Tag

Minicuore

Browsing

Ah, Francesca! Tu a un anno recitavi a memoria le poesie! E quando andavi ai giardinetti con la tata sgridavi sempre gli altri bimbi che volevano tirare i sassi nella fontana. Sai cosa gli dicevi? SE BUTTI A SASSI A FUNTANA VIENE A CARAMBINIERI LEGA I MANI E METTE A PRIGIONE. Ma ti ricordi Bruno? Eri piccola, ma tutte le volte che lo vedevamo gli davi del nano. Bruno non è mai stato altissimo, ma tu niente, glielo dovevi chiedere. MA COME SEI BASSO BRUNO. MA BRUNO MA SEI UN NANO? Che figure che mi hai fatto fare, che figure. Anche coi nostri cugini di Chivasso. Ti ricordi, dalla zia per capodanno? Dovevi fare tre anni. C’è anche il filmino. Vero, Mimmo? L’avevi fatto il filmino. Avevamo il vestito di velluto uguale, io e la bambina. Quello nero con i fiori. Niente, non volevi stare nel seggiolone. Cercavo di farti sedere, ma tu ti eri stufata e volevi andare in giro. E a un certo punto ti sei girata e mi hai detto PUTTANA. Ma forte e chiaro. Si è capito proprio bene. Bello scandito. Pensa te, cosa mi è toccato sentire. Davanti a tutti, poi.

Ogni famiglia dispone della propria mitologia.
La nostra, come quella di tutti quanti, è zeppa di episodi discutibili di questo genere.
Pericolosi criminali alti un’ottantina di centimetri da consegnare alle forze dell’ordine. Malcapitati vicini di casa che, sull’onda dell’entusiasmo per Willow, venivano reclutati tra le fila degli eroici nani ribelli. E c’è, in effetti, una poesia antichissima che ancora mi ricordo – a spizzichi e bocconi -, ma dubito di averla declamata per mari e per terra prima ancora di imparare a camminare. Quanto al PUTTANA, MADRE di certo non se lo meritava, ma la provenienza dell’epiteto risale di certo ai viaggi in macchina con lei. MADRE ha sempre guidato molto bene, ma non si è mai dimostrata tenera con gli altri automobilisti, che venivano apostrofati nei modi più incredibili e con grande veemenza. Io, evidentemente, ero una passeggera molto ricettiva.

L’episodio più celebre, però, resta anche il più incomprensibile. Perché in casa mia non bestemmiava nessuno. Persino mio nonno e mia nonna si limitavano a ingiuriarsi in piacentino, senza però avvalersi di nulla di particolarmente blasfemo. L’unico che cristonava parecchio era il Nando, il nostro vicino in campagna, un signore altissimo e un po’ sdentato che ha passato la vita in canottiera bianca e salopette. Ma il Nando non bestemmiava con rabbia o con dell’autentico rancore verso il divino nel suo complesso, era più un intercalare. Quasi un gioviale apprezzamento nei confronti del cosmo e della sua benevolenza. C’è il sole? Il Nando non poteva limitarsi a dire “Che bellezza, c’è il sole!”, la Madonna (fantasiosamente deturpata) andava in qualche modo invocata per sancire l’estrema piacevolezza della giornata.
Anche se nessuno è mai riuscito a capire il perché, dunque, e sempre durante le fatidiche feste natalizie del PUTTANA, MADRE aveva deciso di portarmi a vedere questa sublime mostra di presepi nella cripta di un’antica chiesa cittadina.
Ettari di presepi. Presepi giganti, super complicati, accessoriatissimi e dotati di pecore quasi vive. Acqua corrente, lucette, dromedari, pastori devotissimi, angeli, chili di vera sabbia, muschio VIVO.
Uno di questi presepi artistici ospitava anche una grotta infestata da un piccolo demonio cornuto che appariva a intermittenza fra le fiamme. Credo fossero dei listellini di carta sospinti da un mini-ventilatore e illuminati come il set degli Occhi del cuore. Le fiamme si agitavano in pianta stabile, ma il piccolo Satana sbucava solo di tanto in tanto, allietandomi oltre ogni immaginazione. MADRE, che di certo non m’aveva portata alla mostra dei presepi per adorare il Maligno, doveva comunque star lì piantata davanti alla grotta per permettermi di gioire ogni volta che il demonio decideva di onorarci con la sua presenza, intoppando il passaggio e causando ingorghi fra i devoti visitatori. Non si sa bene quando accadde, perché MADRE non si è mai diffusa troppo sull’argomento, ma ad un certo punto, animata da un’incontenibile felicità per l’ennesima apparizione del diavoletto fiammeggiante, si narra che io, bionda e boccoluta, col ditino puntato in direzione della spelonca infestata dalle forze del male, abbia strillato fortissimo: IL DIAVOLINO PORCO ***!

Stacco.
Montaggio ravvicinato delle espressioni inorridite degli astanti.
Un prete, sullo sfondo, estrae il crocifisso.
Una signora anziana impugna il rosario come farebbe Wonder Woman col suo lazo magico.
E MADRE, vedendosi ormai accerchiata, mi trasporta di corsa fuori dalla chiesa, tenendomi come un pallone da rugby. O come una bomba pronta ad esplodere.

Cosa non darei per ricordarmelo.
Il diavolino, in realtà, ce l’ho in mente. È quel che ho detto che mi manca. Le concitate conseguenze della mia esclamazione devono aver generato un tale vortice di confusione da cancellare nella mia memoria ogni traccia verbale dell’episodio. E MADRE, ancora oggi, racconta la faccenda del diavolino con un misto d’orrore e divertimento, come una specie di sopravvissuta a una catastrofe (potenzialmente ben peggiore di quella che poi si è effettivamente verificata).

Perché è vero: i bambini dicono delle enormità. Anche se in casa loro, magari, son tutti dei poeti, dei santi o dei navigatori. No, magari dei navigatori no, che poi si sconfina subito nel gergo portuale.
Comunque.
Il bambino è, per definizione, imprevedibile. Perché non controlla i nessi causa-effetto, perché non sa ancora cosa aspettarsi dal mondo e perché i costrutti della socialità sono una faccenda complessa da amministrare. A me Bruno stava anche simpatico, ma a tre anni trovavo perfettamente legittimo investigare sulla sua altezza. C’è gente che sui social continua a comportarsi come mi comportavo io a tre anni con Bruno, ma il tatto verso gli altri esseri umani non è soltanto una qualità innata, c’è pure una considerevole componente sociale. Ci mettiamo un po’ a capire come stare insieme alla gente o a individuare il confine tra comportamenti accettabili e inaccettabili e, mentre prendiamo le misure, diciamo cazzate di ogni genere. Soprattutto se siamo piccoli e chiacchieroni.
Ecco.

Dati i miei vivaci trascorsi verbali infantili – nell’epoca precedente al sopraggiungere di una razionalità lievemente più strutturata -, vivo nel terrore. Perché ora un figlio ce l’ho io e, di certo, non sono pronta a sentirlo bestemmiare in chiesa. Nemmeno nei film esoterico-apocalittici con le mamme che scoprono di aver messo al mondo l’Anticristo c’è il piccolo Anticristo che bestemmia in chiesa (fosse anche in aramaico). Cesare si è approcciato al linguaggio con serena pigrizia. È da quando ha compiuto i due anni e rotti che ha deciso di parlarci oltrepassando la soglia dei suoi bisogni più immediati. Capiva tutto, ma non era particolarmente interessato a dircelo o a cimentarsi più di tanto nelle acrobazie dell’arte oratoria.

Ora, in compenso, non tace mai. Si esprime con un miscuglio di storpiature, termini precisissimi e onomatopee che lo fanno somigliare a una specie di Dario Fo a un passo dal coma etilico – ma più mobile. Assorbe tutto. Ripete tutto. Rielabora implacabilmente e, quando meno te lo aspetti, ti risputa fuori una roba che aveva sentito sei mesi prima in piazza a Rivergaro. E gli esiti non sono sempre edificanti.

Quand’è che bisogna bandire del tutto il turpiloquio dalle conversazioni domestiche?
Quand’è che va calata la scure della censura?
Quand’è che devi astenerti dal gridare CAZZO! quando t’arriva una multa?

Accidenti!
Caspita!
Perbacco!
…quando in realtà vorresti salire su una rupe e urlare VAFFANCULO STRONZI CHE NON SIETE ALTRO FICCATEVELA IN GOLA QUESTA MULTA DI MERDA!
O qualcosa del genere.

La risposta da vincitore delle Olimpiadi della Genitorialità dovrebbe essere la seguente: gli ultimi improperi vanno pronunciati in sala parto. Nulla di disdicevole, dal momento della nascita in poi, dovrà anche solo sfiorare le tenere orecchie della prole.
Ora, noi non so se mai ci qualificheremo per le Olimpiadi della Genitorialità. Va già bene se arriviamo alle selezioni provinciali. Milano è grande, mica è uno scherzo. Nel nostro piccolo, però, stiamo facendo il possibile per trasformarci negli sceneggiatori di Topolino. Innumerevoli personaggi di Topolino esternano a più riprese il loro disappunto, la loro rabbia e il loro legittimo furore senza scivolare nella trivialità più assoluta. Anzi. Non c’è nulla di più bello di un personaggio di Topolino che prorompe in una serie di esclamazioni desuete per prendersela con qualcuno. O che sceglie di canalizzare un dolore fisico LANCINANTE in una cascata di CORBEZZOLI e CORPO DI MILLE POLENE. Sempre con classe e pacatezza. Con dell’immaginazione. Con un lessico sublime, per quanto prestato a una situazione che fa incazzare.
Nonostante le nostre ottime intenzioni, però, ci troviamo spesso di fronte ad eventi imprevedibili. Perché il nostro infante, come tutti gli infanti, crea mostri anche là dove non c’era altro che innocenza. Tra le loro numerose qualità, infatti, i bambini hanno anche il dono della decontestualizzazione. Una roba “normale” viene presa, assimilata, processata e scomposta, per poi scaturire nuovamente da tuo figlio in un momento a caso, ubbidendo a una struttura che vive di vita propria e che tu non puoi governare.
Io, che qualche mese fa mi divertivo con PANDA che al plurale fa PANDI – o con UOVA/UOVI -, ora ho il terrore di sbucciare banane in presenza del mio erede perché, un pomeriggio, ho inconsapevolmente commesso un errore.
Adesso la mamma ti sbuccia la banana, Cece. Ecco qua. Togliamo tutto e… accidenti, si è rotto il culetto qua in fondo.
E per i quindici minuti successivi, Cesare ha urlato a pieni polmoni CULO ROTTO! CULO ROTTO!

Non c’è scampo.
Non c’è speranza.
Chiaro, potevo usare il termine “sederino” o buttarmi sul puntiglioso con un “accidenti, si è rotta la parte terminale della banana” e/o “l’estremità inferiore della banana”. Ma mica sono una tata-robot. Sono una madre che sbuccia banane al meglio delle sue possibilità. E ogni tanto i culi si rompono.

A onor del vero, però, va specificato che Cesare dice anche cose bellissime.
Anzi, le cose bellissime sono quasi sempre la norma.
La prima volta che ha risposto a un “ti voglio bene” con ANCA IO MAMMA TANTO TANTO BENE credo di aver pianto per due ore e mezza, soffiandomi il naso a più riprese e spedendo messaggini di giubilo anche ai vicini di casa che non ho mai visto.
Tralasciando per un attimo il rischio di creare (anche accidentalmente) delle bombe a orologeria verbali, però, quello che forse mi sto chiedendo davvero è che cosa “arriva” di quello che dico.
Cosa assimilano questi infanti? Come elaborano e fanno proprie tutte le chiacchiere che ci scambiamo? Sarò capace di trasmettere a Cesare qualcosa di importante, come le coordinate basilari della felicità, della sicurezza nelle sue capacità, del rispetto per gli altri e dell’amore? Riusciremo a fare un po’ di luce sulla vastità delle faccende del mondo? Riusciremo, in sintesi, a trovare un modo per farci ascoltare, quando vorremo (e vogliamo) provare a spiegargli quello che conta di più?
Come al solito, non ne ho la più vaga idea. Ma persevero nel descrivergli anche le azioni più piccole. Parlo di mele, lamponi, talloni, apatosauri, castori, pettini, pigiami e bambù. Parlo di quello che si vede e di come mi sento, di come mi sembra che si senta lui, di come si coccolano i gatti e di che cosa è successo oggi, anche se non è successo niente di decisivo per le sorti del mondo. Che ne farà di tutte queste parole? Un gran pasticcio, probabilmente. Diventerà un piccolo calderone da cui usciranno periodicamente robe inaccettabili – CAZZO! -, robe tenere – APATOALLO MANGIA EBBA – e immagini di una certa specificità – PAVONE FA UOTA, NONNA! – mentre sul fondo rimarranno a bollire altre storie, i ricordi antichi, le scoperte nuove. E, magari, anche le cose “grandi”, i piccoli fari con cui speriamo di guidarlo. Nonostante i culi rotti.

Dunque, per parlare di Cesare ci vorrebbe un trattato a parte. Farlo qua, in tre parole, è un’operazione complessa, un po’ come se volessimo condensare l’energia di una supernova in una bottiglietta d’acqua da mezzo litro. Qualche giorno fa siamo stati alla festicciola di fine anno del nido. Io ero la mamma designata a portare i piatti e i bicchieri, visto che non so fare niente e che le incombenze più nobili – tipo arrivare con vassoi di focaccine – erano già state prenotate. Inetta e pure lenta, insomma. Comunque. Dopo merende, scivoli e bambini che si aggeggiano a vicenda, ci hanno dato una sporta di carta piena di ogni genere di prova tangibile che potesse in qualche modo farci immaginare che cos’ha fatto nostro figlio al nido per tutto questo tempo. Ha cominciato a settembre, a un anno. Aveva all’incirca un quarto dei capelli che ha adesso e, di sicuro, anche una consapevolezza molto minore della realtà. Nella sporta ci sono diverse macchie di Rorschach – pittura con le dita -, una risma di capolavori di puro astrattismo – disegno coi pennarelli -, una scultura d’arte povera – pasta di sale – e un quaderno pieno di foto che lo ritraggono mentre travasa farine, si rotola sui tappetoni, molesta pupazzi, balla, pranza a un piccolo tavolino, impila cubi e caccia le mani in montagne di lenticchie, manco fosse Amélie Poulain. Cesare, secondo me, è cognitivamente molto superiore ad Amélie Poulain. E pure più romantico.
Ma non è di quell’incapace di Amélie che voglio occuparmi.

La sporta del primo anno di nido, ho scoperto, è uno di quei costrutti che hanno il potere di farti sentire al contempo molto felice e anche molto triste.
Perché, da una parte, sei contenta di ricevere una testimonianza tangibile di tutte le cose nuove che tuo figlio ha imparato a fare o che, più o meno incisivamente, sono entrate a far parte del suo orizzonte in continua espansione. Dall’altra, però, guardi tutti quei fogli e quelle foto e calcoli il tempo che non ci hai passato insieme. Il che, inevitabilmente, ti fa sentire ancora peggio, perché ti rendi conto che tu, da sola, l’energia di fargli fare tutto quello che ha fatto all’asilo non ce l’avresti mai avuta.

Ho atteso l’inizio del nido con una certa trepidazione, devo ammetterlo. Non ci siamo arrivati riposatissimi, all’inizio del nido. Anzi, rasentavamo la dissoluzione cellulare. Perché, per quanto l’amore più puro possa permetterti di spostare sempre un po’ più in là l’asticella di quello che puoi spremere dal tuo cervello e dalle tue membra, prima o poi – almeno per me – ti ritrovi di fronte una specie di gigantesco baratro di stanchezza psicomotoria che ti mangia quasi via anche i sentimenti. Insomma, dopo un anno passato in simbiosi, sapere di poter recuperare le mie facoltà di essere umano “singolo” è stato salvifico. Sapere di poter lavorare in un orario normale, senza dovermi precipitare al computer a fare il più possibile nelle due ore (se andava bene) di pisolino pomeridiano è stato confortante. L’inserimento all’asilo, comunque, credo lo facciano quasi più per le mamme che per i bambini. Perché quando vedi che tuo figlio si mette serenamente a razzolare in mezzo a 7 o 8 altri piccoli culoni (gli infanti sono irrimediabilmente culoni: è il pannolino, c’è poco da fare) e che, in un modo o nell’altro, la sua attenzione viene rapita da qualcosa che non sei tu, ecco, quando succede è un po’ scioccante. Perché un po’ ti meravigli della tua apparente irrilevanza (che storia è mai questa!), ma un po’ ti rassereni anche (bene, è in grado di stare in questo ambiente con altri esseri umani più o meno piccoli senza abbandonarsi a caotiche manifestazioni di disappunto!). E, in sintesi, finisci per capire che nessuno ti sta togliendo niente. E che sentirti felice per lui e per te, quando lo lasci all’asilo nelle capaci mani di una schiera di splendide professioniste, è normale e quasi doveroso. Perché non credo sia sensato – o anche solo possibile – provare invidia o risentimento nei confronti del mondo intero. Perché è esattamente il resto del mondo che tuo figlio sta incontrando, man mano che diventa grande e si stacca pian piano da te. Prima riempivo un universo. E dovevo anche essere un universo. Ora sono una favolosa galassia a forma di mamma, ma attorno a me sono apparsi innumerevoli altri corpi celesti in grado di orientare la navigazione del minuscolo pirata-Cesare.
E Cesare naviga parecchio.
È fatto così.

Ci ha da sempre fatto la grazia di dormire la notte – e con SEMPRE non intendo “oh, siamo appena tornati dall’ospedale e già mi ronfa otto ore!”, figuriamoci. Ha dormito normalmente dopo qualche mese, quando il suo stomaco ha cominciato a dargli/darci tregua – ma, quando è sveglio, è SVEGLIO. Quando vado a prenderlo al nido e lo trovo seduto che ascolta una favola provo sempre un certo stupore. Perché, quando ci siamo noi, è una specie di bomba all’idrogeno. È il genere di bambino che ti fa stancare solo guardandolo. Per osmosi, proprio. E, nonostante riesca a concentrarsi moltissimo quando c’è qualcosa che lo avvince – impastare cose colorate, fare torri precisissime di cubetti, amministrare puzzle con gli le sagomine degli animali e compagnia danzante – prova visibilmente la necessità di assorbire dall’ambiente tutto l’assorbibile. È una roba normalissima e più che legittima, ovvio, ma il risultato è che Cesare ha quasi sviluppato la facoltà di apparire in diversi luoghi contemporaneamente. O che, se io sono sul tappeto con lui e Amore del Cuore è in cucina a preparare la cena, Cesare scava un solco fra i due ambienti precipitandosi a trentordici all’ora prima da me e poi dal papà, brandendo cose importantissime che deve assolutamente farci vedere. Ha scoperto la palla e le macchinine semoventi. Ha capito che ci sono dei libri che gli piacciono di più, quindi li piglia dalla sua libreria e te li porta, così può farseli spiegare. Non parla ancora tantissimo, ma è comunque molto efficace nel comunicarci le sue esigenze. E siamo parzialmente usciti dalla fase manrovesci e sberloni (da leggersi “Cesare ci mena forte”) in favore di un più civilizzato scambio di carezze e bacini umidissimi, ma rigorosamente con lo schiocco. Cesare che mi bacia e che mi abbraccia “con intenzione” è ufficialmente una delle robe più belle mai accadute. Soprattutto se prende la rincorsa e arriva tutto trafelato. DEVO ASSOLUTAMENTE ABBRACCIARTI ORA. DEVO RICOPRIRTI DI SALIVA IN QUESTO PRECISO ISTANTE, NON POSSO ATTENDERE UN MOMENTO DI PIÙ. E, quando succede, mi rendo conto che quella sensazione di non essere più così indispensabile è autentica, ma a intermittenza. Perché lo sarò sempre, anche se pian piano stiamo imparando – tutti e due – a stare insieme come due persone “vere”, che inevitabilmente hanno dei confini. Lui cresce più in fretta di me, ma anch’io aggiungo ogni volta dei pezzetti nuovi a quello che sono, perché ogni volta è necessario inventare una soluzione, una tattica di sopravvivenza, un modo nuovo di interpretare uno stato d’animo. E sono molto più contenta adesso, credo. Anzi, forse è meglio dire che ho ricordi meravigliosi, ma non rimpiango ferocemente i primi tempi, la fase “sono un adorabile fagotto paffuto che mangia, caga, dorme a intervalli di tre ore. E più o meno basta”.
Preferisco rincorrerlo.
Preferisco sentirmi rispondere con un sonoro grugnito quando gli dico “Cesare, tieni bene il cucchiaio e non fare il maialino”.
Preferisco applaudirlo quando arriva in fondo a uno scivolo e dirgli che è bravo quando sembra aver vagamente compreso le modalità di utilizzo di uno spazzolino da denti.
Ci sono delle volte in cui vorrei anche poterlo sedare con una cerbottana? MA CERTO. Cenare alle undici di sera – perché per meritarci quelle otto ore filate di sonno bisogna passarne una con Cesare in braccio a cantargli interi repertori musicali – è un toccasana? Proprio no. Non giova allo stomaco e manco alle vertebre lombari. Uscire a cena e doversi preoccupare costantemente di prendere al volo delle fette di pizza prima che tocchino terra è l’immagine del relax? Giammai!
Ma pian piano si migliora.

Piano piano si capisce che c’è quasi sempre una trovata che può salvarti. Piano piano ti accorgi che ci sono tante cose difficili, ma che tuo figlio è un tipo piacevole, non solo un ordigno da disinnescare. Chiaro, quando lo faccio scendere dal passeggino mi sembra ancora di liberare il kraken in un placido oceano la cui serenità verrà immediatamente compromessa, ma è anche innegabile che un kraken che imperversa nel vortice acquatico creato dai suoi possenti tentacoloni rappresenti uno spettacolo imperdibile. Perché sì, Cesare è uno spettacolo. E spero tanto, con il trascorrere del tempo, di essere sempre in grado di eguagliare la gioia quasi incontenibile che sfodera quando vede un tram che sferraglia – TUTUUU TUTUUU (perché ogni veicolo è un treno) -, un cane a passeggio – BAU BAU BAU BAU BAU -, una coppietta che limona su una panchina – CIAO! CIAOCIAO! CIAO! -, una ciotola di patatine – DÀ! DÀ! (che credo sia una contrazione di DAMMELE SUBITO, STOLTA! -, il papà che torna dall’ufficio – PA PÀ (scandito con grande meticolosità) – o quando vede me, che entro pian piano nella sua classe – piena di seggiolette minuscole, tappetoni, pupazzi e costruzioni – per andarlo a prendere. E lui sembra così piccolo, in mezzo a tutta quella roba. E poi si gira, si illumina tutto e si precipita da me con le braccine spalancate. Perché partire tutti i giorni in esplorazione è un’avventura indubbiamente bellissima, ma anch’io non sono poi malaccio. E anch’io, anche se non posso più tenerlo con me tutto il santo giorno, rimango una stella un po’ più brillante delle altre, nonostante la vastità del cosmo e il continuo passaggio di comete meravigliose. Quello che spero è che capisca, in qualche modo, quanto ci stiamo impegnando. Quanto vogliamo che sia felice. E quanto siamo fieri di lui. La perfezione genitoriale è lontana e, tanto per dirne una, non abbiamo ancora una “vera” cameretta con le pareti pronte per essere riempite con gli scarabocchi bellissimi che c’erano nella sporta del nido, ma spero tanto che Cesare “senta”, ogni giorno, che stiamo facendo del nostro meglio per meritarci un bambino come lui.

La domanda COME VA è solo all’apparenza un quesito di semplice gestione. Perché a un COME VA, di solito, non è dato rispondere in maniera troppo particolareggiata. Magari ci sono delle cose che vanno bene, ma anche cose che vanno male o cose che potrebbero andare peggio/meglio, ma non puoi metterti lì a fare l’elenco.
Quel che serve, per rispondere al COME VA, è una specie di calcolo karmico che sommi e sottragga le diverse forze in gioco, per arrivare a una valutazione complessiva che possa vagamente offrire all’interlocutore un’impressione generale del corso della tua recente esistenza. Quando risolvi l’equazione e arrivi a una risposta accettabile, poi, te la puoi riciclare finché i fattori non mutano in maniera drastica, costringendoti a un ricalcolo.
MADRE, per esempio, rispondeva costantemente ai COME VA con un incoraggiante RESISTO, che mi metteva automaticamente in imbarazzo, visto che denunciava velatamente una difficoltà di fondo di cui sospettavo di essere in qualche modo responsabile. Comunque.  Mi sono resa conto che la mia risposta quasi standard al COME VA è diventata BENE… MI STO ASSESTANDO. E lo dico agitando un po’ le mani per aria, come se stessi palpeggiando una specie di nuvola invisibile. Non ho idea dell’impressione che una risposta del genere possa suscitare, ma è la pura verità… ormai da un annetto.

Non sono mai stata una particolare fan della routine o dell’organizzazione maniacale. C’è chi per sentirsi in pace deve pianificarsi tutti i weekend da qui al 2023 o chi scrive su un bel quaderno pieno di washi-tape i suoi obiettivi a medio, lungo e lunghissimo termine. Io, anche prima di riprodurmi, avevo serie difficoltà a fare la spesa per più di un pasto alla volta.
Che diamine mangeremo domani?
Encefalogramma piatto davanti al banco dei latticini.
Così.
Che vuoi pianificare, con uno schema cognitivo del genere? Poco, ecco che cosa pianifichi. Un po’ perché, per indole, non hai super voglia di sforzarti, ma anche un po’ perché, tutto sommato, sei in grado di gestire l’imponderabile. Operi in un contesto dove esistono dei margini di manovra. Dove ti puoi permettere di pensare domani alla cena di domani. O di prenotare un viaggio la settimana prima di partire – se hai i soldi. Perché reagisci rapidamente, cambi quando serve e, non essendo una persona particolarmente strutturata, non ti agiti quando capitano cose in maniera repentina. O non ci metti molto a decidere e a passare all’azione. Ti arrangi. Ne esci comunque vincitrice.

È un vantaggio, rispetto all’estrema pianificazione?
Non ne ho idea.
E poco ce ne frega, visto che non è una gara e non si vince niente.

Quello che sto cercando di dire – forse – è che l’arte dell’improvvisazione è un po’ una scelta, ma è anche una specie di lusso. Decidere di “pensarci dopo” è una forma di libertà. E si va ad appollaiare in cima a una base di relazioni, impegni e situazioni già assodate che sei ormai capace di amministrare in automatico. È una sorta di cuscinetto che ti puoi gestire come ti pare per assecondare sghiribizzi o momenti di culo pesante. E ai COME VA finisci per rispondere in maniera molto avventurosa e spumeggiante. Ti viene da parlare proprio di quegli sghiribizzi lì e delle trovate dell’ultimo minuto, perché ti sembra che la parte più “viva” di quello che ti capita sia quella che hai previsto di meno, quella che si innesta sulla tua base di certezze più solide e costanti.

Ma che succede quando cerchi di far appollaiare il lusso della disorganizzazione parziale su una base fluida?
Ciao.

Ho un bambino che cambia tutti i giorni. Che fa cose nuove continuamente e che sviluppa abitudini inedite ogni venti minuti. È un genere di imprevedibilità diversa, ma imprevedibilità rimane. Ed è una mia responsabilità. Posso contare su alcuni punti fermi e imporre un certo ritmo, ma ora si improvvisa per gestire progressi visibili e minuscoli traguardi. E non puoi più permetterti di rimandare il rimandabile, perché in quello spazio di sereno tentennamento ci finirà sicuramente qualcosa di mai visto che dovrai risolvere. Non c’è nulla di meno statico di un infante. Perché crescere non ha nulla a che vedere col rimanere fermi o col creare rassicuranti cuscinetti in cui la realtà si comporta più o meno come ce l’aspettiamo, lasciandoci dell’altro spazio per indovinare soluzioni estrose a problemi che possiamo comodamente rimandare. Succede tutto contemporaneamente e tutto diventa un grande esperimento di adattamento perenne.

Ci si annoia? Direi di no.
Ci si ricalibra? Per forza.
C’è fascino? Molto.
C’è affanno? Anche.

Perché ti senti sempre un passo indietro. Non puoi abituarti a niente. E ogni tua dote d’improvvisazione finisce per confluire nella gestione di un cervellino che scopre pezzettini di mondo. O di cosciotti che sostengono rapidissime deambulazioni. Appena un meccanismo potrebbe vagamente configurarsi come routine, cambia tutto.
Bene, siamo finalmente riusciti a padroneggiare le pappotte. Ma cinque minuti dopo le pappotte ci fanno schifo e vogliamo le penne col ragù. Ci siamo stabilizzati sulle penne col ragù? Fantastico, ora voglio gestirmi la forchetta da solo. Mi auguro che presto decida anche di cucinarsele in autonomia, le benedette penne al ragù, ma – per ora – io lo rincorro. Mi stanco, mi stupisco, lavoro col computer in bilico su un ginocchio mentre supervisiono la costruzione di ambiziose torri di cubi gommosi. Lo accompagno e avanzo insieme a lui, perché non posso sapere cosa troverà domani e non posso governarlo. Ma posso cambiare quando ce n’è bisogno, perché mi ricordo come si faceva – per cose molto più stupide e molto meno importanti.
Cambio.
E mi assesto.
COME VA.
Bene, grazie, mi sto assestando.
Sempre.
E speriamo che basti.

Non so se si capirà, ma proviamo.
Il tempo è una gran fregatura, ma ha anche un valore inestimabile. E, a ben 32 anni, faccio molta fatica a ricordare un momento in cui ho effettivamente avuto del tempo.
Di certo sto esagerando, ma mi è sempre sembrato di avere, più che altro, dei pezzi di giornata da amministrare. Dei ritagli un po’ approssimativi da rimediare in mezzo a tutto quello che ci si aspettava che facessi, studiassi o producessi.
È da quando sono piccolissima che mi dicono che non ho costanza, che non sono abbastanza tenace, che non mi impegno a sufficienza. La verità è che l’impegno massimo l’ho sempre buttato tutto nel creare del tempo che mi regalasse la possibilità di scegliere. E di capire che cos’ero, in qualche modo. Che cosa potevo diventare, coltivando quello che pensavo potesse darmi un significato, un posto.
In pratica, però, non ho mai smesso di fare, studiare o produrre quello che ci si aspettava da me.
Molto di quello che mi sembrava importante, molto di me come mi conosco adesso, cominciava semplicemente dopo – quando il tempo “normale” esauriva il suo spazio sull’agenda. Io c’ero, prima o poi. Ma nei margini di quello che bisognava fare. Per parecchio sono riuscita a definirmi solo per differenza. Questo non mi appartiene. Questo non mi piace. Questo non c’entra niente. Questo no. L’epoca dell’università è stata quella dei più o meno. Poi ho respirato. E sono stata fortunata, nei limiti della fortuna che può aspettarsi una persona che comincia a lavorare nel 2009.
Non credo che mi sia successo niente di particolarmente speciale o rivoluzionario. Tutta questa roba si chiama crescere, alla fin fine. E l’aspetto più bello è scoprire che esiste un margine di manovra. Che le cose che detesti o quelle che ti azzoppano si possono modificare. Che gli unici timori che devi prendere in considerazione sono i tuoi. Che il tempo può smettere di procedere su due linee parallele, perché controllarlo diventa più plausibile.

Ho fatto, per anni, un lavoro che mi rendeva orgogliosissima. Poi è arrivato il momento di cambiare e ne ho fatto un altro che mi ha insegnato moltissimo, ma che mi ha quasi rimbambita. E poi è nato Cesare, evento che ha introdotto un paradosso piuttosto interessante. Perché l’epoca che – per eccellenza – determina la fine inevitabile del tuo tempo, per me ha rappresentato una specie di espansione delle possibilità. E un ripensamento della mia concezione di “cos’è importante”. Ma non perché ODDIO I FIGLI CI DANNO UNA RAGIONE PER VIVERE, perché io avevo trovato il modo di sentirmi molto felice e realizzata anche da nullipara, vi dirò – ma perché quando qualcuno dipende completamente da te devi diventare molto coraggiosa. E tutto quello che mi intimoriva ha smesso di farmi paura.

Ho sempre detestato la prospettiva di deludere il prossimo. Di dimostrarmi un cattivo investimento. Di non essere all’altezza delle aspettative.
Ma non sempre.
Perché, sebbene questi dubbi fossero una costante nel mio tempo “normale”, erano anche zavorre che sparivano quando arrivavo finalmente a occupare il mio tempo. Ma non per malriposti deliri di onnipotenza – tutta questa struttura ha una sua patologica razionalità, mi pare -, ma perché chi sa che cosa è meglio per noi siamo noi, ad un certo punto. E a volte ci scopriamo capaci di cose che non avremmo mai immaginato di poter fare.
Con Cesare ho tirato fuori risorse che non credevo di possedere. E non perché abbiamo deciso di riprodurci con la convinzione che la nostra vita non sarebbe cambiata – però, si va meno al cinema e non si va più a ballare. MA VA? -, ma perché capitano gioie, accidenti, disastri e luminosi momenti di felicità che, semplicemente, non è possibile immaginare prima. Non è una scoperta da ridurre all’argomentazione imbecille del TU CHE NON HAI FIGLI NON PUOI CAPIRE. È più una questione di superamento, da parte di una realtà piuttosto enorme e ramificata, delle tue capacità di previsione e di gestione dell’imponderabile.
Puoi sentire quello che ti raccontano gli altri e puoi costruirti accurati scenari, ma è difficile sapere con certezza com’è che la prenderai per davvero. Così come non si immagina bene la fatica. O da dove provenga l’energia che torna a soccorrerti quando pensavi di non starci più dentro. O la fonte misteriosa della pazienza che persevera nel sostenerti anche al quarto cucchiaino di cremina alla tapioca che finisce in terra, in microparticelle vaporizzate.

Non ho idea di come sia capitato, insomma, ma sono diventata molto più forte. E molto meno incline a pensare che il tempo che ho a disposizione possa continuare a dipendere dalle decisioni o dalle influenze di qualcun altro. Perché non tutte le cose hanno la stessa importanza. Non tutte le relazioni riescono a farci somigliare un pochino di più a quello che vorremmo essere. Non tutti i lavori ci rendono fieri di quello che stiamo facendo, o ci garantiscono uno scambio dignitoso tra quello che diamo e quello che riceviamo. Non tutto quello a cui ci dedichiamo o tutti i rapporti che coltiviamo sono tempo nostro.
Non voglio più avere bisogno di distinguerli, i due tempi.
Voglio che rimanga solo il mio.
Non voglio provare quella stanchezza devastante – mista a voglia di mettermi a letto e di rimanerci per cent’anni – che ti schiaccia quando fai malvolentieri e con grande macchinosità qualcosa che non ti appartiene e che, alla fin fine, neanche ti interessa. Voglio avere la possibilità di esserci – senza dover chiedere il permesso a nessuno – se ci sarà bisogno di me. Voglio che Cesare cresca sapendo che ci ha spalancato un vasto e inesploratissimo orizzonte di felicità – e che questa lucina molto brillante mi ha fatto venire voglia di migliorare anche il resto. Mi ha fatto vedere quello che c’era già, forse, ma che avevo paura di fare. Perché cambiare è difficile, è rischioso, ci espone al fallimento e alle cantonate. Ma, certe volte, ci salva. E trasforma tutto il nostro tempo in una specie di regalo, in un contenitore da riempire con quello che conta davvero. 
Andrà bene?
Chissà.
Ma ci proviamo.
Perché il coraggio non manca più.

 

Non tutti gli anni ti capita qualcosa di straordinario. Non tutti gli anni sono speciali. Certo, quelli bravi sul serio riescono a tirare fuori il buono anche dai periodi più catastrofici, ma ci vuole dell’impegno. E, comunque, non è detto che un anno pieno delle celeberrime “difficoltà che mi hanno insegnato tanto” si tramuti all’improvviso in un forziere colmo di meraviglie da ricordare con gioia e gratitudine. Io, in tutta franchezza, di anni che dimenticherei piuttosto volentieri ne ho quanti ne volete. Sono serviti? Certo. Me li sciropperei di nuovo? No, grazie assai.
In quest’anno che è appena finito, però, mi sembra di aver combinato qualcosa di memorabile. Quest’anno, chissà poi come, mi pare di aver fatto qualcosa di buono, di felice. La felicità si fabbrica in maniere bizzarre e misteriose, quasi sempre accidentali. È un fenomeno di complicata riproducibilità che spesso ha poco a che vedere con le intenzioni, che ti fa commuovere quando la intravedi nella vita degli altri ma che ti fa anche imbestialire, perché inevitabilmente ti domandi che cos’hai che non va, perché tutti si muovono mentre te rimani sempre lì, perché sembra che ogni volta ti manchi un pezzo per arrivare dove credi di dover piantare una bandierina.
Per certi versi continuo – e temo continuerò sempre – a sentirmi un passo indietro, ma perché funziono così e ciao.
A me, tipicamente, la cosa giusta da dire viene in mente due giorni dopo. Sono quella vestita un po’ troppo bene quando gli altri arrivano (saggiamente) con le ciabatte di gomma – e viceversa. Non sono brava a simulare simpatie e a coltivare relazioni astute. Non ho pazienza per chi significa poco per me ed è impossibile darmi degli ordini. Non mi sento particolarmente indispensabile e, di conseguenza, mi prendo poco sul serio.
Sono sbilenca, e sbilenca resterò.
È un peccato, forse, ma ho deciso che va bene così. Perché, nonostante le mie numerose goffaggini, sto riuscendo a fare cose assolutamente impensabili. Almeno per me. Ed è questa la cosa davvero strabiliante. Scoprirsi capaci di cavarsela in un territorio dove mai avremmo creduto di poter mettere piede, perché ci sembrava un posto troppo remoto e troppo difficile da raggiungere. Un posto che, tutto sommato, non ci sentivamo pienamente in diritto di abitare.
Nulla di quello che mi è capitato in questi ultimi anni felici è riuscito a cancellare completamente il sospetto della candid-camera. Forse è per questo che non ho mai smesso di impegnarmi. O di stupirmi davvero moltissimo di fronte ad ogni mattoncino importante che sono riuscita – non si sa bene come e di certo non da sola – a incastrare al posto giusto.
Quindi sì, è così che è andata.
L’anno scorso non ho fatto nulla di inedito nel vasto panorama della storia umana. Ma mai al mondo avrei pensato di ritrovarmici. E di uscirne indenne. E di scoprire che così tante cose all’apparenza assurde e gigantesche sono, in realtà, assurde e gigantesche ma possibili. Ho fatto fatica e continuo a non capirci un granché, ma sono arrivata in fondo con la sensazione di aver creato, strada facendo, della felicità dove prima non c’era niente. Della felicità nuova.

Come ormai ben saprete, sto cercando di metabolizzare l’intricata faccenda della maternità. Sia chiaro, la felicità che provo è fiammeggiantissima e assoluta, ma sono parecchi anche i dubbi, le incertezze, le legittime preoccupazioni e le ansie da prestazione. Sono al quinto mese (abbondante) e comincio a domandarmi con una certa insistenza come sarà, davvero, provare ad allevare un Minicuore. Penso alle semplici azioni della nostra quotidianità e mi domando che cosa cambierà. Mi guardo intorno per casa, cercando di capire come lo spazio dovrà adattarsi al mini-umano che, fra qualche mese, si materializzerà fra noi. Riempio la lavastoviglie… e mi chiedo se ci potrò cacciare dentro un biberon. O un ciuccio. I ciucci vanno in lavastoviglie? A che temperatura posso serenamente lavare un bodino da neonato senza che si disgreghi? Di quanti bodini avrò ragionevolmente bisogno? Quale tra le cento possibili allacciature di bodini che esistono in questa galassia è la più pratica? E via così, in eterno.
Tutta questa roba super sconclusionata si può facilmente riassumere in un unico macro-quesito: sarò una madre orribile o, prima o poi, capirò che cos’è necessario fare? Cioè, l’ideale sarebbe incappare in una repentina illuminazione, tipo Mosè. Anch’io voglio arrampicarmi all’improvviso su per un dirupo e ricevere le tavole della legge e una fiducia incrollabile nella provvidenza.
Sarebbe funzionalissimo e particolarmente opportuno.
Pensateci. Domani salgo su un ponticello del Naviglio, il cielo si apre, una luce celestiale mi investe e, senza un perché, mi appare il sacro spirito della Chicco – avvolto in una nube di borotalco – per rivelarmi come si fa a scegliere un passeggino.
La vita.
Visto che la fede, diciamocelo chiaro e tondo, non è precisamente il mio cavallo di battaglia, ho deciso di procedere per gradi. Empiricamente e interattivamente. Facendo una cosa che mai al mondo, lo giuro sui velociraptor di Chris Pratt, avrei mai pensato di fare.
HO PARTECIPATO A UN EVENTO PER MAMME.
Anzi, ho pure un’aggravante.
HO PARTECIPATO A UN EVENTO PER MAMME IN QUALITÀ DI MAMMA BLOGGER.
Ma tenetevi forte, che non è mica finita.
E MI È PURE PIACIUTO.
Parliamone. Razionalmente.

Sabato scorso – quando era ancora estate, per intenderci -, mi sono levata il pigiama, mi sono vestita al meglio delle mie gravide possibilità, ho messo quattro carabattole in uno zaino con gli unicorni e mi sono presentata a #BabyShowerIT, una giornata di “istruzioni per l’uso” pensata per mamme in attesa (e volenterose neomamme) organizzata da Fattoremamma in collaborazione con Chicco, Envie de Fraise, Humana e Voihotels.
Il posto, lasciatemelo dire, non era malvagio.

IMG_9621

Gli addobbi e le decorazioni – super minimal – mi hanno causato una sorta di vertigine iniziale, accompagnata da un’avvisaglia di coma diabetico. Dopo aver bevuto un sorso d’acqua, però, mi sono resa conto che, in determinate circostanze, abbandonarsi senza ritegno ai colori pastello e ai dolcetti a forma di orsacchiotto può essere liberatorio, salutare e assai rasserenante. Il mondo può ossere orribile, ma i biscotti per le feste dei bambini ci salveranno.

IMG_9616

IMG_9614

IMG_9619

Oltre ad imparare il più possibile sugli infanti – seguendo uno dei millemila incontri supermultidisciplinari disponibili (dal massaggio neonatale ai consigli alimentari di Marco Bianchi, fino ai suggerimenti su come fare attività fisica anche con una pancia che va da qui a Gossolengo), uno dei miei felici compiti era quello di collaudare la nuova collezione di Envie de Fraise, un marchio francese specializzato in moda premaman. Visto che Minicuore arriverà a metà settembre e che, se tutto va bene, raggiungerò dimensioni vergognose proprio nel bel mezzo dell’estate, la faccenda dell’abbigliamento mi è sempre sembrata un problema non trascurabile. Ci sarà caldo e sarò una specie di orca assassina… che cosa diavolo dovrei mettermi, a parte un tendone circense? O un paracadute? O uno di quegli striscioni da Champion’s League che coprono una curva intera? O un lenzuolo queen-size? O un copridivano?
E invece no.
Ho scoperto che c’è speranza anche per le gravide.

Chiara Fracassi for Direzione Ostinata

In un moto di fiducia assolutamente inedita nelle mie possibilità, ho accettato di indossare una jumpsuit rosso fuoco (la prima jumpsuit mai provata nella vita) e di zampettare su e giù per una sala piena di portatrici sane di megapancioni. A parte l’autostima totale che solo una roba tipo fare la (PSEUDO)modella nel momento di massimo gonfiore mai raggiunto nella vita può regalarti, ho scoperto che le tute sono meravigliose. E che Envie de Fraise può, effettivamente, salvarmi dal disagio del Ferragosto.

IMG_9599

Durante la giornata mi sono anche resa conto che tutto quello che dovrò comprare per Minicuore potrà, potenzialmente, essere a forma di animaletto. Tale consapevolezza, come potrete ben immaginare, sarà il mio imperituro sostegno. Tipo. I bavaglini di silicone con pratica vaschetta raccoglimastichini e raccoglimangiarini esistono anche a forma di gufo, giraffa, ippomaiale e cento altre bestie. TUTTO, NEL MONDO DEGLI INFANTI, PUÒ AVERE SEMBIANZE DI BESTIOLA.
Sono raggiante.

IMG_9620

Comunque.
Sentendomi ormai molto padrona della situazione, ho deciso di iscrivermi con piglio e decisione al laboratorio di decorazione di bodini per neonati. Funziona così: la Chicco ti fornisce un minuscolo body di cotone purissimo e assolutamente immacolato – alto, ve lo giuro, circa sei centimetri – e tu, armata di pennarelli, colori per stoffa e formine, devi fare del tuo meglio per rovinarne irrimediabilmente la candida armonia. La cosa molto confortante, comunque, è che tuo figlio potrà venire a rinfacciartelo solo dopo aver raggiunto l’età della ragione… e che voi potrete infallibilmente contrattaccare giocandovi la carta dell’abnegazione materna: “Minicuore, io ci ho messo tutto l’impegno possibile. È il gesto che conta. È l’amore”.
Ecco.
Un’altra cosa che ho adorato del laboratorio di decorazione di bodini è l’impegno che ci abbiamo messo tutti quanti. Mi sono ritrovata a un tavolo con un vasto gruppo di future madri ormai del tutto adulte che, con la massima serietà, hanno trascorso un’ora a domandarsi vicendevolmente roba di questo tipo: “Non è che là da voi c’è lo stampino a forma di gatto?”. “Mi passi il pennarello rosso, quando hai finito?”. “DOV’È IL BLU”. “Ho combinato un casino. Cosa dici, fa schifo? Si capisce che è una nave?”. Il mio personalissimo contributo è stato il seguente: “LO STAMPINO A FORMA DI DINOSAURO. MA ORA ME LO DITE. C’ERA UNO STAMPINO A FORMA DI DINOSAURO! MA HO FINITO, ORMAI. NON LO POSSO USARE. COME FACCIO. MI SENTO MALE! LO RUBO. NON MI INTERESSA. IO LO RUBO”.
In compenso, con l’amore, ho prodotto questa roba qua. Spero basti.

IMG_9622

Forse con la tuta rossa ero un po’ buffa. E forse il mio bodino non è precisamente un capolavoro. Forse potevo imparare più cose, seguire più lezioni, ascoltare meglio e imparare a memoria l’intera tabella nutrizionale dei biscotti Humana (senza olio di palma!). Forse andrà sempre così: cercherò di capirci il più possibile e avrò sempre la sensazione di non essere mai brava abbastanza.
Per questa settimana, però, credo vada bene così. 
Ho cominciato.
Ho fatto qualche piccolo esperimento.
Ho capito, guardandomi intorno, che posso riuscirci anch’io.
La cosa davvero bella, credo, è proprio questa.
Dopo quasi sei mesi di *Insert coin – Loading Minicuore*, non mi sono sentita stramba. O un po’ sola. O spaesata. O la prima femmina al mondo a sperimentare un certo tipo di mal di pancia. Mi è sembrato di aver trovato un piccolo branco di voluminose dinosaure con cui continuare a brucare verdura rigorosamente sterilizzata col bicarbonato. O bollita. O cotta al forno. O precedentemente surgelata.
Cioè, capite quanto è complicato?
Uno mica scherza.
Neanche la verdura puoi mangiare in pace.
Una vita a sentirti dire che la verdura fa bene… poi sei gravida e ci metti due ore a disinnescare un’insalata.
Ma che vita è.
DATEMI UN BODINO. MI CALMO SOLO SE DECORO UN BODINO.

Grazie per l’ospitalità, #BabyshowerIT. C’è ancora molto da fare, ma è stato adorabile iniziare insieme a voi. 🙂

Data l’enormità della vicenda, direi di cominciare dai fatti.
Aspettiamo un Minicuore.
Siamo vergognosamente felici.
Ci sentiamo molto fortunati.
Minicuore dovrebbe arrivare a settembre.
A settembre, in sintesi, diventeremo genitori.
Io e Amore del Cuore.
Genitori.

karen ooh

Ripeto, genitori.
Di un essere umano.
Fra più o meno cinque mesi.

karen bottiglia

Ecco.
Minicuore, al momento, sonnecchia da qualche parte nella mia pancia. In questo istante – anzi, in questa EPOCA GESTAZIONALE -, dovrebbe essere grande all’incirca come un avocado. Minicuore è del tutto ignaro delle paranoie da adulta iper responsabile che mi sto facendo, delle scompostissime manifestazioni d’affetto dei futuri nonni e del traffico clandestino di ecografie sfocate che si sta consumando su WhatsApp. Il record del regalo più veloce è stato conquistato dalla bisnonna, che ha saggiamente deciso di occuparsi del vestiario, commuovendoci oltremodo. Al momento, quindi, il guardaroba di Minicuore comprende un paio di calzerotti bianchi imbottiti e un camicino ricamato – in pura seta – denominato Camicino Portafortuna. MADRE – che avrà presto bisogno di un nuovo appellativo… tipo MADRE², come un sequel di Alien – ha deciso di tramandarmi un tomo Rizzoli degli anni Ottanta (che spiega per filo e per segno come gestire un infante) e un libro di yoga per gravide. Perché non sei mica in dolce attesa. O incinta. Un dottore non userebbe mai un termine così approssimativo. Per il dottore sei GRAVIDA. Come una specie di grande mammifero ruminante… al quale, prima o poi, finirai probabilmente per assomigliare.
Ciao a tutti.
E benvenuti al making-of di Minicuore.

karen yay

Secondo rigorosi calcoli scientifici, Minicuore si è manifestato alla fine di dicembre, tra il santo Natale e la caciara di Capodanno. Ha quindi partecipato ai festeggiamenti per l’arrivo del 2016, a una settimana bianca – con tanto di rovinosa caduta in un fosso -, a un devastante weekend aziendale sulla neve, a svariati allenamenti di tennis e a diversi tragitti in motorino sull’infido pavé milanese.
Perdonami, Minicuore. Non sapevo che ci fossi anche tu.

karen headless

Il primo a sapere dell’esistenza di Minicuore è stato Ottone von Ostetrica. Prima ancora di Amore del Cuore, che ho cacciato di casa per poter fare serenamente la pipì su due stecchini.

I test di gravidanza che vi vendono in farmacia hanno nomi stronzi. Quello che hanno dato a me, per dire, si chiamava TEEN TEST. Mi sono sentita piuttosto lusingata, visto che non sono una teenager da circa quindici anni, ma ho comunque provato un discreto disagio. Era fucsia. Con una confezione dall’aspetto a dir poco cialtrone. E la farmacista è tornata da me sventolandolo per aria, tutta fiera e felice. Ma che cosa sventoli, cretina. Un po’ di discrezione. Qua vicino c’è il mio ufficio. Questi inopportuni sventolamenti potrebbero causarmi svariati problemi diplomatici. Che siamo, sbandieratori del palio di Siena? Sono pure molto agitata e in ansia per le sorti del mio utero e del resto della mia esistenza, gradirei della comprensione e una punta di sensibilità. Un po’ di rispetto, contegno e riservatezza, cazzo.

karen lady

Comunque.
Subito dopo aver scoperto di essere incinta, la donna media viene travolta dal bisogno di capire. Vuoi capire che cosa sta succedendo. Vuole che qualcuno le spieghi tutto quello che può andare storto. Sei lì, all’inizio di un’esperienza praticamente impossibile da gestire con lucidità e hai bisogno di rassicurazioni, istruzioni e consigli qualificati. Ti preme tantissimo comprendere se quello che senti è normale o se, in estrema sintesi, stai morendo o stai inconsapevolmente facendo del male alla minuscola persona che ti porti a spasso.
Che fai, quindi?
Visto che la tua ginecologa non ha la pazienza di Giobbe – e che tecnicamente non è pagata per rispondere ai tuoi quesiti notturni sull’effettiva pericolosità della tinta per capelli -, devi industriarti diversamente. E ti scarichi delle APP.
Le APP per donne gravide si chiamano in maniera volutamente rassicurante. Sono tutte rosa, con le icone tondeggianti e un casino di diagrammi coccolosi. Utilizzano un linguaggio molto particolare. O ti trattano come una ritardata – nomignoli e melensaggini comprese – o danno per scontato che tu sia un premio Nobel per la medicina. Accanto a detestabili panegirici sulla gioia infinita che l’utilizzo di un termometro rettale per neonati potrà regalarvi, vi troverete di fronte a muri compatti di testo che descriveranno minuziosamente le principali disgrazie genetiche che potranno assalirvi se vi azzarderete anche solo a guardare un cespo di lattuga senza averlo prima sterilizzato con un lanciafiamme. Non c’è una via di mezzo. “Sarete madri meravigliose, siete nate per questo!” – MA CHI? -, “Il vostro pargoletto ha appena compiuto cinque splendide settimane. Regalatevi un bel bagno rilassante con tante bolle!” – CHE SONO, UNA BALENA? COME TI PERMETTI. Oppure “la mucopolisaccaridosi di tipo II (MPS II), è una grave malattia genetica che interferisce sulla capacità del corpo di scindere e riutilizzare specifici mucopolisaccaridi conosciuti anche come glicosaminoglicani o GAG”. Chiaro, no? Non ti agiti per niente a leggere una roba così.
Quando mi sono resa conto di aver paura del reparto ortofrutticolo del supermercato e di aver cominciato ad approcciarmi alla faccenda con la stessa spensieratezza di Josef Mengele, ho deciso di disinstallare tutto.
Grazie tante, ma ho già una vasta collezione di pippe. Non mi serve che me ne suggeriate delle altre.

karen dance

Oltre a non fidarmi più di niente e di nessuno, ho anche perso ogni velleità mondana.
Parliamoci chiaro. Che cosa esco a fare?
Non posso bere, devo fare la pipì ogni 5 minuti e casco dal sonno. Provo fastidio per qualsiasi cosa e, progressivamente, non avrò più nulla di decente da mettermi.
Io non ci voglio venire in giro con voi.
Cos’è, vi serve qualcuno che vi guardi bere dei gin-tonic o pensate di potercela fare da soli? Lasciatemi qui, per me è tutto finito.

karen they drink

Uno degli aspetti della gravidanza che sto cercando di accettare – faticosamente – è la progressiva ed inesorabile perdita di controllo sul mio organismo. Tanto per cominciare, la dottoressa mi ha confermato che ingrassare è legittimo (se non doveroso) e che, nel mio caso, sono autorizzata a mettere su dagli otto ai dieci chili. Mi ha anche proibito di continuare a giocare a tennis e di svolgere qualsiasi attività sportiva eccessivamente esuberante, per evitare di causare smottamenti uterini che potrebbero disturbare il serafico sviluppo di Minicuore. Partendo dal mio metro e settanta per sessanta chili di peso – misure che mi rendono già un discreto monumento ambulante – sono dunque condannata a trasformarmi in un sonnacchioso dugongo? Nella vita ho sempre svolto sport da cavapietre e, in questa specifica circostanza, non ho veramente idea di come comportarmi. Che cosa fanno le altre femmine? Nuotano con la tavoletta? Ballano il liscio? Impastano i maccheroni per rafforzare gli avambracci? Ma soprattutto, quando potrò utilizzare per la seconda volta le mie meravigliose racchette nuove, acquistate a Natale per propiziare il ritorno a una sana pratica agonistica nell’anno del signore 2016?
Non ci è dato saperlo.
MADRE, in compenso, ha dichiarato che stare qui a preoccuparsi non serve. Quest’estate sarai una mongolfiera. Mettiti il cuore in pace e siediti sotto la bocchetta dell’aria condizionata.
Il morale è tutto, mi dicono.

karen ok

Un’altra cosa che non so come gestire sono le tette.
Le mie tette sono ovunque.
Vivo con delle tette giganti che fanno malissimo e che, con mio grande sgomento, sembrano destinate ad espandersi all’infinito. Non so come fermarle. Non m’ascoltano. Non so chi credono di dover nutrire. Ho cercato di informarle che c’è ancora un po’ da aspettare, ma perseverano nell’aumentare vanamente di volume.
Prendetevele.
O parlateci voi. Io non so più come spiegarmi.
Tanto per accrescere i miei sempre più invadenti problemi d’abbigliamento, solo due tra i reggiseni che possiedo – quelli di Intimissimi senza il ferretto – mi stanno aiutando ad arginarle. Ne ho comprato uno da Prenatal – di cui ho già voglia di dire tutto il male del mondo -, ma è come andare in giro senza, come una gioiosa vacca d’alpeggio. Ma scusate, non mi posso comprare degli onesti e pacifici reggiseni sportivi? Cioè, sono meglio di quelle cazzate da donna gravida. Non schiacciano troppo, non si sposta niente, non ti fanno bozzi strani sotto le magliette e sono psicologicamente una manna. Non posso manco raccogliere una pietra da terra, ma almeno il reggiseno da principessa guerriera lasciatemelo usare, maledizione.

karen tette

Una roba bella, comunque, è che non ho vomitato all’alba nemmeno una volta. Mi alzo di notte a fare la pipì più spesso di un signore di ottant’anni, ma per quanto l’esistenza tenda talvolta a nausearmi, di nausee neanche l’ombra. La mia amica Anna non riesce a spiegarselo. Lei, poveraccia, è stata male come un cane e, di tanto in tanto, mi scrive per sincerarsi delle mie condizioni. “Nausee?”. Niente, Anna. Qua non si vomita. Non sta accadendo e basta. Fidati, non è colpa mia. Il favore di vomitare almeno una volta te lo potrei anche fare, ma non ci sarebbe spontaneità. “Allora è un maschio, per forza. Con le femmine la nausea ti viene sempre”. La saggezza popolare mi fa venire il voltastomaco, ma per questa volta continuerò a digerire felicemente tutto quello che ingurgito.

karen cheers

Gli effetti degli ormoni – ormoni che ignoro – sulla personalità di una femmina gravida sono assolutamente imprevedibili. Io, per dire, ho cominciato a ridere a crepapelle per cose imbecilli. Ma per dei quarti d’ora, con le lacrime, rotolandomi sul divano. Rido come una pazza. Visto che non ho mai sperimentato prima d’ora attacchi di ridarola di questa portata – Amsterdam a parte -, cerco sempre di capire con Amore del Cuore se quello che mi sta facendo ridere moltissimo è oggettivamente divertente o se sono solo io che sto perdendo il senno. Se trovo una cosa che mi fa molto ridere, cerco il modo di sottoporgliela. Nel 96% dei casi sono robe che rasentano l’impresentabilità e il mio sproporzionato divertimento è un chiaro sintomo della mia lenta discesa nella pazzia. Ma io sono molto felice, quindi vaffanculo.

karen laugh

Ma non preoccupatevi, perché ho anche il problema opposto. È più una faccenda di rabbia, in realtà. Mi incazzo violentemente per qualsiasi cosa. I miei livelli di pazienza sono scesi a zero e tutto quello che prima non mi piaceva un granché ora si è automaticamente tramutato nel male del mondo. Prima dell’insediamento di Minicuore potevo pacatamente affermare una roba tipo “il gelato al pistacchio non è di mio gradimento”. Ora va così: “il gelato al pistacchio è la merda. Odio il gelato al pistacchio e quello stronzo che l’ha inventato. Il gelato al pistacchio è il simbolo del declino della civiltà occidentale. Il gelato al pistacchio mi fa schifo! Che aspetto ha un pistacchio, poi? Dove cresce? Com’è fatto? PORTATEMI UNA PIANTA DI PISTACCHIO, LA FARÒ A PEZZI CON UN MINIPIMER DA GUERRA!”.
Pensate quanto è piacevole lavorare con me in questo periodo.
Pensate quanto è bello accompagnarmi da H&M a scegliere dei pantaloni in grado di contenere la mia pancia in espansione.
Pensate quanto ci si rilassa alle riunioni di famiglia.
Non ci sono alternative. O sono sul punto d’addormentarmi, o rido fortissimo o m’incazzo come un treno. Vedete voi.

karen liver

Hai la febbre? Prendi la Tachipirina.
Hai mal di testa? Prendi la Tachipirina.
Hai la tosse? Prendi la Tachipirina.
Hai il raffreddore? Prendi la Tachipirina.
Hai l’influenza? Prendi la Tachipirina.
Hai mal di gola? Prendi la Tachipirina.
Visto che la Tachipirina sembra in grado di rispondere a qualsiasi necessità dell’essere umano, mi chiedo e domando perché – in condizioni normali – ci si prenda la briga di diversificare il consumo di farmaci utilizzando assurdità come il Moment Act, l’Aspirina, il Brufen, l’Oki, l’Efferalgan e compagnia cantante. Sono confusa. Sono perplessa. E spero ardentemente di non ammalarmi mai più.

karen wtf

La sala d’aspetto di una ginecologa è un luogo abbastanza spaventoso. Ci arrivi in preda all’agitazione – è passato un mese dall’ultima visita, Minicuore starà bene o gli sarà all’improvviso spuntata la coda? – e tutto quello che desideri è che la dottoressa ti chiami e ti dica che non c’è niente che non va. Invece no. Visto che anche le altre future madri hanno bisogno di pacche sulle spalle e interminabili rassicurazioni, il tempo di attesa – rispetto all’ora prestabilita del vostro appuntamento – è di minimo un’ora. Tanto per prendere le misure, taratevi sugli UCI Cinemas. Il film comincia alle 21? Favola. Preparatevi a sciropparvi cinquanta minuti pubblicità piene di panini parlanti.

karen deserve

In quell’oretta di angoscia accadono, tipicamente, le seguenti cose. I mariti e i fidanzati si stabilizzano sulla lettura di un settimanale sgualcito o spippiolano col telefono. Le donne, dopo aver cercato di tirarli in mezzo discutendo di amenità e vita domestica, alzano bandiera bianca… e cominciano a rompere l’anima a te. Non so cosa pensino, di preciso. Ma guarda, sei gravida anche tu. Quante cose abbiamo in comune! Provo l’irrefrenabile bisogno di raccontarti per filo e per segno il mio ultimo (e CRUENTISSIMO) parto. Io non ti conosco, signora. E non ho alcun bisogno di sapere quanti punti ti hanno messo alla patata dopo la nascita del piccolo Piergiacomo. Mollami, te ne prego.
All’improvviso, poi, irrompe un passeggino.
Le pazienti che hanno finalmente partorito – auspicabilmente meglio della madre di Piergiacomo -, tornano dalla dottoressa a sbandierare la loro creatura e a farsi spiegare che cosa ne sarà del loro apparato riproduttivo.
Niente, se arriva un infante è la fine.
Le gravide sclerano. Si alzano in piedi, corrono verso la carrozzina, afferrano manine e piedini e scatenano una specie di uragano di complimenti e smancerie. MA CHE BELLO. MA CHE BRAVO. MA QUANTO TEMPO HA. PAOLO! GUARDA, PAOLO! NON È UNA MERAVIGLIA? MA CHE SCARPINE TENERE, MA DOVE LE HAI PRESE? SANTO CIELO, HA VOMITATO! MA CHE CARINO!

karen pretend

Comunque.
Sei lì da cent’anni. Hai simulato un cortese interesse nei confronti delle vicissitudini uterine della mamma di Piergiacomo e ti sei appiattita contro una parete per permettere alle gravide più umane e sensibili di te di circondare festosamente il passeggino della prima madre apparsa nel loro radar. Quando hai ormai perso le speranze, però, la dottoressa appare e ti salva. E, sei minuti dopo, stai ascoltando il battito di un Minicuore. Questo è il femorino. Questo è l’avambraccino. Lì c’è il naso. Quello è lo stomachino. Qui c’è la spallina. E ciao. Il tuo cervello si trasforma in un budino turchese pieno di stelline di zucchero.

Minicuore è un maschio, stiamo facendo del nostro meglio e, in buona sostanza, 
non vediamo l’ora di conoscerlo.
Tutto il resto è gelato al pistacchio. 

karen haha