne, si parte!


Margaret Atwood
Le nostre vite. Una specie di autobiografia
(Ponte alle Grazie)

Traduzione di

Che ci si meravigli (e spaventi) con le sue ancelle o che ci si addentri nella testa delle temibili Zie di Gilead o che la scintilla per Atwood si sia messa a crepitare partendo da un altro tra i suoi innumerevoli romanzi, Le nostre vite è l’avventura definitiva e rallegrerà di certo chi già coltiva una sana fandom per l’autrice canadese, che qui si racconta con franchezza, godibilissima perfidia e grande generosità.

P. S. Se vi va di donare Il racconto dell’ancellaI testamenti, ecco qua uno splendido cofanetto.


Renaud Roche & Laurent Hopman
Le guerre di Lucas. Episodio II
(BAO Publishing)

Potremmo litigare per ore sulla parabola filmica dell’universo di Star Wars – quale trilogia “nuova” ha maggiormente suscitato il vostro sdegno? Come è stato possibile concepire quella cazzata dei midichlorian? Vogliamo parlare di Jar Jar Binks? Come diamine hanno resuscitato l’imperatore Palpatine?  – ma l’impatto di George Lucas sui nostri immaginari e sulla storia del cinema resterebbe saldo e indubitabile. Roche e Hopman hanno iniziato a raccontare il making-of di A New Hope nel primo volume delle Guerre di Lucas e proseguono qui il viaggio. Auspico per questa serie un’estensione su nove tomi, ma vediamo come si mette. Se la forza scorre potente in casa vostra, ficcateli entrambi sotto l’albero.

P. S. L’ultimo set Lego di Star Wars che ho costruito potrebbe essere un buon elemento d’accompagnamento.


Sofia Fabiani
Il dolce. Basi e ricette di pasticceria
(Gribaudo)

Per la rubrica “i social hanno fatto anche cose buone”, eccoci qua a impiastricciarci di pastafrolla con @cucinarestanca. È di certo una proposta editoriale più “tecnica” rispetto ai suoi libri precedenti – Cucinava sempreCucinare stanca. Manuale pratico per incapacy – e che conferma la sua ferrea competenza e la rara capacità di renderla accessibile. Insomma, funzionerà benone per chi vuole partire dai fondamentali della pasticceria e lanciarsi in esperimenti estrosi dopo aver imparato almeno a camminare. E un cuore a Sofia.

Altri spunti legati alle cibarie?
Per chi vuole fare il pane c’è questo bel manuale a fumetti di Ken Forkish e Sarah Becan (Quinto Quarto). Robin Ha vi insegna – sempre a fumetti – a cucinare koreano. Volete semplicemente ammirare dei meloni e delle angurie stupende? C’è un’enciclopedia a tema che ha tutte le fattezze di un coffee-table smorfioso. A tal proposito, vi rammento che è sempre possibile scoprire ricette strabilianti e contemporaneamente fare del bene ai civili palestinesi con l’ebook di Cocomero & Friends.


Coco Wyo
Posticini carini – Colora la tenerezza
(Magazzini Salani)

Per Coco Wyo è partito un sommovimento internazionale di fulgido amore – che ha inevitabilmente generato anche una valanga di copycat orrendi generati dall’IA. Senza lasciarci ingannare, dunque, che fa il collettivo Coco Wyo? Ha rivitalizzato l’ormai saturo mercato dei coloring book proponendo innanzitutto degli angoletti confortevoli e degli ambienti armoniosi – per quanto zeppi di roba – in cui sarebbe bello poter sostare. Oltre a Posticini carini, troverete anche Soffici cuccioliCoccole a Natale. Forse mi starò rincoglionendo, ma sono assolutamente rapita. SOFFICI CUCCIOLI CAPITE?!


Marion Montaigne
I nostri mondi perduti
(BAO Publishing)

Che Zerocalcare ficcasse prima o poi una graphic novel piena di dinosauri nella collana Cherry Bomb – che sta curando per BAO – era un po’ il segreto sogno di tutti quanti. Ebbene, ci siamo. I nostri mondi perduti è una vastissima ricognizione paleontologica che mescola storia della scienza e cultura pop, divulgazione e cruente dispute evoluzionistiche. Ottima idea, Zerocalcare.

Altri dinosauri? C’è Andrea Cau – esimio paleontologo – con Il dilemma dei dinosauri, un saggio a tratti dolorosissimo che spiega per filo e per segno da dove vengono le bestie a sangue caldo di Jurassic Park e perché non dovremmo prenderle per buone. Lo so, è un duro colpo… ma è anche un efficace spaccato di storia recente della paleontologia. Volete saperne di più? Qua ci siamo noi che facciamo una chiacchiera.

Preferite continuare a crogiolarvi nel vostro affetto per Spielberg? Ecco una latta di schiuma da barba da usare come borraccia – sì, è quella che Dennis Nedry voleva riempire di embrioni di dinosauro. Capolavoro.
Ma abbiamo anche un libro sul making-of di Jurassic Park A FORMA DI VHS.

Potrei andare avanti delle ore, ma preferisco concludere il capitolo dinosauri con questa lista tematica che contiene sia proposte per grandi che per piccoli.


Dante
Divina Commedia | Inferno
(Blackie edizioni)

Blackie continua ad alimentare la sua collana/progetto dei Classici Liberati e, dopo IliadeOdisseaGenesi, ci manda allegramente all’Inferno con Dante e tutti i suoi illustri peccatori. L’idea, come sempre, è quella di accompagnare a un’opera fondamentale una serie di apparati che possano attenuarne gli aspetti potenzialmente ostici e “farci mondo” attorno.

Volete recuperare un’iconografia così solida da essere quasi diventata “canonica” per la Commedia? L’Ippocampo ne ha ficcata parecchia in Fantastico Gustave Doré, librone-retrospettiva della sua produzione più visionaria.


Mary Shelley feat. Minalima
Frankenstein
(L’Ippocampo)

Vista l’ondata d’entusiasmo collettivo per i “mostri” classici, segnalo il ritorno dei Minalima alla loro collana di preziosi illustrati pieni zeppi di trovate cartotecniche. Da quel che m’è parso di capire dalla quarta, il testo di quest’edizione dovrebbe essere quello del 1818. Parte dall'”originale” del 1818 anche il Frankenstein illustrato da Marco Calvi e tradotto da Tiffany Vecchietti uscito per ReBelle Edizioni – che vi segnalo con ancora più entusiasmo.

Servono approfondimenti sulla genesi dell’opera? Kathryn Harkup ha ricostruito la parabola biografica di Mary Shelley in La nascita di Frankenstein (Utet), mettendo particolarmente in risalto il precipitato delle conoscenze scientifiche dell’epoca nel romanzo.

Per la falange del cinema, invece, Guillermo del Toro ha raccolto in un libro la storia produttiva del “suo” Frankenstein. Come i migliori art-book cinematografici, è un oggetto di rara beltà… anche se chi ha amato con passione il recente adattamento forse s’accontenta anche di una semplice foglia secca.

Altri spunti per donare dei classici in edizioni illustrate di grande formato? Dall’Ippocampo trovate la collana Papillon Noir che fa proprio quello. Per ora ci sono Cime tempestoseIl grande GatsbyIl ritratto di Dorian Gray
Volete stare sul perturbante? Bur ha sfornato Weird, una nuova collana dalla veste grafica molto gagliarda. Al momento ci trovate Ann Radcliffe con I misteri di UdolphoFosca di Tarchetti, Il re in giallo di Robert W. Chambers e Alle porte dell’incubo di Poe.


Jonathan Wilson
La piramide rovesciata – La Bibbia della tattica nel calcio
(Limina)

Chi apprezza il GIUOCO del pallone non potrà che accogliere con gioia questo autorevole saggio che è sia una “storia del calcio” che una ricognizione tattica e un atlante cultural-sportivo. Ci troverete dentro filosofie, grandi allenatori, campioni, colpi di genio e, forse, anche lo scheletro della squadra perfetta.

Se in casa (come la sottoscritta) avete una persona abbonata alla Riserva, segnalo anche Il mito dei bomber di provincia del prode Emanuele Atturo (Einaudi).


Adriano Panatta & Paolo Bertolucci
La telefonata – Gli Slam del 2025
(Fandango)

Intanto che ci occupiamo di sport, mi pare sensatissimo pensare al tennis e a chi il tennis lo ama – o ha imparato ad apprezzarlo di recente. Fa niente se noi c’eravamo già, bisogna accogliere volentieri anche i tifosi e le tifose dell’ultima ora. Panatta e Bertolucci a tennis ci hanno giocato con gloriosi risultati e ormai da un pezzo si dedicano al commento del loro sport, ritagliandosi anche un podcast divertentissimo in cui un po’ parlano dei tornei più importanti del circuito e un po’ si prendono per il culo. Ecco, in questo libro ci sono gli Slam del 2025, più o meno come li abbiamo ascoltati.

Ma qualcosa su specifici campioni? Limina vi soccorre, per il momento, con NovakAlcaraz, entrambi di Mark Hodgkinson.

Il tennis come esperienza estetica? Emanuele D’Angelo di Broken Rackets ha sfornato Paradise Courts, un volume fotografico avvenente e smorfiosissimo che censisce i campi da tennis più belli del mondo.


Masato Tanaka & Shuzen Iwata
La storia universale in infografica
(Vallardi)

Traduzione di Nicola Emanuele Jacchia

Mia personalissima fissazione, gli atlanti e/o i libri divulgativi con i grafici, le mappette e le illustrazioni MAI MANCHERANNO IN QUESTI LISTONI. Qui, con l’ausilio di inesauribili trovate visive e coccosi personaggetti tondeggianti, si parte dalla preistoria per approdare alla storia novecentesca e ai più recenti disastri, sintetizzando l’impossibile e producendo una piacevole infarinatura che incoraggia approfondimenti ulteriori.

Se vi garba il genere o sapete a chi potrebbe garbare, vi segnalo anche Le operazioni della Seconda Guerra Mondiale in 100 mappe della premiata ditta Lopez-Aubin-Bihan per l’Ippocampo.
Illustrazioni vispe per spiegarsi meglio? Ci sono anche nel saggio di Alessandro Maccarrone per Blackie, L’infinito piacere della matematica. Là fuori, evidentemente, c’è qualcuno che la capisce e sa addirittura renderla comprensibile.


Ximo Abadìa
Verticale – Storia illustrata dell’arrampicata
(Quinto Quarto)

Amiche e amici in fissa con l’arrampicata? Congiunti, sodali d’escursione, gente che ama scarpinare in salita – e non solo perché al rifugio c’è la polenta da mangiare? Perfetto, abbiamo un illustrato pronto a raccontarci la perigliosa e affascinante storia dell’esplorazione montana, dai primi geloni alle più recenti competizioni canonizzate.

Un libro potenzialmente affine? Visionario ribelle, la storia di Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia.
Un libro che si tuffa in un ambiente tradizionalmente percepito come opposto alla montagna? Ecco qua Mare di Piotr Karski – sempre edito da Quinto Quarto. È uno di quegli albi ibridi che possono essere apprezzati da bambini, grandi, medi, tutti quanti. Oltre a raccontare mari e oceani con imprevedibile creatività, contiene anche numerosissime attività buffe da svolgere.


Marracash
Qualcosa in cui credere – La mia trilogia
(Rizzoli Lizard)

Niente, al Marrageddon è poi finita che non ci sono andata perché quando avevamo comprato i biglietti non avevamo valutato che in casa ci sarebbe stato un bambino di un paio di mesi da accudire e a sentire Marra ci sono andati mio marito e il mio giovane cognato. Io no, a casa col Dadani. Al di là delle mie vicissitudini personali, i musicisti tendono a far uscire dei libri che sono più assimilabili a gadget fotografici che a qualcosa che si può leggere davvero, ma questo malloppo di Marracash è un oggetto che credo gli faccia onore e che aggiunge tassellini degni d’interesse a Persona, a Noi, loro, gli altri e a È finita la pace. Se ascoltate Marra o cercate qualcosa per chi lo apprezza e ha apprezzato la sua recente trilogia musicale, Qualcosa in cui credere è uno spunto validissimo.

Per chi invece era con me a sudare a San Siro con delle bottigliette rigorosamente senza tappo (e senza ghiaccio) di vodka lemon in mano, ricordo sempre che esiste un’autobiografia di Gabry Ponte. SI VOLA. 😀
Intanto che ci siamo: lo sapevate che anche Max Pezzali ha raccontato la sua storia in un libro? Si chiama I cowboy non mollano mai


Flavio Parisi
Tokyo è una grande cucina – I giapponesi si conoscono a tavola
(Utet)

Di Flavio Parisi s’era già parlato da queste parti per il suo primo lavoro Giappone-centrico – Cadere sette volte, rialzarsi otto era una riflessione sull’apprendimento di una lingua ostica mentre si vive in un posto affascinante e anche profondamente “alieno”. In questo nuovo libro si torna a Tokyo per raccontare il paese e i suoi abitanti attraverso la cucina, le abitudini a tavola e la convivialità. Il cibo è un potente veicolo culturale e mangiare in Giappone è senza ombra di dubbio un’esperienza mistica.

Ci sono splendidi viaggi in cantiere? Eriko Kawasaki aka Erikottero può soccorrervi con Easy Japan (Longanesi), un manuale linguistico dalla spiccata vocazione pratica che saprà anche darvi una mano nel decifrare comportamenti e forme di cortesia. Non sono usciti ieri, è vero, ma sia I love Tokyo che I love Japan della Pina restano delle piacevolissime guide.

Vi risparmio le librerie con l’inevitabile gatto saggio, le botteghe di quartiere dove tornare ad apprezzare il senso della vita, i baretti e i negoziucci che garantiscono rinascite personali ma credo sia il caso di salutare con favore il ritorno di Antonietta Pastore – pioniera della traduzione letteraria dal giapponese all’italiano – al tema della vita in Giappone. Seguito ideale di Leggero il passo sui tatamiDove vuole andare, sensei? (Einaudi) è un nuovo reportage sentimental-pratico che abbraccia una lunghissima frequentazione diretta – cominciata nel 1974 e mai interrotta.
Un altro graditissimo ritorno? C’è Laura Imai Messina con Le parole della pioggia, illustrato da Emiliano Ponzi.

E i manga? Da vecchia ciabatta quale sono, non posso non menzionare l’edizione completa per i 30 anni di I cortili del cuore di Ai Yazawa.


Roberto Alajmo – Marco Carapezza
Avventure postume di personaggi illustri
(Sellerio)

Per la quota cimiteriale – che mai deve mancare -, un saggio snello e favolosamente folle sulle vicissitudini di dieci salme ragguardevoli. Gente che da viva ha fatto la storia e che, da morta, si sarebbe forse meritata un destino meno rocambolesco.

Approfitto dell’atmosfera vagamente sinistra di questo blocco per rammentare che è uscito un nuovo romanzo di Michele MariI convitati di pietra, una storia che affosserà per sempre la già scarsa reputazione delle rimpatriate del liceo.


Iacopo Bruno & Francesca Leoneschi
Inseparabili
(Rizzoli)

Nelle profondità di un oceano sconosciuto, un piccolo polpo piange il padre scomparso e abbandona il regno per ripescare la sua anima da un abisso scurissimo. Sempre là sotto, lo spettro di una bambina che ha perso il cuore in un naufragio cerca consolazione. Si incontreranno? Certo. I disegni di Iacopo Bruno, qui, meriteranno tutto il vostro più sincero stupore.

Un altro romanzo – teoricamente per ragazzi – che può allietare sia per inventiva che per cura dell’edizione? Cesare vi consiglia L’ordine dei Senzasonno di Isaak Friedl per Giunti.


Stefano Zuffi
Animali dipinti
(24Ore Cultura)

Per le bimbe e i bimbi di Michel Pastoureau, un atlante ragionato degli animali nell’arte. Attraversando epoche e tradizioni pittoriche, Zuffi cataloga le bestie dalla simbologia più nutrita, inserendole nel loro habitat iconografico di riferimento e offrendoci numerosi capolavori da ammirare.

Più scienza e meno arte? Roberta Ragona – aka Tostoini – ha firmato per Aboca Fossili viventi – Le straordinarie creature del passato che vivono tra noiPer un approccio estremamente attivo e partecipato all’evoluzione, invece, c’è Evolution Book. Estinguiti o sopravvivi, un libro a bivi che vi spronerà a decidere che bestia diventare – e a capire perché certe creature proprio non ce l’hanno fatta.


Daniel Keyes
Fiori per Algernon
(Nord)

Uscito nel 1966, il topolino Algernon e il “suo” scienziato riappaiono per Nord tirati a lucidissimo con il trattamento superlusso. Labirintico taglio colore! Risguardi matti! Un modo intelligente per rinfrescare un romanzo che vale la pena continuare a leggere.

A proposito di romanzi che appaiono con particolare cura nel confezionamento – e che possono tornarvi utili nel caso ci sia già dell’apprezzamento per le autrici: Noi di Christelle Dabos (e/o) e Katabasis di R. F. Kuang (Mondadori).


Jane Austen
I capolavori
(Newton Compton)

Per i 250 anni dalla nascita dell’autrice sono state più che legittimamente sfornate numerose proposte editoriali, spesso e volentieri rivolte a un pubblico giovane, vispo e assai abituato al taglio colore di cui sopra, alle copertine gradevoli da vedere e a un impianto di publishing meno polveroso rispetto a quello che noi rognosi e rognose millennial abbiamo esperito. In questo filone si inserisce anche il cofanetto completo delle opere di Jane Austen prodotto da Newton Compton con la curatela di Felicia Kingsley – cofanetto che da ragazzina, ve lo dico, mi sarebbe parecchio piaciuto ricevere. E invece.

Vogliamo esplorare la vicenda biografia di Jane Austen? Carolina Capria la ripercorre con precisione, affetto e passione in Per sempre tua: il mondo infinito di Jane Austen (Gribaudo).
Vogliamo frazionare i romanzi di Jane Austen per potercene gustare un frammento tutti i giorni? Liliana Rampello ha curato Un anno con Jane Austen (Neri Pozza), una raccolta di 365 scene memorabili, dialoghi e citazioni.
Servono strumenti per orientarsi meglio? Ecco qua la mappa letteraria di Orgoglio e pregiudizio (il Saggiatore).


Daniel Wallace
Big Fish
(il Saggiatore)

Traduzione di Silvia Lalia

Sempre ci accapiglieremo su trasposizioni e adattamenti, ma risalire ai materiali originali di film molto fortunati o emblematici è sempre un esercizio fascinoso. Ebbene, anche Big Fish arriva da un libro… ci uniamo al circo?

Altri recenti e curiosi esempi? Abbiamo K-PAX di Gene Brewer (Accento)Ammazzati amore mio di Ariana Harwicz per Ponte alle Grazie – da cui è stato tratto Die My Love, in arrivo al cinema – e Lezioni di chimica di Bonnie Garmus (di cui si era parlato anche qui).
Attori che scrivono? Minimum Fax ha appena tradotto The Book of Elsewhere di Keanu Reeves e China Mieville. Per approfondire vi rimando qui.


Ludovica Lugli
Le chiavi magiche
(Utet)

Ludovica Lugli ha scelto un sottotitolo pacato e modesto, che fa così: “Indagine di una lettrice su Elsa Morante e i suoi romanzi”. Non sta mentendo, perché Le chiavi magiche è esattamente un viaggio nei libri di Morante, in quello che ci hanno lasciato e in quello che potevano dirci sia di lei che della sua epoca, ma a quel “lettrice” avrei aggiunto “lettrice molto accorta, molto acuta, molto sveglia, proprio una brava lettrice”. Veniva lungo? Sì, ma ci voleva.

Un approccio più “visivo” al Morante-verso? Per Einaudi è uscito Album Morante, un volume curato da Emanuele Dattilo che raccoglie lettere, fotografie e parecchi materiali inediti che ricostruiscono il mondo e il contesto personale e culturale dell’autrice.
Un altro volumone fotografico einaudiano – che si posiziona saldamente nel solco della nostalgia mondana e cinematografica? Francesco Piccolo ha firmato e “organizzato” Paparazzi, una raccolta di un’ottantina di scatti emblematici dell’epoca d’oro della “dolce vita”. Non vogliamo scansarci da Cinecittà? Olivia Laing torna al romanzo con Lo specchio d’argento (il Saggiatore) e sceglie di ambientarlo proprio lì, sul set del Casanova di Fellini.


Jean Jullien
This Is Not a Book
(Phaidon)

“Qual è il tuo libro preferito?”: quando me lo chiedono rispondo sempre che è impossibile deciderlo, ma sto seriamente valutando di usare Jullien come grimaldello universale. È questo, il mio libro preferito. Tié.

Un rimedio alla domanda opposta? Quale mai sarà il peggior libro del mondo? Auroro Borealo ci viene in soccorso con Il libro brutto dei libri brutti (Blackie).


Mi sono di certo dimenticata almeno 37 tomi che in realtà avrei voluto includere ma spero vivamente di avervi risolto qualche grana – o almeno di avervi indicato una valida pista. Se ci avete preso gusto o vi va di espandere le opzioni, qui trovate le edizioni passate dei listoni di Natale:

Per i bambini e le bambine, vi incoraggio a consultare questa lista, la carrellata tematica sui mezzi di trasporto e i mezzi pesanti, la raccolta degli atlanti (e dintorni) e il focus sugli insetti.
Per un approccio estremamente funzionale e sintetico a quello che di consultabile c’è qui sul blog nella sezione LIBRI o nei circoletti dell’Instagram, ecco il link generale a tutte le vetrine. Sì, le aggiorno man mano e senza soluzione di continuità.

Vi bacio, vi ringrazio per l’attenzione e vi auguro efficaci soluzioni a ogni dilemma regalifero. Evviva!

Il Premio Malaparte viene assegnato ogni anno a Capri a una personalità rilevantissima della letteratura internazionale. È una felice parentesi di convivialità, dibattito e fertile incontro con l’isola che, nelle sue molte trasformazioni, preserva tenacemente la sua vocazione culturale e artistica. Il vincitore dell’edizione 2025, la ventottesima, è Fernando Aramburu, pubblicato in Italia da Guanda, assai amato da un vasto pubblico per Patria e tradotto per ormai consolidato sodalizio da Bruno Arpaia. Il Malaparte è un riconoscimento all’opera “complessiva” e la preziosa presenza di un autore dal catalogo così nutrito si è anche trasformata in un’occasione per discutere di generi diversi, metodi di lavoro, ricerca linguistica e longevità creativa – che esiste se la spinta per la scrittura obbedisce a un impulso antico e non alla continua replicazione di successi scarsamente architettabili a tavolino.

Prima di procedere con il resoconto dell’intervistona, ecco qua qualche risorsa dal Malaparte-verso.
📚 Edizione 2023: una conversazione con Benjamin Labatut
📚 Edizione 2024: l’incontro con Rachel Cusk
📚 Edizione 2025: Fernando Aramburu si trasforma, piuttosto letteralmente, in un dono per l’isola.

 

 

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Procediamo? Procediamo.

Aramburu si è mosso con grande disinvoltura tra narrativa – dal romanzo-mondo alle storie di formazione che attingono dall’esperienza giovanile in un contesto impervio come quello dei Paesi Baschi -, scrittura giornalistica e racconto. La novità più recente, Ultima notte da poveri, approdata in libreria in sostanziale concomitanza col premio, è proprio una raccolta di racconti – particolarmente caustici e imprevedibili. Ci sono trasformazioni, derive grottesche, persone che maneggiano forme di male per deliberato desiderio di nuocere o per opporre una disperata difesa. È gente disallineata, ma anche prontissima a sganciarsi dal sentimento comune di “opportunità” e decoro. Cosa succede ad Aramburu, quando devia dal romanzo per cimentarsi col racconto?

I racconti mi invadono la testa e mi danno il tormento finché non mi decido a scriverli. Non so perché ma nei racconti perdo il mio lato compassionevole nei confronti dell’umanità. Nel caso dei romanzi, invece, sento di lasciare uno spazio maggiore alla speranza. Non so spiegarmi nemmeno perché nei racconti ci sia sempre una maggiore brutalità, oltre a questa carenza di compassione. Temo non siano letture molto allegre o libri adatti ad accompagnarci sotto all’ombrellone, perché contengono costantemente una certa dose di veleno, di zone buie e cupe.

Ma a controbilanciare c’è anche un buon senso dell’umorismo…

È vero, faccio ricorso all’arma dell’umorismo… ma bisogna fare attenzione col mio umorismo. Da quanto ho potuto verificare, ha la peculiarità di mostrarsi e di venire a galla nelle situazioni in cui forse sarebbe più opportuno un atteggiamento improntato alla gravità, a volte al lutto, alla serietà. Ma è un aspetto che mi definisce quando scrivo e non appartiene alla mia vita quotidiana, alla vita di tutti i giorni. Ovviamente, però, la letteratura esiste anche per permetterci di immaginare situazioni spiacevoli, nelle quali non vorremmo mai trovarci nella vita reale – frangenti come la morte, il dolore, i conflitti matrimoniali e quelli all’interno di una famiglia…
Vi posso assicurare, però, che nella vita di tutti i giorni sono un uomo tranquillo. Ma quando prendo la penna in mano sono assolutamente senza freni. Si scatena il diavolo che c’è in me. [ride]

Se i racconti si materializzano come idee fulminee o “accensioni” improvvise, che ossessionano finché non trovano uno spazio sulla pagina, il lavoro romanzesco è radicalmente diverso, anche all’atto pratico.

Parto sempre da un progetto ben definito e ben delineato. Prima di scrivere la prima frase di un romanzo ho già preso una gran quantità di decisioni, soprattutto formali. È un po’ come se si trattasse di preparare una partita a scacchi in cui, ancora prima di iniziare, bisogna già avere in mente tutte le figure e i personaggi. So che ci sarà una madre, un bambino, un figlio. E la trama, in queste fasi preparatorie, non è neanche così importante.
In secondo luogo, vanno prese delle decisioni relative alla lingua, allo stile della lingua. Non uso sempre la stessa musica verbale. Ad esempio, se devo scrivere una storia ambientata nei Paesi Baschi, sapendo che il popolo basco è poco incline alla verbosità, soprattutto a una verbosità molto fiorita, non potrò scrivere con uno stile come quello – ad esempio – di García Márquez.
Un altro aspetto importante, nel caso del romanzo, è il finale. Ho bisogno di sapere come finisce la storia, ne ho un bisogno assoluto – al contrario di quel che mi succede nel caso dei racconti.
Conoscere il finale mi permette di sapere anche dove mi trovo, in qualunque momento della redazione, e dove mi sta portando il fiume narrativo. Il fatto di conoscere la fine mi permette di capire se una parola, un dettaglio, un aggettivo è superfluo o necessario alla trama. E questo aspetto per me è di capitale importanza. Perché un romanzo sia un buon romanzo dobbiamo fare una serie di scelte coerenti che si traducono in scene, dettagli e parole… e tutti questi elementi, congiuntamente, ci fanno confluire verso il finale. Non è detto che sia scolpito nella roccia e che non possa essere cambiato – è successo, anche se resta rarissimo – ma, in generale, tutto va pianificato nel dettaglio. Inizio a lavorare alla trama solo quando comincio con la redazione vera e propria.

Ma come fanno questi approcci così diversi, questi metodi dalle strutture radicalmente opposte a convivere in un unico scrittore?

A casa mia è come se ci fosse una cabina armadio con tantissime ante diverse e in ogni anta c’è una personalità letteraria. In funzione di quello che serve, tiro fuori dall’armadio un vestito specifico – c’è quello del romanziere, quello dell’editorialista… mi trasformo letteralmente in una persona e in uno scrittore diverso in funzione del testo che devo scrivere. E questo l’ho imparato in Germania [dove Aramburu vive ormai dagli anni Novanta]. Il fatto che nell’ambiente in cui abito da così tanto tempo si parli una lingua diversa dalla mia lingua nativa, ha prodotto un certo timore: il mio spagnolo, con gli anni, stava diventando una lingua desueta? Da qui mi sono imbarcato in un processo di oggettivazione della lingua, l’ho “estratta” da me per osservarla. Mi sono anche concesso degli esercizi, un’attività che potrei paragonare a quella di un ventriloquo: mi sono divertito a imitare lo stile degli altri scrittori – e sono riuscito, a volte, anche a ingannare degli amici, a presentare loro dei testi che avevo scritto io ma che loro erano certi che fossero di un altro autore.

A proposito di estrema riconoscibilità, come si “sopravvive” o si impara a convivere con un successo numericamente così rilevante e anche così trasversale come Patria?

Quello che non volevo fare era ripetere quel genere di successo, perché non sento il bisogno di entrare a tutti i costi nella classifica dei bestseller. Non è colpa mia se Patria è stato il successo che è stato, ma di certo non posso permettere a Patria di proiettare costantemente la sua ombra sulla scrivania dove lavoro. Sono sicuramente mosso da una grande ambizione… ma è un’ambizione letteraria. Se il successo arriva va bene, è sempre il benvenuto, ma non definisce il mio lavoro. Dopo Patria ho aspettato cinque anni per uscire con un nuovo romanzo e in quei cinque anni ho pubblicato versi, riflessioni su altri autori, una raccolta di poesia… avrei potuto capitalizzare il successo di Patria, scrivere immediatamente dopo un Patria 2 e, di certo, mi avrebbe portato un riscontro economico importante. Ma sapevo già che non si sarebbe trattato di un libro di mio gradimento. Non ci avrei creduto nemmeno io, in un libro così. So di avere a disposizione degli anni in cui voglio vivere e scrivere, anni da impiegare per realizzare il mio sogno di adolescente: scrivere un’opera letteraria nel miglior modo possibile, secondo le mie capacità. E questo sogno è indipendente dal successo, che può arrivare o meno. Tutta la mia vita è improntata alla realizzazione di quel sogno, che per me non è in nessun modo negoziabile.

Che tipo era quel ragazzo che sognava di scrivere?

Ero un ragazzo anarchico, un po’ surrealista, coi capelli lunghi… penso che litigheremmo, se ci incontrassimo per strada oggi. [ride] Le idee che ho adesso penso susciterebbero i suoi rimproveri. Ma sono io, in fondo, quello dei due che è sopravvissuto. Non ho la sensazione che nella mia vita sia avvenuto a un certo punto un cambiamento radicale, uno stacco secco o una rottura con il passato. Mi ritengo piuttosto il risultato di un’evoluzione complessiva – il risultato di quello che ho imparato e di quello che mi hanno insegnato.
C’è però una cosa che mi accomuna ancora a quel ragazzo di 14 o 15 anni. Non abbiamo mai accettato la violenza e continuiamo a non accettarla. Mai, in nessuna circostanza, né nell’ambito privato e nemmeno nella società. E qui mi sto riferendo alla violenza di cui sono stato testimone. Proprio da adolescente, ho dovuto fare una scelta: partecipare a quella violenza o oppormi. Penso che l’operato e il lavoro degli intellettuali, in questo senso, sia importantissimo. Qualcuno deve pensare, dal luogo e dallo spazio dell’intelligenza. Possiamo essere d’accordo o no – a seconda dell’intellettuale che parla – ma se non esprimono gli intellettuali chi dovrebbe farlo? I politici? Le persone sui social network? Nelle società più conflittuali e inclini alla violenza, giornalisti e intellettuali sono quelli che scompaiono o che, prima o poi, vengono messi a tacere.

Ci si conosce davvero solo quando ci si rende disponibili ad ascoltare gli altri? Ed è anche così che si può sperare di costruire dei personaggi autentici, scrivendo?

Penso che l’osservazione degli altri abbia un valore e un’utilità quando si ha l’opportunità di farlo da vicino. Osservare una persona in televisione, ad esempio, non ha alcun significato, perché vediamo una persona truccata, collocata all’interno di una situazione concordata. Quello che faccio nei romanzi è soprattutto parlare delle persone, a livello concreto. Non scrivo thriller, non scrivo romanzi rosa, non mi ritengo un esperto di storia o di politica – ovviamente ne so qualcosa, ma non abbastanza da poterne scrivere. Se devo proprio considerarmi un’autorità in qualche campo, è quello della conoscenza dei miei simili. Ma nei loro aspetti più privati, nel loro modo di essere, di saper stare, di capire la vita, di gestire gli anni che restano loro da vivere. Di capire qual è la loro idea della morte, come funzionano le loro relazioni, i loro rapporti familiari, quali sono i loro gusti. Sapere soprattutto come si comportano e come affrontano le tragedie. Per me la noia non esiste: se non ho niente da fare mi siedo fuori al bar e guardo la gente passare.

Si sta in mezzo agli altri per avere qualcosa da scrivere, ma quando bisogna effettivamente farlo serve stare per conto proprio?

Amo moltissimo la solitudine e passo tantissime ore in solitudine, magari con la compagnia della mia cagnolina. E di tre cactus. La mia vita è molto ritualizzata: mi piace fare ogni giorno la stessa cosa alla stessa ora. Ho preso a esempio Kant che diceva “potete utilizzarmi per regolare l’orologio, se volete”. Questo modo di organizzare la mia giornata e la mia vita produce un grande senso di equilibrio. Ovviamente si tratta di una solitudine scelta, volontaria, di cui ho il controllo e che posso interrompere in qualunque momento – sono un uomo sposato, ho una famiglia, ho dei figli, ho una nipotina. Credo che la solitudine sia importantissima per uno scrittore e sono molto grato alla Germania che in qualche modo mi ha isolato. Se fossi vissuto a Madrid o a Barcellona probabilmente avrei scritto il 10% di quello che ho scritto, perché mi avrebbero chiamato gli amici per chiedermi di uscire, di andare a teatro o in giro. E mi conosco… non ho forza di volontà, sarei uscito sempre. In Germania non è successo, invece. Da scrittore mi è andata benissimo così.

Si sentono meglio le voci dei personaggi, in questo produttivo isolamento “scelto”? Pensiamo a un libro come Patria, che di voci ne contiene un coro…

Quando ho iniziato a scrivere, visto che non ero capace di scrivere, ho optato per la prima persona singolare. [ride]. In Patria, invece, ci sono nove voci narranti, più il testo – anche il testo interviene in quanto voce narrativa – e devo dire che se un personaggio ha la responsabilità di essere narratore, lo fa utilizzando la propria voce, una voce che lo caratterizza. Non utilizza la mia voce di scrittore. Se un personaggio è un bambino parlerà con un linguaggio da bambino, semplice. Se è una persona con poca cultura magari commetterà anche degli errori, parlando. Se si tratta di un docente universitario avrà un registro linguistico molto più alto. Tutto questo ha lo scopo di far sì che il lettore sia convinto della verità narrativa. Il mio scopo ultimo è che il lettore dimentichi di avere un libro tra le mani e che abbia piuttosto l’impressione di guardare dalla finestra e veder scorrere le vite degli altri, potrà emozionarsi per queste vite, ridere e piangere. Credo che questo sia il risultato più alto che un romanziere possa ottenere. Il tutto inizia con un inganno, come sappiamo, perché il romanziere non consegna nelle nostre mani un romanzo. Consegna un testo che spetta ai lettori decifrare. E ovviamente questo dipende dal lettore, il modo in cui il testo viene decodificato. Chi è stato in un bookclub lo sa bene – lo stesso libro può ricevere molteplici interpretazioni e reazioni, a seconda della persona che lo legge. Ho tre cactus perché mi servono a ricordare che scrivo per gli altri e non per me e i cactus hanno più o meno le dimensioni della testa di un essere umano – e un’enorme virtù: parlo ai cactus ma loro non mi rispondono. Mi ricordano in ogni momento che loro potrebbero essere i miei potenziali lettori e prima di cominciare a scrivere, ogni giorno, dico loro “oggi scriviamo e la voce narrante sarà quella di un bambino, d’accordo?”. Siccome nessuno ribatte, possiamo cominciare a lavorare tranquillamente. Ecco cosa succede quando si passano così tante ore in casa da soli.  

Tra cabine armadio piene di personalità letterarie, diavoli narratori, cactus che fungono anche da oracoli e uno sguardo acutissimo sempre puntato sugli altri, Aramburu sarà anche contento di stare da solo ma non lascia sicuramente da soli i suoi lettori e le sue lettrici. E anche al Malaparte si è dimostrato una splendida e affascinante compagnia. 

[Ringrazio ancora il premio per questa ormai consolidata avventura autunnale e Ferrarelle Società Benefit – che ormai da quattordici anni sostiene il Malaparte come sponsor unico – per l’ospitalità e la sempre splendida opportunità.]

Ho senz’altro letto più cose a tema maternità dopo l’abbondante conclusione delle mie gravidanze che nella fascia di caotica necessità di capirci qualcosa che coincide con l’incubazione. Possiamo pure dire che, da gravida, non ho letto niente e che, anche dopo, ci ho messo degli anni a razionalizzare davvero un’infinità di aspetti dell’esperienza fisica, emotiva, pratica e relazionale della maternità. Di certo, mi sembra di essere più capace di “capire” ora, ma dipende anche un po’ dall’arrivo sulla scena di un genere di saggistica che non ha l’obiettivo di spiegarci come si gestisce un neonato ma, invece, sposta il fuoco sull’esperienza delle madri, in un contesto contemporaneo.

Il fatto che i manuali che sperano di risolverci le rogne della nanna, della pappa, dell’allattamento e dello spannolinamento siano andati statisticamente per la maggiore è (anche) il prodotto di un grande vuoto d’interesse, che comincia a concretizzarsi appena un neonato abbandona la pancia per affacciarsi al mondo. Le madri, che per nove mesi sono state monitorate, misurate, analizzate e “gestite” si trasformano repentinamente in soggetti che devono assolvere una serie di funzioni, senza però essere accompagnate da un sistema di cura altrettanto strutturato e imperativo. Per Matrescenza – in libreria per Laterza con la traduzione di Alessandra Castellazzi – Lucy Jones parte proprio da qui, da quel vuoto di studi, attenzioni cliniche e psicologiche e dalle lacune nella sostenibilità della vita quotidiana che accompagna le neo-madri, che sembrano spesso armarsi e partire per conto loro in una missione campale.

Il termine “matrescenza” ha qui il compito di descrivere il periodo – in realtà ben più lungo e articolato di una gravidanza – in cui una donna si assesta nella nuova condizione di madre. Jones, che di lavoro fa la giornalista scientifica, unisce alla sua esperienza (ha avuto tre figli) un ricchissimo sistema di fonti capaci di rendere meno opaco e meno trascurabile questo momento di passaggio. Dagli studi neuroscientifici alle lacune nell’informazione delle gestanti, dagli sforzi per affrontare (o renderci consapevoli) degli strascichi fisici del parto alla necessità di un approccio privo di stigma al sostegno psicologico, Jones parla di corpo per parlare di identità, autonomia, sicurezza, benessere, mente, medicina, legami, lavoro e società.

Chissà, probabilmente da gravida non avrei letto nemmeno questo libro, ma il fatto che adesso ci sia mi fa ben sperare. E finalmente, forse, ho qualcosa da consigliare a chi mi chiede spessissimo “sono incinta! Cosa leggo per prepararmi?”. Magari qualcosa di rigoroso e ben documentato che ti ricordi che continuerai a esistere anche tu, amica.

Allora, io non ho tutta questa dimestichezza con i gialli. Mi cimento quando me li vendono evidenziando una stramberia strutturale – vedi i due Stile Libero di Janice Hallett, L’assassino è tra le righeIl misterioso caso degli angeli di Alperton -, una trovata stilistica o un’ambientazione peculiare, altrimenti è difficile che mi incuriosiscano. Con Uketsu, che in Giappone è una specie di fenomeno, possiamo anche contare sul bonus “personaggio misterioso che staziona su Youtube con una maschera di cartapesta in faccia e nessuno sa chi è”, quindi m’è sembrato legittimo fare un esperimento, considerando anche il lancio molto sostanzioso – anche questo è uscito per Einaudi, con la traduzione di Stefano Lo Cigno.

Ma com’è, questo Strani disegni? Dipende. Perché funziona tutto, ma non sembra un libro scritto da un essere umano – il che forse va benissimo, dato che Uketsu non si presenta come tale ma come una specie di entità astratta. Non è da uno con una tutina nera e un disco bianco sulla faccia che dovremmo aspettarci una penna “viva” e organica, forse, visto che già si propone al pubblico come un macchinario vagamente antropomorfo che genera storie spaventosin-disturbanti.

La storia è divisa in tronconi all’apparenza disparati, che a modo loro fanno provincia quasi autonoma. Son divisi dal tempo e dallo spazio e uno degli aspetti positivi del romanzo è la costruzione di ponti e nessi causali tra tutta questa roba che Uketsu apparecchia per costernarci.
Il titolo è sincerissimo, perché ogni porzione del mosaico poggia su un macro-indizio contenuto in un disegno o in una serie di disegni. Son quasi sempre dei brutti disegni ma, come un po’ tutto il resto, non sono lì per essere belli ma per essere utili: sono prove d’enigmistica all’interno di un grande esercizio, un invito ad allontanarci per mettere insieme i pezzi e scorgere l’impianto complessivo. Io, che sono qua perché i disegni erano il mio pretesto di curiosità, ne ho apprezzato l’utilizzo – anche se la genesi di alcuni è davvero stiracchiatina.

È un romanzo che si prende in mano e più o meno lo si vuole finire senza alzarsi, rimanendone quasi ipnotizzati? Direi di sì, perché è ingegnerizzato per quella precisa ragione – nonostante appaiano a più riprese degli schemini riassuntivi di quello che c’è scritto tre righe prima. Uketsu si impegna assai per rendersi accessibile, mettiamola così.
È anche un’esperienza di lettura orrenda? Per certi versi sì, perché è una scrittura puramente funzionale e quel che fa più paura in assoluto è sentir descrivere gli abissi dell’animo umano con quel tono lì. È come assistere a un massacro tra androidi con la telecronaca di un altro androide, insomma. È una pecca o un segnale di coerenza completa tra autore ed esecuzione? È tutta una gigantesca supercazzola? Un androide disegnerebbe meglio o peggio di Uketsu? È un altro mistero. In un paese in cui anche agli Evangelion venivano concessi carne, destino e sangue, Uketsu si veste da creepy-mimo e quello fa: disturba la nostra quiete con le conseguenze di un antico orrore, delegandoci i risvolti emotivi e lavorando solo col riflesso lontano di quel che dovrebbe essere una persona. Ma la trappola, efficientissima, scatta. 

Ho la pessima abitudine di considerare i libri che mi capita di presentare o di cui mi capita di discutere in pubblico come già affrontati, raccontati e sviscerati. Il risultato è che qua sopra non ne rimane traccia, anche se sarebbe meglio poterli ritrovare come diligentemente accade per tutti gli altri, che non hanno beneficiato di eventi o incontri specifici. Sto migliorando, però – e Rachel Cusk mi è testimone, insieme a questo propizio approfondimento.

Di Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, si discute da mesi con l’ormai consueta esuberanza. Uscito in settembre in inglese e il 12 novembre per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Norman Gobetti, Intermezzo è stato per me un graditissimo ritorno della Rooney “migliore” e, per certi versi, anche il debutto di una versione stilisticamente aggiornata dell’autrice. Se ripenso agli esperimenti di Dove sei, mondo bello mi viene il nervoso – chi non manda e-mail di dieci cartelle alle proprie amiche per discutere del declino della civiltà occidentale? Magari voi sì, ma a me era sembrata una soluzione estremamente posticcia e pretenziosa – e la grande speranza era di non ritrovarmi per le mani un nuovo romanzo che proseguiva tenace per quella china. Mi piace e mi è sempre piaciuto leggere Rooney per la capacità che ha di collocare le relazioni nel mondo, di esplorare gli spigoli della comunicazione fra gli esseri umani, di riprodurre i garbugli dell’identità e delle idee lungo il confine tra percezione “interna” e confronto con la realtà – e lì dentro ci finisce anche la politica, area d’azione da cui Rooney non si è mai sottratta, anzi. L’uscita di Intermezzo è stata massicciamente accompagnata da librerie che restano aperte di notte – spesso con veri e propri takeover degli spazi commerciali -, gadget, distribuzione anticipata di ambiti scatolotti a una ferrea lista di personalità rilevanti, gruppi di lettura e aggregazioni di varia e multiforme entità. La si aspettava con trepidazione, Sally Rooney… un po’ al varco, anche. E non credo proprio abbia deluso.

In Intermezzo il punto di vista è sdoppiato e parallelo e Rooney lo affida a due fratelli – Peter e Ivan. Il romanzo si apre con la morte del loro papà dopo una lunga malattia e tallona i due durante il periodo di “assestamento” che fa seguito a questo evento campale, doloroso e profondamente destabilizzante. Peter ha superato i trenta e fa l’avvocato a Dublino. Ivan ha una decina d’anni meno ed è stato un prodigio degli scacchi, disciplina in cui spera di poter tornare a primeggiare. Peter è un animale sociale di successo, Ivan legge meglio la scacchiera delle persone. Peter è bello e balla, Ivan è bello ma non balla per niente, per metterla giù in maniera un po’ triviale ma diretta. Peter ha avuto una lunga storia con una donna soave e intelligentissima, che è rimasta nella sua vita e nella sua testa come inscalfibile precedente di perfezione, mentre Ivan non ha ancora collezionato un numero ragguardevole di esperienze, anzi. Entrambi, nel loro periodo di “intermezzo” tra la vita che hanno conosciuto e quella che devono ricostruire dopo il lutto, attraversano disastri, nuovi incontri, nuovi specchi in cui provare a riconoscersi o a sputarsi in faccia. Così, tanto per infarinarvi e fornire un piccolo quadro della situazione.

Rooney ha raccontato di aver cominciato il romanzo in una fase di profonda vicinanza con l’Ulisse di Joyce. E si sente. Se siamo stati più abituati a considerarla un’autrice che con le parole non produce prodezze particolarmente funamboliche ma un’autrice che si legge perché può intrigarci come fa pensare e come fa interagire i personaggi, in Intermezzo succede qualcosa in più. La pagina somiglia alla testa dei personaggi e, qui, ci sono due teste che funzionano in maniera peculiare e distinta – e, a tratti, smettono proprio di funzionare e si avvitano in spirali di disordine e reazioni viscerali. Insomma, trovarsi per le mani (soprattutto) Peter è un’esperienza nuova e molto ricca. Lì per lì può spiazzare, ma seguitelo anche quando barcolla.

Di amore, intimità, sesso, disperazioni, passi in avanti stilistici, dinamiche relazionali, differenze d’età, SANTI NUMI COSA NE PENSERÀ LA GENTE, Irlanda centrale e periferica, morale cattolica, senso di colpa, famiglia, pochi scacchi e molto altro abbiamo discusso anche in Mondadori Duomo qua a Milano il giorno dell’uscita di Intermezzo. Nella chiacchierata trovate Stefano Jugo di Einaudi a moderare – perché non contento di avermi avuta come vicina di scrivania per qualche anno capita che mi rievochi come un Pokémon leggendario -, Ilenia Zodiaco e Carlotta Sanzogni. Eccoci qua per un’oretta:

Non avevo mai letto Sophie Kinsella e cominciare da Cosa si prova – tradotto per Mondadori dall’illustre penna di Stefania Bertola – è forse un po’ bizzarro. Vorrei potermi augurare un futuro di romanzi “nuovi” da scoprire, utilizzando questo come un felice momento di conoscenza reciproca, ma so fin troppo bene quanto sia improbabile. Alla fine del 2022, Kinsella ha reso noto di essere stata colpita da un glioblastoma – un tumore al cervello di natura particolarmente aggressiva. Il glioblastoma non si cura e, per quanto sia possibile asportare chirurgicamente la massa e sottoporsi successivamente a radioterapie mirate e cicli di chemio, resta una condanna a cui non abbiamo ancora trovato il modo di sfuggire. Si può aspirare a un’aspettativa di vita un po’ più lunga delle inclementi medie statistiche ed esistono casi più che sporadici di resistenza fuori scala, certo, ma in poco altro si può confidare.
Ho provato un dispiacere sincero per Kinsella, perché il medesimo tumore ha ucciso mia madre, nel maggio del 2023, perfettamente in media rispetto alle grame statistiche di (non) sopravvivenza. Quando mia madre ha scoperto di essere malata io ero al terzo mese di una gravidanza delicata ed è apparso subito chiaro che non avrebbe visto crescere o anche solo esordire al nido il suo secondo nipotino. Il medico di base l’aveva spedita per direttissima dal neurologo, perché faticava a leggere e a scrivere. Prima ancora di approdare agli esami più approfonditi che le erano stati prescritti – con una celerità stupefacente che solo un “paghiamo” può produrre – mio padre si era deciso a portarla di corsa al pronto soccorso perché all’improvviso non riusciva a coordinarsi, non muoveva più un lato del corpo e vedeva roba che non c’era. Non era passata neanche una settimana dalle avvisaglie iniziali.

Non lo specifico perché la nostra storia serva necessariamente a qualcosa, ma perché è stata la mia principale motivazione di avvicinamento a questo libro. Non sono abituata a leggere di malattie, di sofferenze ospedaliere, di calvari e di cataclismi corporei. Mi terrorizzano e mi sconcertano, non mi trasmettono alcun afflato di positività, non mi convertono alla retorica della coraggiosa guerriera o dell’indomito guerriero. Ma non avevo mai incontrato – per quanto con la mediazione della scrittura – una persona che stesse attraversando quello che era toccato a mia madre e che avesse trovato il modo di ricomporre i pensieri abbastanza da organizzarli in una narrazione. Mi fa impressione parlare di “pubblico” per una storia (o per tutte le storie) di malattia, ma forse è così che ci si segmenta: si cerca qualcuno che abbia davvero idea di cosa succede e ci si avvicina per limare l’isolamento e arginare l’impossibilità strutturale di spiegarsi il perché. Che non esiste, poi. Il glioblastoma, tanto per produrre un esempio pertinente, non ha fattori scatenanti “ambientali” o legati allo stile di vita e non è ereditario. Spesso i sintomi si manifestano in maniera repentina, quando la massa è cresciuta “abbastanza” da disturbare in maniera decisiva le funzioni delle aree del cervello circostanti. E, senza aver manco mai patito un blando mal di testa, ci si ritrova a non saper più leggere o a discutere con un chirurgo che non è certissimo di poterti asportare dalla scatola cranica tutto quello che si dovrebbe asportare. È una mostruosità semplice che si accende e mangia, insomma, sabotando quello che ha intorno finché non funziona più niente. Chi mai riuscirà a offrirmi un valido “perché” avrà tutta la mia riconoscenza.

Non ho la minima idea di come Kinsella sia riuscita a mettere insieme questo libro. Da un lato, ho provato una vasta stima per la sua tenacia e ho partecipato con immensa gioia al suo decorso relativamente buono, in strettissimo senso clinico. Dall’altro, però, mi sono arrabbiata da capo. E per motivi nuovi, forse. È un libro animato da un ottimismo che ho dimenticato, o forse non sono mai riuscita a coltivare. Kinsella spera e fa sperare la sua protagonista-specchio, ma cosa me ne faccio io – ormai – di un orizzonte di speranza? Sospetto, però, che sia anche l’unico libro che si poteva scrivere in queste circostanze. E lo comprendo profondamente, ne percepisco sia l’istinto di reazione che il preciso intento di plasmare come vorremmo che ci ricordassero. Un’autrice che ha inventato finali felici per una vita intera che cosa mai potrebbe augurarsi per questa sua emanazione definitiva? L’idea stessa del lieto fine è una specie di morte dell’azione narrativa, se ci pensiamo: è andato tutto bene, non c’è più disordine, l’armonia e tornata e la giustizia ha trionfato… che altro vi serve sapere? Via, circolare. Quello che ci resta è un idillio cristallizzato, la soddisfazione di un cerchio che si chiude e la promessa di un futuro così radioso da non generare più nulla che valga la pena raccontare. Facciamoci bastare questa gioia, non ci serve altro. Immaginiamoci un futuro infinito in cui questo stato di benessere e compiutezza si srotola per sempre. Muore la storia ma non muore la speranza, insomma. Può morire chi scrive ma un personaggio che continua a sperare non morirà mai.

Mia madre non ha sofferto di lunghe amnesie e non ha dovuto sostenere fisioterapie troppo onerose. Era un’atleta, dopotutto. È stata operata, ha fatto la radioterapia, ha fatto la chemioterapia. Si è gonfiata, ha perso i capelli. La prima risonanza magnetica dopo le cure era pulita. Un piede non ha mai riacquistato piena sensibilità, l’equilibrio è peggiorato perché, tra le altre cose, faticava a valutare visivamente la profondità e non è stata più capace di usare le mani con quel grado di precisione che ci consente di lavarci i denti, di gestire le posate, di allacciarci le scarpe – che non le andavano più bene -, di rompere un uovo per farci la frittata. Non ha mai più potuto disegnare o lavorare a maglia. Ha avuto periodi buoni, di relativa “normalità”, e periodi pessimi. Non ha ricominciato a leggere o a scrivere, cercava di fare quello che ha sempre fatto in casa ma le risultava difficilissimo arrivare in fondo a una sequenza di azioni anche molto semplici. Le allucinazioni l’hanno abbandonata praticamente subito, ma parlava a fatica, mescolando le sillabe e perdendo per strada i termini esatti che cercava. Potrei elencare un migliaio di mutamenti fisici che l’hanno investita, modificandola radicalmente. Ma quel che cambia, insieme al corpo che gradualmente si deteriora e si scorda come si fa a funzionare, è anche il tempo che si abita insieme e come si sceglie di impiegarlo. L’unica forma di coraggio può esistere in quella parentesi lì, ma bisogna trovare il modo di fare spazio. Perché non ci si confronta più con una persona che è in grado di pensare come ha sempre pensato, con una persona “intatta”, che si riconosce e resta padrona di sé stessa.
Non sono ancora capace di descrivere l’orrore e lo smarrimento di chi assiste al disfacimento irrimediabile di qualcuno e quello che mi ha meravigliata di questo libro, credo, è il comando di sé che ho intravisto in Kinsella. La volontà precisa di esistere insieme agli altri, di lasciare una traccia sentimentale. Di predisporsi al futuro sapendo che quel futuro passerà di mano. Che un’altra persona sia riuscita a costruire un romanzo riordinando fatti e sentimenti, raccontando una malattia che distrugge la mente e la presa che abbiamo sulla realtà mi pare un miracolo, anche se a costruire quella storia è stata una persona abituata a vendere milioni di copie dei suoi romanzi felici nel mondo intero. E no, non è strano o sciocco immaginare un’insegnante di educazione fisica accanto a un’autrice di fama internazionale, perché una sciagura simile livella i talenti e se ne infischia delle predisposizioni e delle identità di partenza. Per me l’ottimismo è finito e nemmeno il senso dell’umorismo ha aiutato granché. Ma forse ha ragione Kinsella… e ha fatto bene a scriversi speranzosa. A immaginarsi ancora, anche quando non ci sarà più niente da raccontare. 

 

È possibile innamorarsi perdutamente di una persona che non riusciremo mai a conoscere davvero e che in maniera sistematica ci nasconderà per tutta la vita informazioni rilevantissime sulla sua identità? C’è un limite fisiologico in quello che possiamo dire di sapere degli altri – “vicini” o lontani che siano: spesso dipende da omissioni deliberate e altrettanto spesso dipende da noi, da quello che capiamo e di cosa ricaviamo dai dati e dai racconti che riceviamo. Ma dove possiamo tracciare un confine d’accettabilità – sempre che tracciare un confine abbia senso? Gli inganni reggono perché scegliamo di farci prendere in giro o perché pensiamo di essere speciali, di essere le uniche persone al mondo che hanno potuto beneficiare del vero volto di qualcuno? O forse è solo una questione di fede o di sottomissione? Prendo quello che vuoi darmi e se vorrai darmi solo le briciole mi accontenterò, perché son bastate quelle tre briciole lì a rivoluzionarmi la vita e a farmi sentire felice.

Catherine Lacey si mette nei panni di una donna che è stata sposata per anni con un enigma all’apparenza insondabile. La X del titolo era una poliedrica artista che, per decenni, ha spaziato dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla fotografia. Una persona famosa, conosciutissima per il suo lavoro, onorata da retrospettive e considerata a pieno titolo una figura di spicco del mondo creativo.
X conquista una prima notorietà grazie a una performance decennale di rara ambizione, Il soggetto umano. In quest’opera tentacolare, che viene esposta in un accumulo di “prove” fotografiche e documentarie, X appare come una collezione di maschere: per quei dieci anni lì ha incarnato identità diverse, travestendosi, scegliendo nomi fittizi e presentandosi “in società” senza mai abbandonare questi personaggi. Le sue identità alternative hanno fatto musica, scritto libri, fondato case editrici, scatenato polveroni, fatto cinema e dipinto, senza lasciar mai intuire che dietro a tutta quella roba si celasse un’unica mente. Anche dopo essere uscita allo scoperto e aver raccolto gli applausi del caso, X non spiega mai le sue motivazioni, la sua vera provenienza, la sua storia. Non lo spiega alla stampa – che glielo chiede con assiduità – e non lo spiega a sua moglie, C. M. Lucca. Sarà proprio Lucca che, dopo la morte improvvisa dell’artista, decide di scrivere questa Biografia di X, un po’ per confutarne una piena di scemenze – per quel che può saperne, in fondo – e un po’ per esorcizzare X, per ricomporne l’immagine e scoprire, finalmente, chi era la donna che tanto ha amato… e che così poco ha condiviso con lei. Anche il loro matrimonio era solo un esperimento? Possiamo forse dire di aver creato una felicità autentica? Ma chi mai ho conosciuto io? Gambe in spalla, proviamo a capirlo, anche se molto male farà.

Lacey è molto abile e anche molto paziente. Il circo che tira in piedi con Biografia di X – tradotto per Sur da Teresa Ciuffoletti – è ambiziosissimo e anche ben congegnato, mi vien da dire.
Ogni volta che in un romanzo c’è un personaggio e se ne racconta la parabola si compila in fin dei conti una biografia immaginaria, ma qua troviamo una sovrapposizione di “filtri” e un’operazione di mimetismo che deforma la storia conosciuta del Novecento per creare una dimensione alternativa. Tanto per cominciare, gli Stati Uniti non esistono… almeno, per come li intendiamo noi. Nel mondo che Lacey immagina per Lucca e X, gli stati del Sud sono riemersi dalla Seconda Guerra Mondiale autodeterminandosi in un Territorio indipendente teocratico e totalitario. A questo Sud oscurantista e repressivo si contrappone un Nord dai valori liberali accentuatissimi e un Ovest che va un po’ per conto suo. I territori non comunicano tra loro – c’è proprio un bel muro a separarli – e si campa in una condizione di tensione perenne.
Il fatto che il paese di Lucca e X sia fatto così ha una profonda rilevanza e anche la scelta di collocare queste vite fittizie – ma riprodotte con la precisione che spetta a personaggi reali – tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta è funzionale alla tenuta del gioco. Sono anni di figure pubbliche mitologiche, anni di costruzione di un’idea di fama e celebrità che va a braccetto con sogni e volontà di riscatto, anni di tumulto creativo e tentativi di teorizzazione dello spazio individuale nella sfera pubblica. Di prese di posizione. Di truffe possibili, perché ancora possibile era far perdere le proprie tracce, cambiare pelle, vestirsi di inganni. Lacey consolida questi sforzi di radicamento in una realtà per noi familiare – ma anche profondamente straniante – costellando la Biografia di Grandi Nomi da far incontrare a X, nelle sue varie emanazioni. Da David Bowie a Carla Lonzi, X sfarfalla qua e là portando scompiglio e moltiplicando le superfici riflettenti e le cortine fumogene di questa storia. Ma c’è dell’altro, perché tantissimi passaggi, dichiarazioni pubbliche di X, dialoghi e testi critici che Lucca riporta come frammenti del “suo” mondo sono in realtà citazioni che Lacey ricava da testi, romanzi, interviste e saggi che esistono nel “nostro”. Non lo dichiara nel testo, se non in un’appendice conclusiva ricca, gustosa e labirintica, separata dal libro di Lucca.

Ma com’è, alla fine? Io l’ho trovato più interessante che “piacevole”, se devo sintetizzare. Lucca documenta la sua ricerca trascrivendo interviste, ripercorrendo la sua relazione con X e riempiendo i periodi di vuoto “informativo” con le parole di testimoni, fantasmi del passato e “vittime” quasi sempre ignare degli inganni di X. Incrocia quello che ha intuito con le prove contenute negli archivi di X, tramutando tutto questo materiale in un ritratto che riesce a ricomporre un puzzle fattuale ma mai a catturare davvero le motivazioni di sua moglie. Certe scelte diventano più chiare e certe congetture meno campate per aria, ma X resta un’anomalia, un pozzo auto-conclusivo di solitudine e mistero. Non tutte le parti dell'”indagine” hanno la medesima incisività, c’è una mastodontica quantità d’incredulità da sospendere – soprattutto perché ci viene chiesto espressamente di aderire all’inganno -, ho odiato X e ho odiato Lucca e nemmeno per un istante ho trovato in X un briciolo di quel fascino ammaliante che il mondo intero pareva attribuirle.
X è un mostro?
O X è diventata un mostro per sopravanzare circostanze mostruose?
Chi siamo noi per assolverla o condannarla?
Che diritto abbiamo di considerare patetica la sua vedova – che la piange e la maledice… ma la ama, anche se di lei ha intravisto solo un frammento?
E quanto senso ha poi associare alla trasparenza, alla sincerità e alla verità esibita e “vissuta” una dimensione di indiscutibile moralità?
L’arte è finzione?
O è mettendo gli altri nelle condizioni di immaginare che si può fare arte?
Quanto si può disperdere e frammentare la propria essenza prima di scordarci chi siamo?
Ed è importante sapere chi siamo o conta di più badare a quello che sentiamo?
Può un amore diventare l’unica verità da proteggere, anche se tutto il resto è un’illusione?
Se lo scoprite, venitemelo a raccontare. Nel mondo di X ci sarà sicuramente posto anche per un saggio critico sulla sua fosca eredità. 

Penso capiti di rado di imbattersi in una voce narrante come quella che Barbara Kingsolver decide di donare a Demon Copperhead, il caparbio protagonista di quest’epopea di disastri premiata col Pulitzer e approdata qui da noi in libreria grazie a Neri Pozza nella traduzione di Laura Prandino – che non invidio e molto ammiro per il coraggio.
Demon condivide con David Copperfield l’ambizioso arco narrativo – sono nato… ed ecco qua tutto quello che mi è successo – e con Rosso Malpelo il colore dei capelli e una specie di bersaglio invisibile dipinto sulla schiena. Demon in miniera non ci arriva, ma la sua contea natia è un centro estrattivo degli Appalachi già avviato al declino, popolato da gente che si arrabatta, griglia anche quello che non si potrebbe grigliare, coltiva tabacco, venera i giocatori di football del liceo e accoglie a braccia aperte il ristoro che le pillole della Purdue Pharma promettono di dispensare.

Demon nasce senza tante cerimonie sul pavimento di una casa mobile, da una diciottenne con già alcuni percorsi di disintossicazione (non molto ben riusciti) alle spalle. L’unico dono che il destino pare tributargli sono dei vicini che diventano una sorta di seconda famiglia. Pure loro sono hillbilly da manuale, ma in confronto a Demon e a sua madre – privi di mezzi, privi di radici, di direzione o di magici piani a lungo termine – sembrano il Rotary Club di Corso Magenta. Demon oscilla tra un’iperconsapevolezza della propria condizione di svantaggio “materiale” e una struggente capacità di assorbimento delle disgrazie. Non solo cerca di cavarsela, ma resta “intero”, anche se chi dovrebbe prendersi cura di lui non si dimostra mai all’altezza della situazione, anzi.

Ricapitolarvi anche solo a grandi linee la sua fosca parabola fatta di povertà, fondi di magazzino di Walmart, pezze al culo, assistenti sociali oberate dalla vastità delle catastrofi da gestire, fame, fornelli luridi, fratelli di sventura e genitori affidatari che si vendono pure i cotton fioc usati al banco dei pegni sarebbe sciocco, perché il punto di vista del piccolo Demon vale il prezzo del biglietto. La Lee County del libro è un posto che asseconda da un bel pezzo la narrazione di disfacimento del Sogno Americano, che qua resta in piedi per riti collettivi e per un’attitudine quasi comica alla venerazione della celebrità – status che in questo contesto di pochissime pretese è raggiungibile anche da quel tuo amico che piscia più lontano di te in mezzo a un bosco. Demon non ha mai potuto beneficiare del lusso dell’ambizione, perché arrivare indenne alla fine di una giornata è già un traguardo sufficiente, ma spicca strano e meraviglioso ovunque lo si piazzi. È piccolo e più che adulto insieme, disegna per sfogarsi e per immaginare supereroi che raddrizzino le storture del suo mondo… ma chi salverà lui?

Che da questa serie di sventure non scaturisca una narrazione dolente e lacrimevole è una specie di miracolo. Credo dipenda da come viene tratteggiato Demon, ma anche dall’intento di esplorare un contesto che ha una presa forte sulla realtà – piaga degli oppioidi venduti come caramelle assolutamente innocue compresa. Demon cresce e la sua voce cambia, creando un certo stacco tra la prima parte del libro – quella dell’infanzia – e la seconda, che è una prova generale di un’età adulta azzoppata dalla carenza di “esempi” virtuosi e da circostanze sistemiche che finiscono per risucchiarlo. La famiglia è un’entità ondivaga, inaffidabile, monca. Per Demon l’idea di “casa” perde senso molto presto, per essere sostituita dalla Lee County in generale, quasi. Ma è proprio quel posto, con le sue storture che affliggono chiunque resti, ad avvelenare ogni possibilità di riscatto. Quello che per noi potrebbe essere percepito come degrado, marginalità o circostanza “estrema” per Demon è ordinaria amministrazione, “prodotto tipico” della contea. Come si fa a salvarsi se l’unico punto di riferimento che si possiede è anche la radice di quello che ci fa più male? La grande sfida di Demon sarà proprio quella. E a ogni istante tiferemo sinceramente per lui. Anche nei momenti peggiori, anche quando ci deluderà o lo vedremo prendere decisioni sciagurate, non smetteremo di volergli bene e di provare a regalargli tutti i pennarelli del mondo.

Non pensavo fosse un buon momento per imbarcarmi in un mattone di mille e passa pagine. A dirla tutta, non lo penso praticamente mai. Credo mi capiti perché cerco di prevenire un eventuale fallimento, perché temo sempre di finire schiacciata da slanci avventurosi che non posso sperare di sostenere. I libroni mi attirano, però. Vediamo se riesci a tenermi lì con te, librone. Vediamo cosa sai fare. Vediamo se sarò degna di te, librone. Cominciare il 2024 con L’ottava vita di Nino Haratischwili – in libreria per Marsilio con la traduzione di Giovanna Agabio – si è dimostrato un azzardo riuscitissimo. Non tanto perché al romanzo serva ancora dimostrare qualcosa – l’accoglienza trionfale della critica è stata praticamente unanime già dalla prima pubblicazione, nel 2018 -, ma più per la crescente sfiducia nelle mie capacità di gestione di un’epopea monumentale, di un libro “importante”, ramificato, tumultuoso. Non credo si possa mai davvero scegliere da cosa lasciarsi catturare e non tutti gli atti di fede vengono sempre ripagati, ma quando l’impresa riesce è anche salubre mettere in piedi un piccolo festeggiamento. Bravo, librone. Eccoci qua.

Haratischwili ha trascorso l’infanzia in Georgia negli anni Novanta e abita in Germania dal 2003. Anche Niza, la sua narratrice e una delle “vite” del romanzo, è emigrata a Berlino e gestisce con estrema farraginosità la complessa eredità della sua parabola familiare all’interno dell’ancora più travagliata parabola “rossa” novecentesca. Haratischwili – che ha scelto di scrivere in tedesco, forse per garantirsi una sorta di cuscinetto protettivo – affida alla famiglia Jashi il compito di riprodurre su scala “umana” i molti stravolgimenti di un paese intero nel corso del Novecento. Visto che far piovere così tanta sfortuna su così poche teste potrebbe risultare un po’ bizzarro – nonostante l’inclemenza strutturale della storia in determinati angoli di mondo e il compiacimento del pubblico per la scalogna più nera -, Haratischwili porta in scena una sorta di profezia autoavverante: il capostipite degli Jashi è un pasticcere straordinario, unico inventore e depositario di una ricetta segreta per una cioccolata così buona da far spavento (letteralmente). Chi la assapora non avrà scampo… e di cioccolate se ne berranno parecchie, col procedere della narrazione.
Tutto comincia proprio da una florida bottega di dolci, nella Tblisi del 1917, per approdare a un recentissimo presente in cui la transfuga di un Est devastato tende la mano a una nipote ribelle, che balla sui resti di una storia di famiglia troppo intricata per essere ricomposta, troppo tragica per lasciar presagire futuri meno nefasti o disorientanti. Sarà Niza a rimettere insieme i pezzi per Brilka, a riconsegnarle il mosaico della sua discendenza, indissolubilmente legata alla storia di un paese dall’identità cangiante, fagocitato dall’orbita russa ma “produttore” certificato di ambiziosi progetti di rivalsa e di Grandi Mostri. Anzi, di Generalissimi – è così che Stalin viene identificato (o non nominato) nel libro – e di Piccoli Grandi Uomini – AKA Lavrentij Berija. Dalla deposizione degli zar alla battaglia di Stalingrado, dallo spauracchio del gulag alla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica, dalla Primavera di Praga al crollo del muro di Berlino, la famiglia Jashi procede sul filo del conflitto perenne e dell’incomunicabilità generazionale. È come se il disegno di una grande utopia fatta di pace, uguaglianza, collaborazione e abbondanza – così orrendamente disattesa dalla realtà – si riflettesse sulle utopie “private” di serenità, successo e amore della famiglia, disinnescandole o reclamando sacrifici impossibili. Haratischwili manovra con abilità sia la storia della sua terra d’origine (e della Russia, nelle sue tante emanazioni) che quella dei suoi personaggi, che diventano man mano sia strumenti utili a descrivere un movimento collettivo (o uno smarrimento generale di fronte alle enormità dei fatti) che creature indipendenti, “rotonde”, credibili nelle loro mancanze, nelle loro irrazionalità e nei loro vuoti. Tutti si misurano con un’ombra nascosta, con la perenne assenza di padri e con l’onnipresenza di padri della patria che tutto vedono e tutto possono prendersi. Gli Jashi sono – salvo un’unica eccezione, direi – dei disallineati, ma nessun colpo di testa verrà loro perdonato. E no, non si tratta soltanto della maledizione della cioccolata.

Come fila via la lettura? Molto bene. Chiaro, non tutte le sezioni – perché il libro è diviso in “vite”, di volta in volta dedicate a un personaggio che funge da snodo centrale – vi appassioneranno in egual misura o procederanno con il medesimo ritmo, ma c’è uno splendido equilibrio tra lo scopo di produrre un Grande Affresco e l’idea di raccontare cosa succede a della gente che si incontra, si innamora, va in malora, si illude, parte per la guerra, fa figli, si dimentica i figli, prende in casa figli non suoi, balla, sogna, immagina l’Ovest, cura il giardino, fuma sigarette, beve troppo, si dispera, combatte, si vendica, si nasconde, va a scuola, si vende pure i fazzoletti sporchi, casca, si tira su, ricasca, rimane per terra, vede i fantasmi, si inganna, si sbaglia, si intestardisce, scappa, torna. È un libro che mette insieme una lunga serie di eventi irrimediabili e si interroga su come ci si possa convivere. È il resoconto di un percorso accidentato, contraddittorio e violento, costellato da sprazzi di speranza e di legami che diventano ancore, anche quando si disgregano nell’illusione. Si sopravvive scegliendo di chi prendersi cura, forse. Anche quando non conviene, anche quando non ha senso ma ci si sente in dovere di esercitare almeno quel minuscolo margine di libertà. Non c’è clemenza nella Grande Storia di questo libro, ma mai uno Jashi vi darà l’impressione di volersi arrendere, di aver raggiunto la meta di una lunga ricerca. In bocca al lupo, Brilka. A voi, se vi capiterà di voler leggere L’ottava vita, non servono formule benauguranti. Fa già tutto Haratischwili, con l’Est che ha conosciuto e con l’Est che ha scelto di restituirci.

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.