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Persone normali

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Ma se questa è la lista BIS, vuol dire che ce n’era già un’altra?
Esatto. La trovate qua.
E benvenuti all’expansion-pack per riempire le vostre sportine – regolarmente di tela e recanti messaggi arguti – con qualche tascabile Einaudi uscito più di recente o sfuggito alle maglie sempre approssimative della mia memoria. L’intento, qua come nella lista precedente, non è quello di compilare l’elenco dei classici che non possono mancare nella vostra libreria – chi sono, Umberto Eco? – ma di frugare qua e là per segnalarvi avventure letterarie eterogenee che per me si sono rivelate preziose. Ho scoperto che quest’anno in sconto non vanno (per legge, pare) le novità dell’ultimo semestre, ma con l’idea di rendere questo post una risorsa duratura, segnalo comunque.
Procedo con sintetica efficienza. O almeno ci provo.

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Da dove parto, se voglio leggere “qualcosa di femminista”? Le risposte possono essere numerose, ma di certo Adichie è un buon trampolino. Dovremmo essere tutti femministi è sempre gagliardamente disponibile nelle Vele in versione integrale, ma c’è anche questa edizione condensata, illustrata da Bianca Bagnarelli e pensata – se vogliamo dar retta alla bandella – per un pubblico di giovani virgulte e virgulti.
Sempre all’interno di questo filone, negli ET trovate anche Cara Ijeawele.

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Dunque, il titolo dice Portatile, ma sono comunque 800 pagine. Non credo bastino in ogni caso a contenere David Foster Wallace, ma è un’antologia che nasce con l’ambizione di pescare quello che di più emblematico, “riconoscibile” e accessibile si possa leggere di suo, per avvicinarsi a quello che ha prodotto riducendo il comprensibile disorientamento che potrebbe assalirci. Ci sono stralci estrapolati dai suoi romanzi, interventi di saggistica, racconti e materiale più didattico.

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In attesa di leggere il romanzo nuovo – che dovrebbe uscire in autunno in inglese, se non ricordo male o se non sono troppo ottimista – negli ET Scrittori sono già approdati entrambi i suoi libri, Parlarne tra amiciPersone normali.
Vi rimando al post su Persone normali, che fra i due resta il mio preferito.

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Dopo Le otto montagne sono ormai diventata una fedele fruitrice del Cognetti montanaro. Se Cognetti va in montagna io sono contenta, serena, pacificata. Qua, insieme a una nutrita schiera di guide e con due cari amici (più lo spettro dell’inafferrabile leopardo delle nevi, svariati asini e un blocco da disegno), decide di celebrare il traguardo dei quarant’anni facendosi 300 km a piedi per il Tibet himalayano. Tiè.

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Non di solo Murakami si anima il Giappone libresco, ma anche dei tormenti dei personaggi di Kawabata – che s’è meritato anche un Nobel -, in bilico tra i codici sublimi dell’arte e il torbido delle passioni silenziose. Per approfondire, anche se abita nelle Letture, ci sono anche i racconti di Prima neve sul Fuji.

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Visto che ci siamo addentrati in territorio giapponese, chiamerei in causa anche Kazuo Ishiguro, che però non è solito ambientare lì le sue storie. Un artista del mondo fluttuante è un’eccezione, è il suo “romanzo giapponese”. Il protagonista è un anziano e illustre pittore che, al termine della Seconda Guerra Mondiale, si vede progressivamente ostracizzato per il suo dichiarato e duraturo appoggio al regime imperialista.
Per Ishigurare ulteriormente vi rammento – a costo di ripetermi – anche Quel che resta del giornoIl gigante sepoltoUn pallido orizzonte di collineNon lasciarmi.

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Exit West credo sia l’unico romanzo che in questi anni mi sono sentita di etichettare – dall’alto della mia VASTA autorità, proprio – come necessario. “Necessario” è diventata la nuova formula magica per praticamente tutto, è un po’ il nuovo “un saggio che si legge come un romanzo”. Ecco, in questo caso è vero. È una storia d’amore e una storia di migrazioni, ma è sopra ogni altra cosa una storia che parla di esseri umani. Utilizza un espediente “fantastico” – quello delle porte che si aprono su luoghi lontani – per analizzare cosa succede nei cuori dei singoli e alle società in senso più ampio quando si scappa da casa propria per trovare salvezza da un’altra parte.

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Per quanto il personaggio di Elizabeth Strout più amato dalla collettività resti con ogni probabilità Olive Kitteridge, anche in Mi chiamo Lucy Barton ritroviamo quell’attenzione minuta ai moti dell’animo e quell’infilata emblematica di piccoli eventi quotidiani che messi tutti in fila tracciano la traiettoria di una vita. Qui abbiamo una madre e una figlia che si ritrovano dopo una voragine che si è spalancata tra loro. Cinque giorni e cinque notti di ricordi e rivelazioni finalmente “vere” in una stanza d’ospedale a Manhattan.

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Il mio è stato un recupero tardivo di Natalia Ginzburg. Ho riletto Lessico famigliare un paio d’anni fa – dopo averlo poco capito al liceo – e ci ho trovato dentro un tesoro a cui continuo ad aggiungere lingotti luccicanti man mano che proseguo con le sue raccolte di saggi brevi, articoli e chiacchiere – come Mai devi domandarmi – o con i suoi romanzi. Quello che mi rallegra molto è che per completare l’opera mi restano ancora un po’ di Natalie ancora da conoscere.

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Più che una raccolta di “reportage”, L’Italia spensierata è un’indagine sociologica sulle tappe obbligate dell’italiano-tipo. C’è Piccolo che visita scientificamente un Autogrill, che porta delle bambine a un parco di divertimenti, che va “a fare il pubblico” a Domenica In… Riti collettivi, sviscerati con arguzia, ai quali abbiamo giurato e spergiurato di non partecipare mai, anche se ci siamo già dentro con tutte le scarpe.

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Il figlio parte come un romanzo sulla Frontiera e si trasforma in una saga generazionale fatta di ideali traditi, ribellioni, compromessi sanguinosi, petrolio e macchie indelebili. Dai Comanche – che rapiscono il patriarca in tenera età – ai pozzi petroliferi del Texas Occidentale, Meyer ci consegna una galleria di personaggi risoluti e imperfetti, ma anche una porzione vividissima di storia americana.

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Saluti, cuorosità e buone letture. :3

Quest’anno avrò letto abbastanza? Certo che no. Anzi, non credo esista il concetto di “leggere abbastanza”. In qualche lingua dal potenziale combinatorio più potente dell’italiano penso ci sia un unico termine capace di definire il concetto di “mi prendo a calci nel sedere da sola perché vorrei leggere di più ma poi per una roba o per l’altra finisce sempre che mi sembra di aver letto di meno di quanto penso potrebbe essere utile, auspicabile e sensato per il mio sviluppo emotivo/culturale e pure per accrescere la mia capacità di comprendere il mondo circostante e gli altri esseri umani che lo abitano”.
Circa.
Insomma, non ho un termine… ma il sentimento è quello.
Prendendola più sportivamente, il 2019 è stato un anno di buoni libri e ottime scoperte. Questo sarà un post riepilogativo che non intende aggiungere un granché rispetto a quello che magari ho già raccontato in giro. È proprio un post per fare mente locale.
Ecco, dunque, i miei preferiti di quest’anno – son libri usciti anche prima? È possibile. Ma li mettiamo qua perché li ho letti nel 2019, non perché sono effettivamente usciti nel 2019.
Bene. Procedo in ordine sparso.

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Hanya Yanagihara, Una vita come tante

Se ben ci pensiamo, è un mistero. Perché abbiamo collettivamente amato così tanto un romanzo che fa stare così male? Linea agli psicologi all’ascolto.
Baggianate a parte, ecco qua il post che avevo scritto per cercare di incanalare meglio l’infinito strazio che Jude, Willem, Malcolm e JB sono riusciti a mettermi addosso: “Il gruppo di sostegno per Una vita come tante.

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Samanta Schweblin, Kentuki

Kentuki ha conquistato il Premio MACHEDIAV dell’anno. Metafora solo all’apparenza giocosa del nostro rapporto con la tecnologia, è una collezione di istantanee e di storie complicate che indagano, in realtà, la nostra capacità di stringere legami e di fare del male – soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi o possa richiamarci alle nostre responsabilità. Ho avuto ance il grande onore di presentare l’autrice qua a Milano e voglio ringraziare ancora Sur per la meravigliosa opportunità.
Ecco i pensierini che avevo prodotto:

“Kentuki” merita un posto di riguardo nel pantheon dei libri bizzarri. Più che a un romanzo, somiglia a un’indagine – per episodi più o meno collegati – che si dipana a partire da un’idea di fondo molto ricca ed emblematica. Funziona così. In un presente del tutto analogo al nostro, approdano sul mercato dei pupazzi interattivi. Conigli, gatti, draghi, corvi… non sono particolarmente belli o ben fatti, ma sono “telecomandabili” da remoto. La persona X si compra un pupazzo e la persona Y, da qualche parte nel mondo, compra una connessione e “diventa” il kentuki che abita da X, vedendo cosa fa X e inserendosi nella sua quotidianità, pur non potendo comunicare verbalmente. X e Y non possono nemmeno scegliersi a vicenda: il sistema ti assegna un pupazzo (e un “padrone”) in modo casuale e la connessione resiste finché il kentuki resta carico o finché una delle due parti non sceglie di interrompere il rapporto (smenandoci dei bei soldi, pure). Samanta Schweblin, a questo punto, ci porta a spasso per il globo, seguendo diverse coppie di padroni e utenti e osservando, insieme a noi, quello che accade quando un kentuki interviene a modificare i tuoi concetti di intimità, responsabilità, umanità, realtà. Il libro è un susseguirsi di incursioni in presa diretta che illuminano, man mano, diversi aspetti di un fenomeno degno di una puntata di Black Mirror – con una struttura narrativa anche assai simile, mi viene da dire. È un libro che potrebbe continuare potenzialmente all’inifinito, man mano che la mania dei kentuki si diffonde e si stratifica. Cosa diventiamo, quando ci sembra di poter governare (o di spiare, non visti e coperti dall’anonimato) la vita di un’altra persona? E perché mai quest’altra persona ce lo fa fare? Quanto profonda è, davvero, la nostra solitudine “strutturale”? Cosa possiamo scoprire di noi, riflettendo su come scegliamo di gestire la nostra libertà?

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Stefania Auci, I leoni di Sicilia

Quando un libro va primo in classifica – e ci rimane saldamente per un bel po’ – arrivano regolarmente i consueti “eh, ma lo leggono tutti… sarà una porcheria”. Ecco, vorrei mettere felicemente da parte lo snobismo editoriale per applaudire Stefania Auci e il capitolo inaugurale della saga dei Florio. È un romanzo che riesce a produrre un felice equilibrio tra “epica commerciale” e storie personali, storia d’Italia e sentimenti, lingua ben radicata nel contesto e scorrevolezza generale. Evviva!
P.S. La tentazione di pianificare un nuovo viaggio a Palermo per un Florio-tour è forte.
Ecco i pensierini.

Che vasta piacevolezza. Che bel polpettone – nel senso più onorevole del termine. Stefania Auci (documentandosi come una matta, presumo sapendo di non sbagliarmi) ricostruisce l’epopea economica e “sentimentale” della famiglia Florio, approdata a Palermo dalla Calabria per campare di commercio. Dal chinino al marsala, dallo zolfo ai pizzi, la dinastia Florio attraversa i grandi rimescolamenti storici dell’Ottocento con caparbia lungimiranza e indomito spirito d’iniziativa, facendo e disfacendo instancabilmente. Schifati dai nobili di sangue (ben più poveri di loro) e mai perdonati dai pari rango per il successo estrosamente ottenuto, i Florio si scrollano di dosso la muffa della prima bottega per trasformare tonnare in ville visionarie, cambiali in tesori, scommesse azzardate in solide eredità. È una narrazione vasta e vivace, che alterna amori e conflitti casalinghi a incursioni nel più ampio orizzonte dell’Italia pre-unitaria. La Sicilia è presente nella lingua – i dialoghi sono curatissimi – e ribolle di contraddizioni, splendori e magnifiche miserie. Le ossessioni dei Florio – e di Vincenzo in particolare, in questo primo volume – sono quelle di un mondo che rigenera faticosamente i propri ingranaggi, tra dovere, nostalgia, ambizione e sacrifici spesso cocenti. Che ne sarà dei Florio? Ci tocca aspettare con una certa impazienza il secondo volume.

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Alberto Madrigal, Pigiama computer biscotti

Quante volte avrò già consigliato questo libro? Duemila? Di più, forse.
La storia è quella di un neo-papà, ma ha parlato forte e chiaro anche a me. Sarà perché è un fumetto che riflette sulla creatività, sulla vita pratica da amministrare, sui nuovi inizi e sui bambini che nascono. Sarà che sono rimasta affascinata dalla sensibilità e dalla franchezza di Madrigal. Sarà che lavoro in pigiama pure io. Non lo so, ma in Pigiama computer biscotti c’è qualcosa di speciale. Ed è un gioiello che custodirò con cura.
Ecco qualche approfondimento:

Alberto Madrigal ha il raro dono di raccontare l’ansia senza fartela venire troppo. Non te la fa passare, intendiamoci, ma la sfuma e la scompone, ci pensa su insieme a te e la gestisce un pezzettino alla volta. In questo fumetto – che si costruisce sotto ai nostri occhi, perché dentro al fumetto c’è anche Madrigal che cerca di capire che fumetto fare – si parla di creatività, dei compromessi della vita adulta, di case che non si puliscono da sole, di traslochi – perché aiutiamo sempre tutti a traslocare e poi quando tocca a noi arrivano quattro gatti? -, di paternità, mal di testa inevitabili e colazioni al bar la domenica. È un magnifico distillato di quotidianità e dilemmi, di equilibri impossibili tra le esigenze della sopravvivenza e il lusso di poter perdere tempo. In questo libro c’è, soprattutto, la strada tortuosa che dobbiamo imboccare per riconciliarci con l’idea di responsabilità. C’è la frustrazione che spesso ci accompagna quando cerchiamo di far crescere un’idea che, spessissimo, si modifica sotto ai nostri occhi e cambia pelle quando pensiamo di averla ormai afferrata – un po’ come le abitudini dei bambini, che sono abitudini per due giorni e poi diventano altro e tu devi ricominciare da capo con tutti i tuoi processi di adattamento. C’è la routine che mangia le energie, ci sono quei due secondi limpidi di ispirazione e di gioia che ti convincono a non gettare via tutto – o magari sì. E c’è un bimbo che nasce e che, nel mondo nuovo che crea per te, attira nella sua orbita tutto quello che stai cercando di capire e te lo restituisce un po’ masticato e morbidino, ridimensionato ma anche spaventoso. Che vogliamo fare? Si procede. Inventando una pagina alla volta. Saggi e lievi, pacifici e preoccupati.

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Imogen Hermes Gowar, La sirena e Mrs Hancock

Che la mia vera vocazione siano i polpettoni storici? Chi può dirlo. La sirena è un’altra felice rivelazione di quest’anno. Me lo sono letto in inglese prima di scoprire che sarebbe uscito nei Supercoralli – quando succede mi sento sempre di un’intelligenza che non vi so descrivere – e ho apprezzato l’opulenza e la complessità della ricostruzione “ambientale” così come la deriva fantastica che finisce per insinuarsi come una nebbiolina ineluttabile nelle vite dei protagonisti. Dovrei sfoderarlo più spesso quando mi chiedono “uno di quei libri che riesce a portarti altrove”.
Ecco i pensierini originari:

Nella Londra georgiana di Imogen Hermes Gowar si aggirano almeno due meraviglie. Una sirena imbalsamata di una bruttezza sconcertante – sbarcata da un vascello della flotta di Jonah Hancock, mercante di mezza età abituato a commerci molto meno stravaganti – e la più fulgida cortigiana della capitale, da poco tornata in società dopo la morte di un amante facoltoso. Decisa a cavarsela da sola, Angelica riapparirà nel bordello di lussuosissimo (dove ha militato per anni) come ospite d’onore di una festa a dir poco elaborata. Ed è lì che le due meraviglie – una un po’ più gradevole a vedersi dell’altra, a dire il vero – si incontreranno, con grande stravolgimento del signor Hancock. Mi vuoi, mercante goffo e bruttarello? Dovrai consegnarmi una sirena tutta per me! E il signor Hancock non se lo farà ripetere due volte…
Trama a parte, questo romanzo d’esordio è un gioiello d’ambientazione. E se è vero che ci mette un po’ a ingranare – raggiungendo le sue pagine più fascinose quando la seconda nave farà ritorno a Londra col suo carico WINK WINK – rimane una riuscitissima celebrazione dell’insolito e un “polpettone” (nel senso migliore del termine) molto godibile. È una specie di kolossal storico e sentimentale, che fonde in maniera ricchissima reale e fantastico, ambizione e rovina, bellezza e sconforto, carne e nobiltà d’animo, strade putride e carta da parati, desideri grandiosi e conseguenze catastrofiche. Datemi un muro da foderare di conchiglie. O almeno un ventaglio.

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Sally Rooney, Persone normali

Di Sally Rooney tanto si è discusso e, sospetto, ancor più si discuterà. Nel mio piccolissimo, sono felice che una Sally Rooney sia spuntata nel panorama letterario mondiale. Ecco qua il post che avevo scritto per il suo secondo romanzo, Normal People.

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Il mio preferito dell’anno forse va raccontato nel suo complesso. Perché è una trilogia che funziona (anche) per accumulo e per stratificazioni. Transiti è il secondo capitolo. È stato preceduto da Resoconto e le operazioni si sono chiuse con Kudos – in italiano si chiamerà Onori e sta per uscire in Stile Libero per far compagnia agli altri due. Siamo abituati a confrontarci con protagonisti e personalità ipertrofiche, ma Rachel Cusk ha scelto di fare diversamente. La sua narratrice è una spugna, un fantasma, uno specchio, una trasmittente che capta e immagazzina. E per tre libri compone per noi un mosaico di incontri casuali ma decisivi, catalogando punti di svolta e spostamenti nello spazio e nella coscienza. Sono storie che seguono un arco che non somiglia al consueto tragitto di un eroe o di un’eroina da romanzo, sono archi narrativi che richiamano il modo in cui gli esseri umani “veri” si rendono conto che sta succedendo loro qualcosa di fondamentale. O che hanno perso un’opportunità. O che un pezzo di un passato sepolto sta tornando a interrogarli. O che un cambiamento necessita di essere digerito e capito. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così sfuggente e potente al tempo stesso. Di sentire i pensieri altrui con una nitidezza così spietata e illuminante. O di sentire così poco il bisogno di una struttura più “normale”, anzi.
Vinci tu, Rachel Cusk.
E ora voglio conoscerti meglio.
Perché l’ambizione di “leggere altro”, come ben sappiamo, non ci abbandonerà mai. 🙂