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Qui siamo nelle profondità di un WTF di notevoli proporzioni, ma a Li Kotomi bisogna riconoscere l’impegno: con Se vuoi nascere o no – in libreria per Mondadori con la traduzione di Anna Specchio – fa più burocrazia che filosofia, ma forse ci va anche bene così.
Dove siamo? In un Giappone coi taxi volanti a guida autonoma e i camerieri robot, in un futuro che ha superato discriminazioni di genere e/o orientamento e ha introdotto una regolamentazione piuttosto peculiare della gravidanza: ogni feto, nell’ultimo trimestre di gestazione, deve far sapere alla famiglia se intende o meno venire al mondo e la decisione deve per legge essere assecondata.

Tutta questa faccenda del consenso del feto alla nascita si basa sulla fantomatica scoperta di un linguaggio primordial-basilare che rende possibile la comunicazione e viene anche influenzata da un Indice di Difficoltà di Sopravvivenza che tiene conto della condizione specifica della famiglia ma anche delle asperità planetarie contingenti. Vuoi costringere a nascere un feto che ha deciso di evitarlo? Ti mettiamo in galera. Non pensi che il feto abbia gli strumenti per immaginare la sua vita futura e per decidere in maniera informata? Forse hai ragione, ma comunque devi obbedire – o camperai con uno stigma eterno.

Per aiutarci a sviscerare la situazione e a vederla da diverse angolazioni, Kotomi popola la storia di “casi” emblematici e il nostro punto di vista centrale è quello di una coppia di donne che aspettano una bambina, desideratissima e ci si augura anche propensa a nascere. C’è chi si oppone (anche con violenza) al sistema delle Nascite Consensuali, ma la società in blocco pare trovarlo civilissimo: è un diritto, da contrapporre a un passato governato dall’egoismo e dall’arbitrio genitoriale. Con che coraggio si potrebbe condannare alla vita un feto che dice NO? Sarebbe un’esistenza ritenuta automaticamente grama e ingiusta e quale famiglia vorrebbe macchiarsi di una prepotenza così crudele? Non è meglio rinunciare a nascere, se ci si rende conto che campare potrebbe rivelarsi semplicemente TROPPO difficile?

Il dilemma è affascinante e Kotomi produce abbondanti puntelli “pratici” e spiegotti procedurali per convincerci a riflettere insieme a lei, ma quel che succede è più che altro un giocone delle parti: c’è un impianto argomentativo per i pro e uno per i contro e ogni conversazione o dilemma interiore ruota sempre attorno ai medesimi punti. E parlano, in sintesi, solo di quello. Non c’è altro nel mondo, pare. Certo, da una coppia in attesa ci si aspetta una forte focalizzazione su quel tema lì, ma è un po’ bizzarro lo stesso. Sono personaggi o sono funzioni? Sono funzioni che esemplificano una posizione. Se vi va di pensarci su con loro è comunque un esercizio speculativo matto abbastanza da lasciarsi esplorare con interesse.

Di Matrescenza di Lucy Jones abbiamo parlato, ma mi sembra più che opportuno segnalare anche il lavoro di Francesca Bubba, sia perché si concentra sul contesto della maternità in Italia e anche per come sceglie di farlo. I dati che riguardano il nostro paese diventano una chiave interpretativa per moltissimi dei crepacci in cui continuiamo a essere spinte – mentre ci dicono che è ora di spingere, signora – ma anche un punto di partenza per costruire uno scenario diverso. Se dati ed evidenze esistono – per fenomeni medici, socio-economici e lavorativi -, esistono anche per combinarci qualcosa e per aggiungere la maternità tra le molte “opzioni” a nostra disposizione, come soggetti indipendenti e realmente nelle condizioni di scegliere.

Preparati a spingere – in libreria per Rizzoli e anche ascoltabile su Storytel – è un saggio che usa il corpo (anche quello di chi scrive) per parlare del sistema in cui quei corpi sono inseriti, delle aspettative che deformano l’esperienza della maternità e la caricano opportunisticamente di nozioni produttive, d’efficienza e di nobili sacrifici che restringono il nostro orizzonte d’azione, invece di allargarlo. In questi orizzonti piccoli prosperano solitudini che diventano terreno fertile per reti di sostegno fittizie, predatorie e francamente spaventose – che Bubba indaga e mappa. Parecchie sono le pagine che vi faranno arrabbiare, ma vi ritroverete anche a maneggiare quella legittima reazione con un’accresciuta consapevolezza – e forse con un carico più leggero sulle spalle. Non perché le storture strutturali sono magicamente scomparse, ma perché chiamarle col loro nome – e trascinarle alla luce del sole perché le si possa vedere e riconoscere – è l’inizio di un sentiero che va percorso insieme.

Ho senz’altro letto più cose a tema maternità dopo l’abbondante conclusione delle mie gravidanze che nella fascia di caotica necessità di capirci qualcosa che coincide con l’incubazione. Possiamo pure dire che, da gravida, non ho letto niente e che, anche dopo, ci ho messo degli anni a razionalizzare davvero un’infinità di aspetti dell’esperienza fisica, emotiva, pratica e relazionale della maternità. Di certo, mi sembra di essere più capace di “capire” ora, ma dipende anche un po’ dall’arrivo sulla scena di un genere di saggistica che non ha l’obiettivo di spiegarci come si gestisce un neonato ma, invece, sposta il fuoco sull’esperienza delle madri, in un contesto contemporaneo.

Il fatto che i manuali che sperano di risolverci le rogne della nanna, della pappa, dell’allattamento e dello spannolinamento siano andati statisticamente per la maggiore è (anche) il prodotto di un grande vuoto d’interesse, che comincia a concretizzarsi appena un neonato abbandona la pancia per affacciarsi al mondo. Le madri, che per nove mesi sono state monitorate, misurate, analizzate e “gestite” si trasformano repentinamente in soggetti che devono assolvere una serie di funzioni, senza però essere accompagnate da un sistema di cura altrettanto strutturato e imperativo. Per Matrescenza – in libreria per Laterza con la traduzione di Alessandra Castellazzi – Lucy Jones parte proprio da qui, da quel vuoto di studi, attenzioni cliniche e psicologiche e dalle lacune nella sostenibilità della vita quotidiana che accompagna le neo-madri, che sembrano spesso armarsi e partire per conto loro in una missione campale.

Il termine “matrescenza” ha qui il compito di descrivere il periodo – in realtà ben più lungo e articolato di una gravidanza – in cui una donna si assesta nella nuova condizione di madre. Jones, che di lavoro fa la giornalista scientifica, unisce alla sua esperienza (ha avuto tre figli) un ricchissimo sistema di fonti capaci di rendere meno opaco e meno trascurabile questo momento di passaggio. Dagli studi neuroscientifici alle lacune nell’informazione delle gestanti, dagli sforzi per affrontare (o renderci consapevoli) degli strascichi fisici del parto alla necessità di un approccio privo di stigma al sostegno psicologico, Jones parla di corpo per parlare di identità, autonomia, sicurezza, benessere, mente, medicina, legami, lavoro e società.

Chissà, probabilmente da gravida non avrei letto nemmeno questo libro, ma il fatto che adesso ci sia mi fa ben sperare. E finalmente, forse, ho qualcosa da consigliare a chi mi chiede spessissimo “sono incinta! Cosa leggo per prepararmi?”. Magari qualcosa di rigoroso e ben documentato che ti ricordi che continuerai a esistere anche tu, amica.

Con me le infanzie e le adolescenze funzionano poco. Forse perché vorrei liberarmene ma il brutto mi è rimasto attaccato e non ne posso più e dentro non ci trovo nulla che sia nutriente o istruttivo, non lo so. Fatti miei, comunque. L’infanzia e l’adolescenza che Annie Ernaux proietta in La donna gelata, però, producono insieme una specie di matrice, uno stampo che contraddice le aspettative del resto del mondo. Una madre che lavora in drogheria, tiene i conti e ricama ben pochi centrini di pizzo. Un padre che pela serenamente le patate e sta assiduamente accanto a sua figlia, senza temere che gli caschi in terra l’apparato genitale. È uno stravolgimento dei ruoli ritenuti tradizionali, naturali e auspicabili che a Ernaux pare normale perché ci è cresciuta in mezzo, ma che è molto diverso da quello che capita nelle case delle amiche e delle compagne di scuola – comprese quelle che le sembrano più emancipate, indipendenti, “ricche” o “povere” che siano.

Come si diventa grandi, dove ci si colloca, cosa ci si può permettere di sognare e immaginare se i modelli a disposizione sono così insoliti per i canoni condivisi e se, visceralmente, non si percepisce il matrimonio (o la maternità) come l’unico traguardo possibile? Ernaux orbita attorno a questo dilemma, strattonata tra la necessità di studiare, di andarsene, di coltivare un’ambizione e la necessità altrettanto profonda di sentirsi scelta, amata, vista da un ragazzo capace di staccarsi dallo sfondo e dalle convenzioni. Un pari, un amico, un amante, una specie di novità antropologica che la tratti come un essere umano e che la convinca della praticabilità di un futuro insieme, di una dimensione migliore dell’indipendenza priva di vincoli.

Lo trova? Le pare di sì. Ed è qua che troviamo anche il cuore del libro – tradotto da Lorenzo Flabbi per L’Orma e per quest’edizione “ridisegnata” in Bur/Rizzoli –, il nucleo gelato del titolo e del destino di innumerevoli donne, quasi tutte sorridenti, solerti e silenziose. Ernaux non nega alle altre la possibilità di realizzarsi in una dimensione che per lei risulta annientante, ma racconta con puntiglio chirurgico di aver preso molto male le misure. O meglio, di essere finita in una specie di imboscata, pur illudendosi di aver scelto la sua strada e dato seguito a una riconosciuta felicità. Cosa fai, quando scopri di esserti trasformata, solo un paio d’anni più tardi, nel prototipo della femmina che compativi e che ti faceva orrore?

Ernaux è di una precisione disarmante, essenziale e complicata insieme. Consegnarle un matrimonio e la maternità serve ancora, perché ha avuto il coraggio – in tempi (ancora) più ostili dei nostri – di dubitare dell’illusione, di analizzare un’infelicità, di imbastire un discorso sul potere e di alzare una mano per ricordare che le mani servono anche a scrivere, oltre che a brandire dei mestoli.

Con Nicoletta Verna non ho badato granché alla cronologia delle pubblicazioni, temo. L’ho incontrata per la prima volta con I giorni di Vetro – che trovate anche qui insieme a un meraviglioso giro per i luoghi del romanzo, nella “sua” Castrocaroe ho recuperato solo in queste settimane Il valore affettivo – uscito sempre per Einaudi Stile Libero. Un esordio di rara densità e fluidità di comunicazione fra il dentro e il fuori dei personaggi… anche se, per la sua Bianca, quel che succede è quasi tutto dentro, perché è nascosti alla vista e all’intuizione di chi ci sta accanto che i segreti macerano e si trasformano. Anzi, Bianca è sostenuta da un piano assurdo costruito sulle fondamenta di un grande mistero: la verità sulla morte di sua sorella, l’evento che ha deformato per sempre – e irrimediabilmente – la sua famiglia. 

Bianca ha sette anni, quando Stella muore. Pare essersi trattato di un incidente in una tremenda giornata tempestosa, una fatalità sinistra ma priva di macchinazioni – se escludiamo quelle del destino. Stella, la maggiore, è sempre stata il suo punto di riferimento, un rifugio sicuro e una fonte di inesauribile ammirazione. Anche Bianca è bella, ma non sarà mai magnetica come Stella. Mai così perfetta, universalmente adorata, magnanima nel gestire tutti i doni che le sono stati dispensati. Nulla, senza di lei, sarà più come prima. La madre sprofonderà in una pesantissima depressione che pare comporsi di mesi passati davanti alla televisione e repentini tentativi di suicidio, mentre il padre si farà sempre più evanescente, fino a levarsi di torno. L’evento inspiegabile e improvviso che ha eliminato Stella dall’equazione contamina il presente e rende il futuro impossibile da immaginare – a patto che ci si voglia arrivare, poi. Bianca, che non ha più una guida, cresce portando con sé un fantasma, una domanda destinata a non ricevere risposta e una muraglia invalicabile di ossessioni e stratagemmi che dovrebbero donarle l’illusione di poter controllare la sua presa sul mondo.

La Bianca che ci parla in “presa diretta”, però, è una persona all’apparenza lontanissima da quella bambina disgraziata. Sposata con un cardiochirurgo di fama mondiale – pure bono -, ricca e finalmente padrona della sua bellezza – che le ha donato pure un angolino di celebrità -, Bianca vive in un appartamentone degno di un editoriale da rivista patinata e conduce un’esistenza di agio e successo. Cos’è capitato in mezzo? Quel che c’è lì ci aiuterà a capire il “prima”? Verna colma gradualmente le lacune, descrivendo la caparbia metamorfosi di un personaggio che avanza senza mai spostare il proprio cuore dal punto nel tempo in cui si è spezzato. Bianca non vive per sé o per collezionare traguardi o vendicare un’umile origine: Bianca vive per restituirsi Stella. 

Il valore affettivo è un libro ipnotico e, temo, anche un libro che difficilmente vi donerà spensieratezza. Verna è abilissima nell’avvilupparci, trascinandoci nella testa di Bianca: siamo i suoi unici confessori, le uniche persone che davvero possono intuire quello che nasconde, quello che spera e quanto è fonda la spaccatura nell’ordine “corretto” delle cose da cui ci parla. Questo punto di vista privilegiato è gestito con grande equilibrio e sì, il mistero di Stella non rimarrà in sospeso. Mi sembrava utile dichiararlo, perché i cerchi che si chiudono offrono sempre una certa soddisfazione. O forse no? Sapere – sapere davvero – potrà mai bastare a Bianca? La verità ha il potere di ridare la vita? Ve lo lascio volentieri scoprire. E occhio a come differenziate i rifiuti.

Assegnato ogni anno a Capri a una personalità notevolissima del mondo letterario internazionale, il Premio Malaparte è stato conquistato nel 2024 da Rachel Cusk, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero e particolarmente amata e nota per la trilogia di Resoconto – titolo a cui sono poi seguiti TransitiOnori

A Cusk piacerebbe molto trasformarsi in purissima immagine astratta ma, per il momento, possiamo ancora chiacchierare con lei. Da Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura – raccolta di saggi e riflessioni autobiografiche di fresca uscita – al suo discusso memoir sulla maternità – Il lavoro di una vita, di cui ho già riflettuto qui – fino alle tante superfici parlanti a disposizione della narratrice quasi invisibile della trilogia, ecco un angolino di tempo che abbiamo trascorso insieme, durante le due giornate fittissime del Malaparte. Conversare con Cusk è come vederla scrivere… e spero che un po’ di quell’esattezza limpidissima mi rimanga appiccicata addosso.

[Al fondo o qui trovate una versione video dell’intervista. Vi va di leggerla? Proseguite in serenità qua di seguito.]


Leggendo e ripensando complessivamente al suo lavoro, ho trovato molto calzante la presenza di Natalia Ginzburg in uno dei saggi raccolti in Coventry. Credo che ci sia qualcosa che vi accomuna, quello sforzo di estrarre dai dettagli più minuti della realtà e dei fatti della quotidianità un collegamento più vasto a quel che può significare vivere ed esistere nel mondo. Ma anche negli aspetti legati alla posizione che vogliamo assumere, a cosa significa creare e scrivere per spiegarci meglio quello che non è immediatamente comprensibile o semplice da afferrare. Si sente vicina all’approccio di Ginzburg? E quanto spesso si convince di non essere abbastanza “brava”, come spesso capitava a lei? 

Vero, lo diceva sempre! [sorride]

A me è sempre sembrato molto bizzarro, perché per quanto lo ripeta – e se lo ripeta di continuo – l’ho sempre trovata saggissima e mai presuntuosa o pretenziosa…

Credo che la mancanza di presunzione sia probabilmente la chiave dell’unicità della sua voce. Perché penso che, spesso, il sé intralci le sue stesse percezioni. E questa è davvero – e posso dirlo in base alla quantità notevole di libri che ho scritto – una presa di coscienza crescente: si vorrebbe assolutamente ridurre al minimo la presenza del sé, in un libro. Ad alcune persone – e lei era sicuramente una di queste – riusciva in maniera piuttosto naturale. L’umiltà è davvero una qualità artistica fondamentale, ed è un altro degli aspetti che si percepisce di lei. Perché ti consente di osservare ogni cosa e ogni luogo con un’obiettività straordinaria. Non cerchi di inserire te stessa e nemmeno di ritrovare necessariamente dei riflessi di te stessa, o di affermare la tua rilevanza. C’è qualcosa di davvero naturale nella sua presenza in un testo che nasce da questa posizione di umiltà.

Penso dipenda anche dal tono. Non “suona” mai minacciosa e sembra sempre fare uno sforzo sincero per mettere a proprio agio chi legge, ma senza scadere nella condiscendenza. Da dove può arrivare una scelta di modulazione così equilibrata dell’ego nella scrittura? 

Mi chiedo se si sia trattato di una questione di semplice sopravvivenza. Sopravvivere a determinate esperienze può smorzare gli eccessi, immagino, eliminando ogni traccia di esagerazione dalla tua voce e da quello che stai creando. Suppongo che il fatto che sia sopravvissuta abbia generato una sorta di senso del dovere, immagino, per continuare a farsi testimone delle cose.

A proposito di ego… la leggenda vuole che la scrittura sia una mastodontica questione d’ego. L’autore arriva per mostrarti quello che non vedi! Ecco una pagina che illuminerà la tua anima! Ringraziami, lettrice, per la verità assoluta che ti sto rivelando! Scrittori e scrittrici ne sono ben consapevoli e penso che di tanto in tanto si approfittino con disinvoltura di questa leggenda. Specialmente nella trilogia di Resoconto, però, la sua scrittrice si trasforma in una sorta di contenitore per una molteplicità di opinioni, eventi e punti di vista che ci vengono presentati senza giudizi o senza la necessità di proporre risposte “guidate” o di far necessariamente “vincere” le sue convinzioni. La protagonista della trilogia è e rimane un’osservatrice, che ascolta senza il minimo desiderio di prevalere. Che fine fa, allora, tutto quel famigerato ego? È diventato finalmente superfluo?

[Ride.]
Ciascuno di noi può individuare delle esperienze nella propria vita che hanno radicalmente minacciato o messo in discussione o ridotto il proprio ego. Quindi, forse, è qualcosa con cui si nasce e che ci viene dato, o riguarda il processo di formazione del carattere, qualcosa che la vita a un certo punto ti comunica.
Per certi versi, fa anche un po’ paura pensare che gli scrittori – e anche gli artisti, ovviamente – siano in realtà protetti da quel processo, in qualche modo. E che il loro ego resti intatto ben oltre il momento in cui dovrebbe essere stato eroso almeno in parte dalla vita. [ride]
Ora credo di essermi del tutto staccata da quello scenario. E lo descriverei, immagino, come un processo di perdita di fede nella realtà – intendendo la realtà come qualcosa che il sé struttura deliberatamente e in cui crede. E quando si spegne davvero questo motore di fede che cosa ti rimane? Ti rimangono delle superfici che puoi interpretare, che non sono affatto al servizio della trama della tua vita e che magari restituiscono il tuo riflesso e il riflesso della storia della tua vita in maniera indipendente.

Dove scrive, ora? In Coventry si discute della famosa “stanza tutta per sé” e degli spazi in cui si esercita la creatività o ci si cala in diversi ruoli – dal lavoro alla maternità. Tradizionalmente siamo abituate ad attribuire un luogo specifico a ogni diverso ruolo che siamo chiamate ad assumere. Per lei esiste uno spazio creativo dedicato? Ce l’ha, questa “stanza”?

Ce l’ho, ho finalmente una stanza tutta per me. E lì dentro lavoro davvero. [sorride]
Uno dei temi che affronto in Coventry è quest’immagine che mi ha tormentata parecchio. La si trovava in quarta di copertina nei romanzi pubblicati nella seconda metà del XX Secolo e ci sono sempre degli uomini in poltrona, con le loro scrivanie rivestite in pelle e lo sguardo puntato verso l’alto…
Il problema delle stanze tutte per sé è che devi essere tu a metterti al servizio di quelle stanze, devi fare in modo che abbiano quell’aspetto e devi sederti in poltrona e presentarti anche come la persona che scrive.
C’è un racconto meraviglioso di Doris Lessing… parla essenzialmente di una donna che sta provando a creare qualcosa e si sposta per casa da una stanza all’altra cercando un posto che non sia pieno di faccende che deve sbrigare, di gente che la insegue per chiederle di fare delle cose e, appena trova un cantuccio adatto, tutti quanti decidono che anche a loro piacerebbe molto stare lì e usare quello spazio.
Nel mio nuovo libro si parla parecchio non solo di scrittrici donne ma anche di artiste donne e di come ci siano esigenze di spazio estremamente diverse – perché lo spazio in cui si crea un oggetto è ben diverso. Nel libro parlo di un’artista americana che aveva cinque figli e li teneva sempre nel suo studio. C’erano sempre dei bambini piccoli in giro e ogni tanto creavano qualcosa per conto loro, altre volte aiutavano lei e, in un certo senso, la soluzione al problema era diventata quella: incorporare i bambini nell’atto creativo. Capirai bene che con la scrittura non funziona e, nel libro, la persona che racconta questo aneddoto afferma che, per quanto adori quella storia, resta solo un’immagine… e che non si possa realmente fare così.

Volevo concludere con un ringraziamento per Il lavoro di una vita. Mi ha aiutata a venire a patti con quel tipo molto specifico di solitudine che può toccare le neo-madri. La riassumerei come una forma di scollamento dai ritmi e dalle esperienze del resto del “mondo” accompagnata da una metamorfosi identitaria molto onerosa da elaborare. Nel libro ho trovato una voce che parlava a me – … e non solo del bambino o di cosa dovevo fare per il bambino – e restituiva dignità alle mie domande meno “pratiche”, meno legate agli aspetti funzionali del mio nuovo ruolo. Con quel libro mi è stata amica, insomma, anche se nemmeno io sapevo troppo bene di averne bisogno. 

Il lavoro di una vita è un libro interessante, per me. Mi ha insegnato che, nonostante tutti i discorsi che facciamo su come possiamo far leggere le persone, all’improvviso un libro riscuote grande successo e lo troviamo meraviglioso e tutti quanti si mettono a leggere questo libro… ma in fin dei conti continuo a credere che esista un libro in particolare per una persona specifica che si trova nella situazione in cui il libro che ha bisogno di leggere è proprio quello – e non l’ultima novità che stanno leggendo tutti gli altri. Il lavoro di una vita troverà sempre una donna che se la sta cavando da sola perché, in quell’esperienza, si è davvero da sole… e mi ricorda sempre di continuare ad avere fede, in un certo senso, in quell’idea. Non si tratta di inseguire la popolarità, ma di centrare il bersaglio a livello individuale.

 


Vi va di ascoltare tutto quanto dalla viva voce di Cusk? Ecco una versione video della nostra conversazione:

 

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Vi va di scoprire qualcosa in più sull’atmosfera del Premio Malaparte e su quello che è accaduto quest’anno in compagnia di Cusk? Ecco qua un “diario” basato su un ottimo esercizio d’osservazione che arriva per direttissima da Resoconto. 🙂

 

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Vi va di ascoltare ancora un po’ di Cusk? Ecco la puntata speciale di Comodinoil podcast del Post curato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti – dedicata all’autrice e registrata sempre a Capri per il Malaparte. Ho avuto il privilegio di godermi la chiacchierata in diretta, come potrei non linkarla? 🙂

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie con la traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

Qua non so bene come comportarmi, perché La spinta di Ashley Audrain – da noi uscito per Rizzoli con la traduzione di Isabella Zani – è un libro di una sgradevolezza rara. Succedono cose terrificanti, luttuose, traumatiche. E succedono nel territorio della maternità, una landa che già di suo presenta una gran quantità di garbugli e di potenziali pozzi oscuri. È un romanzo tremendo da leggere, difficile da sopportare e a tratti anche fin troppo calcato, ma eliminando tutte le tare del caso penso restino degli spunti di riflessione più che dignitosi. Certo, li si piglia e li si stiracchia fino al limite estremo del plausibile – per quanto possa aver senso stabilire confini -, ma pare quasi un esercizio speculativo. Che succede se deformiamo le domande basilari che una neo-madre può porsi? Da dove spuntano i mostri? Saremo capaci di fare quello che ci si aspetta da noi? Quanto possiamo ritenerci attendibili in situazioni di stress e isolamento? I “cattivi esempi” sono una profezia o un monito che può aiutarci a spezzare un destino fallimentare?

Blythe è il prodotto di una dinastia di madri che la società civile disapproverebbe. È sopravvissuta a un’infanzia infelice e al rifiuto costante, senza avere gli strumenti “anagrafici” necessari per decodificare i patimenti delle donne della sua famiglia. All’università conosce un ragazzo e, per la prima volta, riesce a immaginare un futuro tollerabile – anzi, un futuro felice. Sono innamorati, lui è convinto che in lei si nasconda una madre meravigliosa e lei ha un gran bisogno di crederci, di meritarsi questa vasta fiducia. Nasce Violet, ma Blythe ci capisce poco. Si ritrova inchiodata a casa – è Fox che lavora mentre lei prova a dedicarsi alla scrittura – con una neonata che pare richiedere più di quanto lei possa ragionevolmente darle. Nulla di quanto aveva immaginato trova specchio nella quotidianità con Violet, ma mostrarsi capace e padrona della situazione, dar prova di essere degna di quell’immagine di madre esemplare così cara al marito ha il sopravvento sulla realtà dei fatti. Chissà, magari Blythe esagera. Magari è lei che non ci sta dentro. Violet non sarà mica così terribile, dai. Perché la devi sempre dipingere a tinte così fosche? Verrebbe quasi da pensare che non le vuoi bene… ma sarebbe una mostruosità bella e buona. Sei un mostro, Blythe?

Blythe si convince, giorno per giorno, che in sua figlia ci sia qualcosa di anomalo, qualcosa che supera anche le sue potenziali inabilità nel “gestirla”. Chiaro, si sente in colpa per quattordicimila motivi e si vergogna pure di fare così fatica con lei, ma col passare dei mesi – e dei primi anni – quell’inquietudine di fondo resta. Violet è fredda, manipolatrice, crudele con gli altri bambini (e con lei). Insieme agli innumerevoli “ma dove ho sbagliato”, Blythe deve confrontarsi con suo marito, che Violet pare adorare e che vive un’esperienza di genitorialità completamente diversa dalla sua. Fox resta inserito nel mondo, fa carriera, arriva a casa la sera e viene accolto da sua figlia con evidentissimo entusiasmo. Fox, soprattutto, non accoglie i timori di Blythe. Anzi, li respinge con intransigenza. Il perché facciano un altro figlio è ben sviscerato nel romanzo – per quanto possa sembrarci controintuitivo. È come se Blythe avesse bisogno di riscattarsi, di dimostrare in maniera incontrovertibile che il problema è Violet e che lei è una madre capacissima – e capacissima di amare…

Audrain è abile nel gestire la tensione e i diversi piani temporali. Funziona così: sappiamo da subito che qualcosa è andato terribilmente storto, ma occorre l’intero libro per afferrare davvero l’estensione del disastro. Oltre al “piano temporale” di Blythe abbiamo a disposizione anche le storie di sua madre e di sua nonna che, pur in epoche e contesti differenti, rappresentano un precedente significativo. È come se tutto quello che circonda e “costituisce” Blythe lavori per corroborare la sua inattendibilità. È come se la spiegazione più semplice e valida, nel caso esista qualcosa di cui preoccuparsi, sia l’inadeguatezza della madre. Blythe è problematica a modo suo – e non è un personaggio che ispira chissà quali moti di simpatia -, ma non dispone mai di punti di riferimento accoglienti. Smette quasi di essere una persona e diventa una funzione, non ha più un posto o un’identità – a parte quella di madre, in cui sente esplodere tutto il suo fallimento. È un libro orrendo? Sì. Perché Audrain fa succedere orrori. È un libro potenzialmente utile? Anche. Perché può farci pensare, nonostante l’evidente situazione-limite che costruisce.

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Sono in difficoltà. Anzi, fatico ad elaborare un parere razionale PERCHÉ SONO TUTTI INTOLLERABILI. Mi capita raramente, ma ogni tanto capita. Un personaggio solo si salva – e ho a più riprese cercato di gridargli SCAPPA ANIMA BELLA TU PUOI FARCELA ALTROVE, pur sapendo che non poteva sentirmi. Il tema è spinoso ma non sconosciuto da queste parti: Quello che non sai di Susy Galluzzo – che ho ascoltato su Storytel ma che trovate anche in libreria per Fazi Editore – è una storia di maternità e di assimilazione difficoltosa del ruolo. Ci sono responsabilità enormi che andrebbero rette insieme ma che finiscono solo per alimentare dei grandi dossier immaginari del “te l’avevo detto”, c’è il tema di un distacco impossibile perché c’è la paura di non servire più, c’è l’adolescenza e c’è l’abitudine orrenda di misurare col bilancino quanto ci si vuole bene, quanto si fa per la famiglia e a quanto si rinuncia – e non perché ci fa felici, ma per avere abbastanza elementi da rinfacciare alla controparte.

Il nostro punto di vista è quello di Michela, ex cardiochirurga di sopraffino talento che ora fa la mamma quasi a tempo pieno e deve gestire sostanzialmente per conto suo – perché suo marito Aurelio è ancora un medico impegnatissimo – una figlia protoadolescente “difficile”. Leggiamo quello che Michela sceglie di affidare a una specie di diario scritto per la madre, ormai scomparsa da una quindicina d’anni ma ancora ben viva nella memoria e snodo fondamentale della vicenda.

Tutti, qua, vivono gestendo un rancore invalidante.
Michela e sua figlia sono intrappolate in una simbiosi che soffoca entrambe e che si incrina sul tramontare dell’infanzia, lasciando la madre alle prese col vuoto e con una serie di gelosie meschine e la figlia sempre più avviluppata in rituali compulsivi e scatti d’ira. Michela non ne pare consapevole, ma sta facendo penitenza. Ilaria paga altrettanto involontariamente il fatto di non corrispondere alle aspettative, trasformandosi anche nel ricordo perenne di un grande abisso.L’evento che scatena una reazione a catena di scenate, aggressività e ostilità asfissianti è una macchina che arriva e sta per mettere sotto Ilaria, mentre Michela resta a guardare senza muovere un muscolo – pur avendo ampio margine per intervenire. Da lì e tutto finito, non c’è meschinità o colpo basso che si risparmino.

È un romanzo davvero indigesto ma potente – sarà anche l’ottima lettura di Teresa Saponangelo, che resta espressiva ma ben calibrata – da cui si riemerge quasi con disgusto, perché contrasta ogni immagine felicemente stereotipata e ci proietta invece in una dinamica basata sul risentimento e sull’impotenza, sul senso di colpa e sul bisogno asfittico di controllare tutto per non rischiare di tornare più in un angolo molto buio. Non lo so, forse funzionerebbe meglio se le circostanze di Michela non fossero così estreme, peculiari e fin troppo ben apparecchiate per utilizzare il trauma come spiegazione “plausibile”. Nell’essere tremendo e claustrofobico, però, è anche un romanzo spericolato e pieno di pietà, nonostante le numerose ruvidezze e la generosa distribuzione di situazioni iperboliche.