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Non so se è merito di Gala Maria Follaco – che ha tradotto con un afflato di umanità che quasi mai trovo nella narrativa giapponese relativamente recente – o se è tutta roba di Fumio Yamamoto ma COLPO DI SCENA ho apprezzato I dilemmi delle donne che lavorano.
Neri Pozza ha recentemente traghettato in Italia questa raccolta di cinque racconti uscita in origine nel 2000 in Giappone e che parla, per farla brevissima, di donne variamente incastrate. In una società fondata su ruoli rigidi e in cui la dignità personale passa soprattutto dalla produttività, Yamamoto esplora un limbo di disallineamento e di difficile convivenza con le norme condivise del decoro e dell’ordine. Lo fa mettendosi di traverso nei due contesti “istituzionali” di base: la coppia e il lavoro.

Ci sono donne giovani che dopo una malattia non hanno voglia di fare proprio niente, donne di mezza età che per far quadrare i conti si occupano della famiglia ma pigliano anche i turni di notte al kombini, donne libere e vagabonde che si fanno mantenere, ex donne in carriera che perdendo il marito perdono anche l’aziendina avviata insieme e ragazze che vorrebbero sposarsi solo per sottrarsi al controllo del proprio padre ma hanno un fidanzato “inadeguato” che non finisce mai il dottorato.

Che cosa sono o che cosa sono diventate tutte queste donne? Per il contesto a cui appartengono sono strambe aberrazioni, simboli di fallimento, spreco o imperdonabile pigrizia. Rompono equilibri codificati – sia lavorando che rifiutandosi di farlo – e manifestano desideri che nessuno sa bene come inquadrare. Che siano divorziate, spose riluttanti, madri ignorate o dirigenti arenate, tutte disattendono le aspettative, fanno troppo o troppo poco, imparano da capo a chiedersi per cosa vale davvero la pena affannarsi. Quanto spazio si libera, quando non ci si incarica più di oliare gli ingranaggi di un mondo che non ti vede ma che ha bisogno di tenerti in riga? Non finiscono, questi racconti, non producono GRANDI MESSAGGI – per fortuna, pure – ma ci offrono un buon punto d’osservazione sulla ricerca, faticosa, di uno spazio in cui sentirsi delle persone e non solo delle funzioni.

Per far funzionare Destinazione errata di Domenico Starnone – in libreria per Einaudi – bisogna stabilire all’istante che il protagonista è un poveretto. Se partiamo da quel presupposto lì, se decidiamo che lui è un mollusco, un pavido, un inetto e anche un viscido opportunista si può procedere, altrimenti è un po’ complicato seguirlo e credere in questo inspiegabile harakiri sentimentale.

Cosa succede. Il poveretto in questione fa lo sceneggiatore e lavora in prevalenza con questa Claudia a una serie che s’è inventata lei. Invece di scrivere “ti amo” alla moglie – intelligente, in carriera, bellissima – lo scrive per sbaglio a Claudia e Claudia gli risponde subito una roba tipo “finalmente ti sei deciso!”. Ciò basta a sprofondarlo in un vasto panico esistenziale.
Non sappiamo cosa Claudia ci trovi, in questo qui, ma a quanto pare lo ama in silenzio da un pezzo. Anche lei è sposata e dotata di prole. Lui, che di figli ne ha tre e che adora sua moglie – ricambiatissimo – e gode dell’ammirazione che la sua famiglia visibilmente perfetta suscita negli altri, non ha manco mai percepito Claudia come un potenziale oggetto del desiderio, ma tanto basta. Lei lo lusinga con questa confessione e lui, anche se non l’ha praticamente mai guardata in faccia e nemmeno si ricorda di che colore ha i capelli, decide che non può ferirla dicendole “scusa Claudia ho sbagliato a pigiare non era per te quel ti amo lì”. Visto che la semplice verità tende a spezzare le tibie alle storie, questo tentativo d’avventura extraconiugale viene sviscerato nel libro nell’arco di un’impervia settimana.

Due sventurati. Sia presi singolarmente che assieme. Claudia è sventurata anche affiancata al marito, si insinua lentamente nel corso della narrazione, ma lui no – ci pensa da solo. Quanto può tediarci la felicità per andare a incistarci in una situazione così mesta? Ma che ci frega di limonare nei portoni, a quasi quarant’anni, imponendoci pure una passione che non è mai esistita e che rantola per tirare la testa fuori da un oceano di Lego Duplo?
L’aspetto innovativo, qua, è che si rovescia una verità istintiva ben radicata: il corteggiamento è romantico, il corteggiamento è pieno d’emozione e di passione travolgente che spazza via la ragione e t’invade la vita. Il corteggiamento è quel momento che si racconta perché mai più forse ci si amerà con così tanta foga e sprezzo del pericolo. Starnone ce l’ha presente, questa faccenda, ma alza la mano per dire no, non sotto la mia giurisdizione. Guarda che tristezza, che meschini problemi pratici, che pulsioni fiacche. Non è un romanzo sulle corna o una storia di relazioni, è speculative-fiction con due persone in crisi di mezza età al posto di alieni, civiltà al collasso e androidi senzienti. Il cuore di questo libro non sta nel pretesto narrativo del messaggio spedito alla persona sbagliata, ma sta forse nella rappresentazione di un corteggiamento brutto, nato da una noia millenaria e da uno struggente complesso d’inferiorità – mi dedico a Claudia, che pare aver davvero bisogno di me. Occorre essere disperati davvero – o troppo felici – per sperare di dare uno scrollone alla propria vita con una storia d’amore così. E lui, che ha l’unico talento di complicare il semplice, meriterebbe una sediata sui denti meno obliqua di quella che gli offre Starnone. Resta il santo patrono delle corna? Sì, ma dovendo scegliere continuo a tifare per Lacci.

Gli antropologi di Ayşegül Savaş – tradotto da Gioia Guerzoni per Gramma di Feltrinelli – non fornisce connotazioni geografiche precise. Non si sa dove vivono, Asya e Manu, e non sappiamo nemmeno da dove arrivano. Quel che conta sono le distanze.
Lei fa la documentarista, lui lavora in una no-profit. Stanno insieme dai tempi dell’università e non condividono una lingua madre comune, perché anche fra di loro esisteva, in partenza, una distanza.
Si amano, hanno scelto una città ed è lì che vorrebbero mettere radici – cominciando magari col mollare l’appartamento in affitto per comprarne uno che somigli di più a chi sono diventati. Una decisione pratica, ma anche molto simbolica: siamo lontani da “casa” da anni, ma nulla di questo paese nuovo ci appartiene ancora. Cosa ci succederà quando potremo dire che il posto dove abitiamo è “nostro” – mutuo permettendo? Vuol dire che indietro non torneremo mai?

Che esista un oceano a separarvi dalla vostra casa d’origine o che vi troviate a un’ora di macchina dal quel che c’è ancora della vostra famiglia, Asya e Manu concretizzeranno col loro piccolo mondo tante delle emozioni contraddittorie che accompagnano la lontananza. Oscillano tra il bastarsi – con i rituali soddisfacenti di una quotidianità ordinata – e la ricerca di nuove connessioni. Hanno un caro amico, l’unico, expat anche lui, con cui cincischiano serenamente in uno spazio urbano che li include ma li fa comunque sentire sempre estranei. Ricevono aggiornamenti su nonne anziane, fratelli e nipoti che non vedono invecchiare o crescere con l’assiduità della presenza costante e si sentono sia sollevati che progressivamente sempre più disancorati. Accolgono le rare visite dei genitori e ne escono sfibrati, perché si sentono in dovere di rassicurarli sul fatto che sì, stanno bene, ma non vogliono nemmeno che se ne vadano pensando che stanno molto meglio lì, senza di loro. Si sentono in colpa perché non possono precipitarsi all’ospedale se qualcuno sta male ma sono anche consapevoli del benessere che ricavano da quel presente che hanno saputo costruire in piena autonomia. Devo continuare? Ci siamo capiti. Che siano 75km o che ci voglia un volo intercontinentale, questo è.

Di etnie e popoli non si parla in questo romanzo, perché siamo nell’ambito di una migrazione “privilegiata” e la scelta, anche, è quella di indagare il concetto universale di legame di famiglia. Se Savaş inserisse nel quadro una specificità geografica, la storia finirebbe probabilmente per arenarsi in un ginepraio di potenziali fraintendimenti. Non si vuole commentare come si sta in un certo paese, arrivandoci da expat, o stabilire confronti tra la società di partenza e quella d’arrivo. Si fa dell’altro – e lo si fa con struggente e delicata precisione, pur mantenendo dei contorni sfumati. 
Il percorso di distacco e di creazione di un nucleo nuovo di affetti e punti di riferimento rompe gli equilibri, deforma il tempo e mette in discussione l’idea stessa di “casa”. Asya e Manu sono un microcosmo autosufficiente, ma sono solidi abbastanza da potersi permettere qualche ambizione. Vogliono pensare al domani, continuare a costruire qualcosa lì dove si trovano, ma sono anche avviluppati in una malinconia che li obbliga a non guardarsi indietro con leggerezza. Gli altri sono rimasti, perché noi non ci siamo riusciti? Ci incoraggiano e parlano di noi con orgoglio, ma non sarebbero più contenti se vivessimo al piano di sotto? Nemmeno un nipotino volete farci? Certo, lo vedremmo crescere come vedete invecchiare noi, da lontano, ma è comunque meglio del vuoto che avete lasciato. Non vi stiamo rimproverando, lo diciamo perché vi vogliamo bene…

Asya e Manu, insomma, sono sia disancorati che pronti a mettere radici in un terreno d’elezione e questo stato di sospensione li fa sentire trasparenti, ancora di passaggio. Osservano attentamente, prendono le misure – alle case che visitano come alle persone che incontrano. E studiano quel mondo nuovo come una minuscola squadra di rigorosissimi antropologi.
Che bel magoncino, signora mia. 

Cos’è, questo Rifiuto di Tony Tulathimutte – uscito qui da noi per e/o con la traduzione di Vincenzo Latronico?
È un romanzo di racconti, più una meta-appendice finale in cui l’autore si fa rifiutare il libro da una casa editrice. Le storie stanno in piedi pure da sole, ma contengono personaggi e rimandi che appaiono anche nelle altre.

Mondo?
È sia il nostro che quello incistatissimo e ultra-tribale delle comunità digitali. Ci trovate il dating (più o meno) online, il porno, i videogiochi, gli incel con le spalle strette, i tech-bro startuppari fanatici, i collettivi universitari che decostruiscono e problematizzano anche un toast al formaggio, i maschi che si considerano più femministi delle femministe, i segaioli stravolti, la gente che decide di non avere un’identità e se ne crea così tante sui social da trasformarsi in un mito o in una cospirazione, le ragazze sole che si aggrappano a uomini che se le fiondano una volta e poi dicono “cavolo, hai frainteso, ci tengo troppo alla nostra amicizia”.
Sono tutte persone incastrate e storte che si sentono troppo bizzarre per trovare una nicchia di vera appartenenza e che, allo stesso tempo, non desiderano quella solitudine e non l’hanno chiesta. Sono certe di essere impossibili da amare o da capire, di essere troppo o troppo poco e si rifugiano in un vittimismo paradossale che è talmente egoriferito e “chiuso” da smentire il loro desiderio di base – trovare qualcuno che le veda, che le capisca, che se le pigli e le faccia sentire normali, una buona volta. Al “povera/o me” s’attacca tutto il discorso dell’identità, che Tulathimutte spezzetta in un gran sistema solare di auto-marginalizzazioni e di traumi specifici, sbandierati per accumulare ancora più punti-compassione e non per combattere le iniquità – reali e zeppe di implicazioni – con la forza di un collettivo. Che altro avrebbero, altrimenti?

Che c’entrano gli spazi digitali? Parecchio, perché se nel mondo “reale” e in mezzo alla gente si appare all’istante alieni e inadeguati, invasati con roba che non conosce nessuno o cronicamente sfigati e soli, online si può fare a meno del corpo, si possono mediare le interazioni per farle diventare gestibili, si può ripartire da zero – mascherandosi da altro – e spremere dopamina dai cuori che arrivano. Ci si rappresenta e ci si racconta, si separano gli ambienti per fare in modo che almeno uno diventi vivibile, ma ci si può ingannare fino a un certo punto – perché il corpo, volenti o nolenti, c’è. 
Sono anche posti in cui la rabbia trova una destinazione e viene nobilitata dalla ricostruzione di una rete di punti di riferimento – questo contesto ha rigettato anche te? Perfetto, vieni qua che siamo già parecchi e, a ben pensarci, forse abbiamo ragione noi. Nessuno è felice della sua condizione, ma non è un patimento passivo e arrendevole: contiene sempre la convinzione – più o meno ben riposta – di aver subito un’imperdonabile ingiustizia.
Qua dentro c’è molto sesso, ci sono kink considerati irricevibili dagli stessi personaggi che quelle pulsioni le provano, ci sono fantasie che si dilatano fino all’assurdo più totale e c’è roba obiettivamente schifosa che, per accumulazione estremamente fantasiosa, trasforma il libro in una succursale di Rotten che, oltre al corpo, comprende anche le relazioni umane.

Il linguaggio?
Ha tradotto Latronico e, anche senza aver visto il materiale di partenza, quel che ha dovuto gestire non è solo l’inglese, ma anche un’abbondanza di gerghi specialistici da subculture del web, il miscuglio di slang e brevità delle chat “chiuse”, l’aziendalese, il motivazionalese e lo spogliatoiese. Non sono certissima che qua dentro si batta il record mondiale dell’utilizzo del termine “sborra”, ma qualche soldo ce lo metterei. Dev’essere stato un lavoraccio e molte decisioni gestionali si sono visibilmente rese necessarie, ma fila via in una maniera che in italiano suona plausibile.

Non so quanto senso abbia – dato il tema e il passo del libro – star qua a proporre dei trigger-warning ma, se siete di costituzione delicata e cercate storie confortevoli ed edificanti, non credo che vi convenga molto tentare. 
Per tutti gli altri, Rifiuto è doomscrolling a forma di romanzo. Fa ridere, fa vomitare, fa impressione (sia per inventiva che per schifo e arguzia), fa satira, esaspera profondamente, ipnotizza come un incidente stradale e non somiglia a niente. Non vuoi neanche immaginartela della gente del genere, ma vuoi andare avanti a leggere. È un libro strutturato in modo da farvi sentire, sviscerare e trovare problematiche, disoneste e strumentali tutte le campane. Quel che le accomuna è che suonano irrimediabilmente a morto e il funerale potrebbe diventare il nostro – sempre che non lo sia già.

 

Reduce da Tutto è meraviglia di Ann Napolitano e con il Piccoledonnometro già in modalità NON DI NUOVO VI SCONGIURO ho affrontato con titubanza e una certa diffidenza il secondo romanzo di Coco Mellorsil primo, Cleopatra e Frankenstein, mi era complessivamente garbato e ne potete leggere qui, senza la partecipazione di Jacob Elordi o di Guillermo del Toro. Napolitano, bisogna dirlo, è arrivata con un annetto d’anticipo e di questo Coco Mellors non ha colpa. I due romanzi, in fin dei conti, hanno in comune solo la presenza di quattro sorelle protagoniste e, nel caso di Blue Sisters – in italiano lo troviamo sempre da Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, non c’è nemmeno l’intento di incistarsi nelle caratterizzazioni di Piccole donne per creare dei personaggi contemporanei che sembrano condannati dall’infanzia a rimanere incatenati a una specie di vocazione monolitica. Insomma, è un paragone che non ha senso ma che per istinto m’è venuto da fare.

Rogne mie a parte, le sorelle Blue di Mellors – che fanno così di cognome ma sono anche caratterialmente un po’ “blue”, tristi e angustiate – raccolgono a vario titolo uno spiccato talento dinastico per le dipendenze, pur riuscendo mediamente a eccellere in campi molto disparati. 
La prima fa l’avvocata corporate a Londra, s’è sposata felicemente con la sua terapista, è piena di soldi, è sobria da 10 anni e si è lasciata alle spalle un periodo turbolento trascorso in California a farsi le pere.
La seconda faceva la pugile e ha vinto i mondiali.
La terza era un cuore d’oro ma è morta d’overdose da oppiacei tagliati male che prendeva per tenere a bada l’endometriosi.
La quarta ha iniziato a 15 anni a fare la top model.

Cosa succede? Le ritroviamo tutte, sparpagliate e sconvolte per il mondo, un anno dopo la sfortunata dipartita di Nicky. Devono gestire il lutto, la disgregazione definitiva di una famiglia che non ha mai potuto contare su una guida genitoriale solida e le difficoltà che singolarmente le affliggono. La madre, dal niente, informa le sorelle superstiti che intende vendere l’appartamento a Manhattan in cui sono cresciute e dove Nicky è morta. Chi può vada a sbaraccare. Ed è lì che si rivedranno per creare un sistema gravitazionale nuovo. Con immane fatica e numerosi rosponi da sputare.

Sfida un po’ la nostra disponibilità a consegnarci al romanzesco, questa tripletta di successi fuori scala. Per quanto Mellors le azzoppi con droghe, alcolismo e fanatismi sportivi – che fanno del dolore un’altra sostanza che ti risucchia – le Blue sono fin troppo speciali, credo. Dovrebbero essere le dipendenze, che colpiscono indiscriminatamente, a farle tornare sulla terra e a renderle degli esseri umani che possiamo percepire come autentici, ma non per tutte funziona e spesso è l’artificio che prevale.
Mellors ha una sua parabola personale di conquista della sobrietà e non possiamo che gioirne per lei. Qui dentro, il tema si infiltra ovunque e ci trasmette a pieno la potenza di un’ossessione e di una sfida fisica e mentale. Se, da una parte, mi rendo conto che una persona possa finire per diventare la sua dipendenza, dall’altra si fatica a sentirlo reiterare più o meno allo stesso modo per la maggioranza schiacciante delle figure che partecipano a una storia.
Resta però bello sentir parlare i personaggi, è splendido sentirli litigare. Non ho idea di come sia avere una sorella, ma è in quel legame elettrico e negli equilibri sempre fluttuanti del “gruppo Blue” che il libro trova la sua anima e un passo vivo, sincero. Quando Mellors permette a tutte di dimenticare cos’hanno buttato giù, chi fanno finta di essere, quali successoni mirabolanti hanno raggiunto. È lì che ci credi e che le vedi. Non perché ti devi immedesimare, ma perché somigliano a delle persone smarrite. E nel vuoto si prova sempre ad allungare una mano.

Niente, non mi sono accorta in tempo che prima di Long Island – in libreria per Einaudi con la traduzione di Giovanna Granato – c’era Brooklyn, sempre di Colm Tóibín, e sono partita con il sobborgo sbagliato ma, se proprio mi impegno e provo a far tesoro di questa svista, posso rivelarvi in serenità che sta in piedi anche per conto suo. Saranno gli amori che si sviluppano su strane strutture poligonali, probabilmente: partono sbilenchi, che sarà mai approcciarli a metà strada.

Il problema che qua si palesa all’istante è un signore incollerito che suona alla porta di casa per informare Eilis Lacey che lui, fra nove mesi, le scaricherà sullo zerbino un neonato. O una neonata, quel che è. A lui in ogni caso non interessa, perché non è roba sua. La moglie gravida sì, ma il padre della futura creatura è il marito di Eilis, idraulico italoamericano che in casa loro doveva aver trovato parecchio da fare. Eilis cade dal pero e, fra lo sbalordimento e una quieta collera, informa l’invadentissimo clan di Tony che non ha la minima intenzione di occuparsi della prole illegittima altrui. Lei i suoi figli li ha già cresciuti e per quell’amore ha già sacrificato radici e accumulato rimpianti. Anzi, sai che c’è? Visto che nessuno mi tratta come un essere umano degno d’ascolto o di rispetto io torno per un po’ a casa mia in Irlanda, che mia madre e mio fratello son due decenni che mi vedono solo in foto.

Al paesello d’origine, Eilis ritrova dinamiche che sembrano cristallizzate nel tempo, ma scopre anche che il mondo non sta di certo lì ad aspettarti. L’unico che, per quanto può saperne lei, non ha messo su casa ma si è limitato a gestire con successo un pub, è Jim, l’uomo che in gioventù l’aveva quasi convinta a non attraversare l’oceano per costruirsi una vita con Tony. 
Mi avrà dimenticata? Che effetto mi farà rivederlo? Ma possibile che sia ancora scapolo? E cosa diamine ci fa la mia antica migliore amica a gestire una friggitoria fetente? È troppo tardi per pensare che si possa ricominciare?

Tóibín imbastisce un polpettone sentimentale da manuale, lasciandosi sostenere anche dal fascino “vintage” dell’epopea dell’emigrazione, con nostalgie, distanze siderali che gridano NON TI PERDERÒ ANCORA e frizioni inevitabili tra luoghi d’origine e luoghi che si scelgono con grandi atti di fede ma che, forse, ci rigetteranno sempre. Le macchinazioni del cuore restano però ingovernabili e quel che di interessante c’è qui è l’innesto dell’amore in una realtà che si considera già consolidata, chiusa, definitiva. Tutti e tutte hanno un percorso, molto da perdere e un rigoglioso giardino di illusioni da coltivare, oltre a un ramificato sistema di responsabilità da amministrare. Il fatto che Tóibín non metta nessuno in una posizione “facile” e che non permetta a nessun cuore di straripare e di crederci troppo regala al romanzo una cruda franchezza che ci fa deporre i bandieroni del tifo in favore di interrogativi ben più tremendi e ricchi: ma io….. che cosa farei? Quanto stupida mi sentirei? Sto amando una persona reale o l’idea di possibilità che ancora riesce a farmi intravedere? Perché ci ostiniamo? Perché facciamo finta di non capire?
A peggiorare le cose, per i personaggi, c’è l’abile gestione di Tóibín delle asimmetrie informative: in un piccolo paese dove per strada ti fanno la radiografia, il sotterfugio è una scorciatoia per il quieto vivere, ma anche una comodissima e ragionevole scusa per non affrontare mai la realtà. Noi, leggendo, sappiamo e vediamo tutto… e possiamo scuotere il capo con una saggezza che mille volte avremmo voluto sfoggiare nella vita vera. Cosa combiniamo, invece? Dei gran casini. Come Eilis, Tony, Jim e la volenterosa vedova che frigge. Forse, sperando, si sbaglia sempre. Ma è in quei traballanti spiragli che combattiamo davvero per la felicità.

[Long Island si può serenamente leggere, ma lo trovate in versione audio anche su Storytel.]

Credo che il target di (Non) disponibile di Madeleine Gray – in libreria per Mondadori con la traduzione di Alessandra Castellazzi – sia la gente che va a impelagarsi in relazioni extraconiugali di rara mestizia. Ma di quelle proprio con pesanti asimmetrie informative, numerose e continue promesse, illusioni a grappolo, perdita della dignità, vergogna diffusa, sotterfugi, codardia… è tutto troppo spiacevole per non ispirarci moti di crudeltà meschina mista a perentori MA SVEGLIATI TIRATI INSIEME DAI PER LA MISERIA strillati al libro.
Che nella vita abbiate o meno ricoperto il ruolo di amante o tenuto in piedi una tresca clandestina, Hera vi farà imbestialire. E no, non sto producendo spoiler perché è già tutto in bandella.

Che succede, a grandi linee?
Una ragazza totalmente impantanata – vuoi per contesto e tare generazionali, vuoi per personalissimi inghippi irrisolti – trova finalmente lavoro in un’agenzia/redazione e, pur volendosi appendere al lampadario per il tedio professional-esistenziale che prova, conosce un collega più grande di lei e gli appalta il suo cuore, il suo futuro, ogni ambizione di felicità e una porzione significativa della sua anima. Lui, flagellandosi a ripetizione e caricandola pure dei sensi di colpa che un vertebrato come si deve eviterebbe di delegare, ci sta.
Ma ha una moglie.
Quanto è probabile che la lasci?

Vorremmo rimuovere a colpi di scarpone da sci le fette di Parmacotto – *noadv* – che foderano gli occhi di Hera, ma poterla osservare scuotendo il capo e mormorando POVERACCIA GUARDA CHE ROBA è una paradossale forma di consolazione.
Se siamo state delle zerbine anche noi – come è probabile – proveremo solidarietà e sollievo, sentendoci anche delle divinità saggissime PERCHÉ ADESSO NON MI SI FREGA PIÙ BASTA È FINITA HO CAPITO. Se siamo immerse fino al collo nelle ruvide setole dello zerbino che siamo diventate, invece, Hera potrebbe risultare d’ispirazione e indicarci le uscite di sicurezza.
Non so se invitarvi o no a seguire il sentiero luminoso, perché la prolungata disfatta di una mia simile non mi rallegra, come mai ho ricavato sollazzo o lezioni preziose dai miei, di magoni. Non ho voglia di provare pena per Hera, così come non vorrei mai ispirare pietà. Ma è anche vero che ci si arrabbia e si “partecipa” se una storia ci fornisce il materiale adatto per farlo – e Hera, nostro malgrado, qualcosa riesce a dirci. Anche se vorremmo turarci le orecchie. 

Devo ammettere che il mio preferito resta Lacci, ma nel filone delle spigolosità relazionali esplorato in questi anni da Domenico Starnone si casca tendenzialmente sempre bene, perché i sentimenti che disseziona non sono mai piatti e fiabeschi, ma somigliano di più a un garbuglio sotterraneo che si nutre di buone intenzioni per poi sconfinare nell’imperfezione.
Confidenza è la storia di un legame – tra un magnetico professore e una sua ex allieva – che sopravvive grazie alla condivisione di due segreti inconfessabili. Tu dici a me (e solo a me) la cosa peggiore che hai fatto e io dico a te (e solo a te) la cosa peggiore che ho fatto. Rimarremo insieme – o almeno così crediamo – perché entrambi custodiamo il brutto dell’altro e rivelare quel che sappiamo ci distruggerebbe.
Sapere tutto di chi amiamo è auspicabile e opportuno o è un lusso che è meglio non concedersi? Teresa e Pietro si faranno carico per noi del temibile esperimento e, mentre le loro vite (amorose, creative e lavorative) continueranno a fare il loro corso, il patto terribile che hanno stretto diventerà il ritratto che li attende in agguato in soffitta, la grande paura che li sorveglia come una sentinella.
Tra piccolezze quotidiane, famiglie che nascono, egoismi e nuovi incontri, Confidenza disegna la mappa di quel nucleo sommerso che alimenta l’amore e che può trasformarci nella versione peggiore (o migliore, a seconda dei compromessi che scegliamo di accettare) di noi.

Non so se riuscirò mai a ricordarmi nell’ordine giusto le creature che popolano il titolo di questo illustrato tenererrimo di CharlieMackesy – uscito per Salani con la traduzione di Giuseppe Iacobaci –, ma quello che posso affermare per certo è che a esplorare il mondo ci sono un bambino che un po’ teme la solitudine, una talpa fiduciosa e tondeggiante che può contenere quantità industriali di torta, una volpe di poche parole che impara pian piano a mettere da parte le sue diffidenze e un cavallo saggio che si finge meno magico di quello che è. Vanno a zonzo insieme, si palleggiano con semplicità e grazia grandi dubbi esistenziali, chiedono aiuto quando ce n’è bisogno e, soprattutto, ci raccontano l’amicizia con un candore che squaglia il cuore e lascia aperto uno spiraglio di speranza, nonostante si stenti spesso ad accogliere le proprie fatiche e a concedere agli altri un po’ di fiducia. Anche i grandi hanno bisogno di sentirsi dire che andrà tutto bene? Secondo me sì. E pure piuttosto di frequente. È un libro? Di sicuro. Ma è anche un fuocherello capace di confortare – a ogni età. 

Ho la pessima abitudine di considerare i libri che mi capita di presentare o di cui mi capita di discutere in pubblico come già affrontati, raccontati e sviscerati. Il risultato è che qua sopra non ne rimane traccia, anche se sarebbe meglio poterli ritrovare come diligentemente accade per tutti gli altri, che non hanno beneficiato di eventi o incontri specifici. Sto migliorando, però – e Rachel Cusk mi è testimone, insieme a questo propizio approfondimento.

Di Intermezzo, il quarto romanzo di Sally Rooney, si discute da mesi con l’ormai consueta esuberanza. Uscito in settembre in inglese e il 12 novembre per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Norman Gobetti, Intermezzo è stato per me un graditissimo ritorno della Rooney “migliore” e, per certi versi, anche il debutto di una versione stilisticamente aggiornata dell’autrice. Se ripenso agli esperimenti di Dove sei, mondo bello mi viene il nervoso – chi non manda e-mail di dieci cartelle alle proprie amiche per discutere del declino della civiltà occidentale? Magari voi sì, ma a me era sembrata una soluzione estremamente posticcia e pretenziosa – e la grande speranza era di non ritrovarmi per le mani un nuovo romanzo che proseguiva tenace per quella china. Mi piace e mi è sempre piaciuto leggere Rooney per la capacità che ha di collocare le relazioni nel mondo, di esplorare gli spigoli della comunicazione fra gli esseri umani, di riprodurre i garbugli dell’identità e delle idee lungo il confine tra percezione “interna” e confronto con la realtà – e lì dentro ci finisce anche la politica, area d’azione da cui Rooney non si è mai sottratta, anzi. L’uscita di Intermezzo è stata massicciamente accompagnata da librerie che restano aperte di notte – spesso con veri e propri takeover degli spazi commerciali -, gadget, distribuzione anticipata di ambiti scatolotti a una ferrea lista di personalità rilevanti, gruppi di lettura e aggregazioni di varia e multiforme entità. La si aspettava con trepidazione, Sally Rooney… un po’ al varco, anche. E non credo proprio abbia deluso.

In Intermezzo il punto di vista è sdoppiato e parallelo e Rooney lo affida a due fratelli – Peter e Ivan. Il romanzo si apre con la morte del loro papà dopo una lunga malattia e tallona i due durante il periodo di “assestamento” che fa seguito a questo evento campale, doloroso e profondamente destabilizzante. Peter ha superato i trenta e fa l’avvocato a Dublino. Ivan ha una decina d’anni meno ed è stato un prodigio degli scacchi, disciplina in cui spera di poter tornare a primeggiare. Peter è un animale sociale di successo, Ivan legge meglio la scacchiera delle persone. Peter è bello e balla, Ivan è bello ma non balla per niente, per metterla giù in maniera un po’ triviale ma diretta. Peter ha avuto una lunga storia con una donna soave e intelligentissima, che è rimasta nella sua vita e nella sua testa come inscalfibile precedente di perfezione, mentre Ivan non ha ancora collezionato un numero ragguardevole di esperienze, anzi. Entrambi, nel loro periodo di “intermezzo” tra la vita che hanno conosciuto e quella che devono ricostruire dopo il lutto, attraversano disastri, nuovi incontri, nuovi specchi in cui provare a riconoscersi o a sputarsi in faccia. Così, tanto per infarinarvi e fornire un piccolo quadro della situazione.

Rooney ha raccontato di aver cominciato il romanzo in una fase di profonda vicinanza con l’Ulisse di Joyce. E si sente. Se siamo stati più abituati a considerarla un’autrice che con le parole non produce prodezze particolarmente funamboliche ma un’autrice che si legge perché può intrigarci come fa pensare e come fa interagire i personaggi, in Intermezzo succede qualcosa in più. La pagina somiglia alla testa dei personaggi e, qui, ci sono due teste che funzionano in maniera peculiare e distinta – e, a tratti, smettono proprio di funzionare e si avvitano in spirali di disordine e reazioni viscerali. Insomma, trovarsi per le mani (soprattutto) Peter è un’esperienza nuova e molto ricca. Lì per lì può spiazzare, ma seguitelo anche quando barcolla.

Di amore, intimità, sesso, disperazioni, passi in avanti stilistici, dinamiche relazionali, differenze d’età, SANTI NUMI COSA NE PENSERÀ LA GENTE, Irlanda centrale e periferica, morale cattolica, senso di colpa, famiglia, pochi scacchi e molto altro abbiamo discusso anche in Mondadori Duomo qua a Milano il giorno dell’uscita di Intermezzo. Nella chiacchierata trovate Stefano Jugo di Einaudi a moderare – perché non contento di avermi avuta come vicina di scrivania per qualche anno capita che mi rievochi come un Pokémon leggendario -, Ilenia Zodiaco e Carlotta Sanzogni. Eccoci qua per un’oretta: