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narrative non fiction

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Con me le infanzie e le adolescenze funzionano poco. Forse perché vorrei liberarmene ma il brutto mi è rimasto attaccato e non ne posso più e dentro non ci trovo nulla che sia nutriente o istruttivo, non lo so. Fatti miei, comunque. L’infanzia e l’adolescenza che Annie Ernaux proietta in La donna gelata, però, producono insieme una specie di matrice, uno stampo che contraddice le aspettative del resto del mondo. Una madre che lavora in drogheria, tiene i conti e ricama ben pochi centrini di pizzo. Un padre che pela serenamente le patate e sta assiduamente accanto a sua figlia, senza temere che gli caschi in terra l’apparato genitale. È uno stravolgimento dei ruoli ritenuti tradizionali, naturali e auspicabili che a Ernaux pare normale perché ci è cresciuta in mezzo, ma che è molto diverso da quello che capita nelle case delle amiche e delle compagne di scuola – comprese quelle che le sembrano più emancipate, indipendenti, “ricche” o “povere” che siano.

Come si diventa grandi, dove ci si colloca, cosa ci si può permettere di sognare e immaginare se i modelli a disposizione sono così insoliti per i canoni condivisi e se, visceralmente, non si percepisce il matrimonio (o la maternità) come l’unico traguardo possibile? Ernaux orbita attorno a questo dilemma, strattonata tra la necessità di studiare, di andarsene, di coltivare un’ambizione e la necessità altrettanto profonda di sentirsi scelta, amata, vista da un ragazzo capace di staccarsi dallo sfondo e dalle convenzioni. Un pari, un amico, un amante, una specie di novità antropologica che la tratti come un essere umano e che la convinca della praticabilità di un futuro insieme, di una dimensione migliore dell’indipendenza priva di vincoli.

Lo trova? Le pare di sì. Ed è qua che troviamo anche il cuore del libro – tradotto da Lorenzo Flabbi per L’Orma e per quest’edizione “ridisegnata” in Bur/Rizzoli –, il nucleo gelato del titolo e del destino di innumerevoli donne, quasi tutte sorridenti, solerti e silenziose. Ernaux non nega alle altre la possibilità di realizzarsi in una dimensione che per lei risulta annientante, ma racconta con puntiglio chirurgico di aver preso molto male le misure. O meglio, di essere finita in una specie di imboscata, pur illudendosi di aver scelto la sua strada e dato seguito a una riconosciuta felicità. Cosa fai, quando scopri di esserti trasformata, solo un paio d’anni più tardi, nel prototipo della femmina che compativi e che ti faceva orrore?

Ernaux è di una precisione disarmante, essenziale e complicata insieme. Consegnarle un matrimonio e la maternità serve ancora, perché ha avuto il coraggio – in tempi (ancora) più ostili dei nostri – di dubitare dell’illusione, di analizzare un’infelicità, di imbastire un discorso sul potere e di alzare una mano per ricordare che le mani servono anche a scrivere, oltre che a brandire dei mestoli.

Per la rubrica “un saggio che si legge come un romanzo” – ma anche un po’ “che scoperta, è narrative non-fiction!” -, eccoci qua con Essere una macchina di Mark O’Connell, in uscita il 18 settembre per Adelphi con la traduzione di Gianni Pannofino e l’ambizione del tutto accidentale di consolarci e/o terrorizzarci mentre attendiamo la nuova stagione di Black Mirror.
Perché sì.
Questo libro è come una versione giornalisticamente attendibile e ben documentata di Black Mirror e, nello spazio condensato di un racconto di viaggio alla scoperta del movimento transumanista, ci accompagna anche lontanissimo, alla volta di una frontiera filosofico-tecnologica che persegue un fine ultimo a dir poco ambizioso: sconfiggere la morte. Per sempre.

Qualche passo indietro. Il transumanesimo è, in estrema sintesi, un movimento che punta al prolungamento indefinito della vita umana. I transumanisti intervistati da O’Connell – che per il libro viaggia in lungo e in largo per gli Stati Uniti, partecipando a conferenze, incontrando i personaggi più disparati e salendo anche a bordo di un elegante camper a forma di bara – non approcciano il tema in maniera univoca, perché assai complicata è la natura del problema che intendono risolvere. Ci sono transumanisti che propendono per il congelamento criogenico del corpo e transumanisti che, impegnandosi a livello accademico nella ricerca neurologica, coltivano anche l’ambizioso progetto di riprodurre a livello digitale il funzionamento del cervello per poi poterlo caricare su un supporto indipendente dall’involucro di origine – o da un qualsiasi involucro, volendo. Ci sono transumanisti, poi, che disprezzano la natura imperfetta dell’organismo umano (colpevole di un fisiologico deterioramento che conduce in maniera per ora inevitabile alla nostra dipartita) e tentano di modificarlo e di potenziarlo, elevando a valore supremo il potere dell’intelletto sulla “carne”.
Avversione per la morte a parte, però, tutti i transumanisti sembrano essere accomunati da quella che somiglia molto a una professione di fede. I transumanisti vogliono esistere il più a lungo possibile perché è solo rimandando la morte che sono certi di poter accedere a un futuro in cui la morte verrà definitivamente debellata. In questo scenario, infatti, la tecnologia avrà raggiunto il suo orizzonte ultimo, una sorta di punto di fuga dal quale sarà libera di progredire a ritmi esponenziali – autogenerandosi, autogestendosi, autoreplicandosi. E risolvendo per noi tutto quello che non siamo ancora riusciti a controllare. La “Singolarità”, questo grande evento che cambierà per sempre le sorti del genere umano, è l’obiettivo da raggiungere per afferrare l’eternità. L’importante è arrivarci – vivi o congelati – per avere la certezza di essere rianimati o di poter usufruire efficacemente delle conquiste scientifico-informatiche.

Pazzi? Visionari? Squilibrati?
Chi lo sa.

Il garbatissimo scetticismo e la curiosità giornalistica di O’Connell ci accompagnano per tutto il libro. E la galleria di personaggi che l’autore incontra è a dir poco stupefacente. Molti operano, lavorano o raccolgono INGENTI fondi nella Silicon Valley – “bacino di utenza” particolarmente ricettivo nei confronti della causa transumanista forse per il suo già strettissimo rapporto con la tecnologia, per la tendenza a intraprendere imprese titaniche partendo dal garage di casa e per l’affinità già consolidata con l’inorganico, il virtuale e il meccanico.
Ci sono transumanisti a Google, come ci sono transumanisti che amministrano le ultime volontà dei guru dell’informatica (e dei più ricchi fra gli ottimisti) dalla periferia di Phoenix, dietro la scrivania del più grande impianto di criogenizzazione degli Stati Uniti. La Alcor può tenervi in sospensione fino al sopraggiungere della Singolarità per 200.000$ (se volete surgelarvi tutti interi) o per 80.000$ (se vi interessa surgelare solo la testa). Ci sono transumanisti nei centri di ricerca neurobiologica delle maggiori università americane che studiano l’architettura del nostro cervello con la speranza di riuscire a farlo “girare” su un supporto diverso dal nostro corpo, destinato a deperire.
Il futuro dei transumanisti, infatti, non è solo un mondo dove, ad esempio, le malattie letali non potranno più nuocerci, ma è un’epoca in cui la nostra mente sarà libera di assumere la forma che preferisce, grazie all’upload su corpi artificiali o alla possibilità di lasciarla fluttuale in uno spazio virtuale potenzialmente infinito.

Da fan della fantascienza e da profonda conoscitrice delle tre leggi della robotica di Asimov (con tutte le menate che ne conseguono) non potevo non lasciarmi risucchiare da questo viaggio, che somiglia – paradossalmente – molto più alle opere di finzione letteraria o filmica che in ogni tempo si sono interrogate sul futuro che a qualcosa di oggettivamente plausibile o “reale”.
Eppure i transumanisti ci sono. Si incontrano a conferenze. Ricevono finanziamenti milionari. E si candidano alla presidenza degli Stati Uniti con una campagna elettorale basata su un unico argomento: dire basta alla morte.
Essere una macchina è un lavoro di ricerca complessissimo e affascinante che, nonostante il tema non proprio immediato, risulta assolutamente comprensibile. E assai fascinoso. O’Connell riflette insieme a noi sul destino della coscienza, sul ruolo delle macchine e della tecnologia nel nostro presente (per intravederne le possibilità o i rischi futuri) e, in ultima istanza, sul valore che attribuiamo alla vita e al tempo, pilastri portanti della nostra permanenza sulla Terra.
Che cos’è una persona?
Un involucro per la mente?
Un sofisticato sistema per la raccolta di stimoli e per l’elaborazione di reazioni?
Una forma primitiva di superuomo immortale?
Le risposte del transumanesimo sono tante. Spesso poco plausibili, a volte terrificanti, sempre estreme. Ma immancabilmente fiduciose e tenaci. Due caratteristiche che, nonostante gli sforzi per revisionare e migliorare le nostre obsolete carcasse, sono quanto di più umano possa esistere.

Leggetevi Essere una macchina.
Che magari la Singolarità non arriva… ma se arriva conviene sapere che cosa sta succedendo. :3