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Hanya Yanagihara

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Quest’anno avrò letto abbastanza? Certo che no. Anzi, non credo esista il concetto di “leggere abbastanza”. In qualche lingua dal potenziale combinatorio più potente dell’italiano penso ci sia un unico termine capace di definire il concetto di “mi prendo a calci nel sedere da sola perché vorrei leggere di più ma poi per una roba o per l’altra finisce sempre che mi sembra di aver letto di meno di quanto penso potrebbe essere utile, auspicabile e sensato per il mio sviluppo emotivo/culturale e pure per accrescere la mia capacità di comprendere il mondo circostante e gli altri esseri umani che lo abitano”.
Circa.
Insomma, non ho un termine… ma il sentimento è quello.
Prendendola più sportivamente, il 2019 è stato un anno di buoni libri e ottime scoperte. Questo sarà un post riepilogativo che non intende aggiungere un granché rispetto a quello che magari ho già raccontato in giro. È proprio un post per fare mente locale.
Ecco, dunque, i miei preferiti di quest’anno – son libri usciti anche prima? È possibile. Ma li mettiamo qua perché li ho letti nel 2019, non perché sono effettivamente usciti nel 2019.
Bene. Procedo in ordine sparso.

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Hanya Yanagihara, Una vita come tante

Se ben ci pensiamo, è un mistero. Perché abbiamo collettivamente amato così tanto un romanzo che fa stare così male? Linea agli psicologi all’ascolto.
Baggianate a parte, ecco qua il post che avevo scritto per cercare di incanalare meglio l’infinito strazio che Jude, Willem, Malcolm e JB sono riusciti a mettermi addosso: “Il gruppo di sostegno per Una vita come tante.

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Samanta Schweblin, Kentuki

Kentuki ha conquistato il Premio MACHEDIAV dell’anno. Metafora solo all’apparenza giocosa del nostro rapporto con la tecnologia, è una collezione di istantanee e di storie complicate che indagano, in realtà, la nostra capacità di stringere legami e di fare del male – soprattutto quando pensiamo che nessuno ci guardi o possa richiamarci alle nostre responsabilità. Ho avuto ance il grande onore di presentare l’autrice qua a Milano e voglio ringraziare ancora Sur per la meravigliosa opportunità.
Ecco i pensierini che avevo prodotto:

“Kentuki” merita un posto di riguardo nel pantheon dei libri bizzarri. Più che a un romanzo, somiglia a un’indagine – per episodi più o meno collegati – che si dipana a partire da un’idea di fondo molto ricca ed emblematica. Funziona così. In un presente del tutto analogo al nostro, approdano sul mercato dei pupazzi interattivi. Conigli, gatti, draghi, corvi… non sono particolarmente belli o ben fatti, ma sono “telecomandabili” da remoto. La persona X si compra un pupazzo e la persona Y, da qualche parte nel mondo, compra una connessione e “diventa” il kentuki che abita da X, vedendo cosa fa X e inserendosi nella sua quotidianità, pur non potendo comunicare verbalmente. X e Y non possono nemmeno scegliersi a vicenda: il sistema ti assegna un pupazzo (e un “padrone”) in modo casuale e la connessione resiste finché il kentuki resta carico o finché una delle due parti non sceglie di interrompere il rapporto (smenandoci dei bei soldi, pure). Samanta Schweblin, a questo punto, ci porta a spasso per il globo, seguendo diverse coppie di padroni e utenti e osservando, insieme a noi, quello che accade quando un kentuki interviene a modificare i tuoi concetti di intimità, responsabilità, umanità, realtà. Il libro è un susseguirsi di incursioni in presa diretta che illuminano, man mano, diversi aspetti di un fenomeno degno di una puntata di Black Mirror – con una struttura narrativa anche assai simile, mi viene da dire. È un libro che potrebbe continuare potenzialmente all’inifinito, man mano che la mania dei kentuki si diffonde e si stratifica. Cosa diventiamo, quando ci sembra di poter governare (o di spiare, non visti e coperti dall’anonimato) la vita di un’altra persona? E perché mai quest’altra persona ce lo fa fare? Quanto profonda è, davvero, la nostra solitudine “strutturale”? Cosa possiamo scoprire di noi, riflettendo su come scegliamo di gestire la nostra libertà?

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Stefania Auci, I leoni di Sicilia

Quando un libro va primo in classifica – e ci rimane saldamente per un bel po’ – arrivano regolarmente i consueti “eh, ma lo leggono tutti… sarà una porcheria”. Ecco, vorrei mettere felicemente da parte lo snobismo editoriale per applaudire Stefania Auci e il capitolo inaugurale della saga dei Florio. È un romanzo che riesce a produrre un felice equilibrio tra “epica commerciale” e storie personali, storia d’Italia e sentimenti, lingua ben radicata nel contesto e scorrevolezza generale. Evviva!
P.S. La tentazione di pianificare un nuovo viaggio a Palermo per un Florio-tour è forte.
Ecco i pensierini.

Che vasta piacevolezza. Che bel polpettone – nel senso più onorevole del termine. Stefania Auci (documentandosi come una matta, presumo sapendo di non sbagliarmi) ricostruisce l’epopea economica e “sentimentale” della famiglia Florio, approdata a Palermo dalla Calabria per campare di commercio. Dal chinino al marsala, dallo zolfo ai pizzi, la dinastia Florio attraversa i grandi rimescolamenti storici dell’Ottocento con caparbia lungimiranza e indomito spirito d’iniziativa, facendo e disfacendo instancabilmente. Schifati dai nobili di sangue (ben più poveri di loro) e mai perdonati dai pari rango per il successo estrosamente ottenuto, i Florio si scrollano di dosso la muffa della prima bottega per trasformare tonnare in ville visionarie, cambiali in tesori, scommesse azzardate in solide eredità. È una narrazione vasta e vivace, che alterna amori e conflitti casalinghi a incursioni nel più ampio orizzonte dell’Italia pre-unitaria. La Sicilia è presente nella lingua – i dialoghi sono curatissimi – e ribolle di contraddizioni, splendori e magnifiche miserie. Le ossessioni dei Florio – e di Vincenzo in particolare, in questo primo volume – sono quelle di un mondo che rigenera faticosamente i propri ingranaggi, tra dovere, nostalgia, ambizione e sacrifici spesso cocenti. Che ne sarà dei Florio? Ci tocca aspettare con una certa impazienza il secondo volume.

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Alberto Madrigal, Pigiama computer biscotti

Quante volte avrò già consigliato questo libro? Duemila? Di più, forse.
La storia è quella di un neo-papà, ma ha parlato forte e chiaro anche a me. Sarà perché è un fumetto che riflette sulla creatività, sulla vita pratica da amministrare, sui nuovi inizi e sui bambini che nascono. Sarà che sono rimasta affascinata dalla sensibilità e dalla franchezza di Madrigal. Sarà che lavoro in pigiama pure io. Non lo so, ma in Pigiama computer biscotti c’è qualcosa di speciale. Ed è un gioiello che custodirò con cura.
Ecco qualche approfondimento:

Alberto Madrigal ha il raro dono di raccontare l’ansia senza fartela venire troppo. Non te la fa passare, intendiamoci, ma la sfuma e la scompone, ci pensa su insieme a te e la gestisce un pezzettino alla volta. In questo fumetto – che si costruisce sotto ai nostri occhi, perché dentro al fumetto c’è anche Madrigal che cerca di capire che fumetto fare – si parla di creatività, dei compromessi della vita adulta, di case che non si puliscono da sole, di traslochi – perché aiutiamo sempre tutti a traslocare e poi quando tocca a noi arrivano quattro gatti? -, di paternità, mal di testa inevitabili e colazioni al bar la domenica. È un magnifico distillato di quotidianità e dilemmi, di equilibri impossibili tra le esigenze della sopravvivenza e il lusso di poter perdere tempo. In questo libro c’è, soprattutto, la strada tortuosa che dobbiamo imboccare per riconciliarci con l’idea di responsabilità. C’è la frustrazione che spesso ci accompagna quando cerchiamo di far crescere un’idea che, spessissimo, si modifica sotto ai nostri occhi e cambia pelle quando pensiamo di averla ormai afferrata – un po’ come le abitudini dei bambini, che sono abitudini per due giorni e poi diventano altro e tu devi ricominciare da capo con tutti i tuoi processi di adattamento. C’è la routine che mangia le energie, ci sono quei due secondi limpidi di ispirazione e di gioia che ti convincono a non gettare via tutto – o magari sì. E c’è un bimbo che nasce e che, nel mondo nuovo che crea per te, attira nella sua orbita tutto quello che stai cercando di capire e te lo restituisce un po’ masticato e morbidino, ridimensionato ma anche spaventoso. Che vogliamo fare? Si procede. Inventando una pagina alla volta. Saggi e lievi, pacifici e preoccupati.

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Imogen Hermes Gowar, La sirena e Mrs Hancock

Che la mia vera vocazione siano i polpettoni storici? Chi può dirlo. La sirena è un’altra felice rivelazione di quest’anno. Me lo sono letto in inglese prima di scoprire che sarebbe uscito nei Supercoralli – quando succede mi sento sempre di un’intelligenza che non vi so descrivere – e ho apprezzato l’opulenza e la complessità della ricostruzione “ambientale” così come la deriva fantastica che finisce per insinuarsi come una nebbiolina ineluttabile nelle vite dei protagonisti. Dovrei sfoderarlo più spesso quando mi chiedono “uno di quei libri che riesce a portarti altrove”.
Ecco i pensierini originari:

Nella Londra georgiana di Imogen Hermes Gowar si aggirano almeno due meraviglie. Una sirena imbalsamata di una bruttezza sconcertante – sbarcata da un vascello della flotta di Jonah Hancock, mercante di mezza età abituato a commerci molto meno stravaganti – e la più fulgida cortigiana della capitale, da poco tornata in società dopo la morte di un amante facoltoso. Decisa a cavarsela da sola, Angelica riapparirà nel bordello di lussuosissimo (dove ha militato per anni) come ospite d’onore di una festa a dir poco elaborata. Ed è lì che le due meraviglie – una un po’ più gradevole a vedersi dell’altra, a dire il vero – si incontreranno, con grande stravolgimento del signor Hancock. Mi vuoi, mercante goffo e bruttarello? Dovrai consegnarmi una sirena tutta per me! E il signor Hancock non se lo farà ripetere due volte…
Trama a parte, questo romanzo d’esordio è un gioiello d’ambientazione. E se è vero che ci mette un po’ a ingranare – raggiungendo le sue pagine più fascinose quando la seconda nave farà ritorno a Londra col suo carico WINK WINK – rimane una riuscitissima celebrazione dell’insolito e un “polpettone” (nel senso migliore del termine) molto godibile. È una specie di kolossal storico e sentimentale, che fonde in maniera ricchissima reale e fantastico, ambizione e rovina, bellezza e sconforto, carne e nobiltà d’animo, strade putride e carta da parati, desideri grandiosi e conseguenze catastrofiche. Datemi un muro da foderare di conchiglie. O almeno un ventaglio.

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Sally Rooney, Persone normali

Di Sally Rooney tanto si è discusso e, sospetto, ancor più si discuterà. Nel mio piccolissimo, sono felice che una Sally Rooney sia spuntata nel panorama letterario mondiale. Ecco qua il post che avevo scritto per il suo secondo romanzo, Normal People.

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Il mio preferito dell’anno forse va raccontato nel suo complesso. Perché è una trilogia che funziona (anche) per accumulo e per stratificazioni. Transiti è il secondo capitolo. È stato preceduto da Resoconto e le operazioni si sono chiuse con Kudos – in italiano si chiamerà Onori e sta per uscire in Stile Libero per far compagnia agli altri due. Siamo abituati a confrontarci con protagonisti e personalità ipertrofiche, ma Rachel Cusk ha scelto di fare diversamente. La sua narratrice è una spugna, un fantasma, uno specchio, una trasmittente che capta e immagazzina. E per tre libri compone per noi un mosaico di incontri casuali ma decisivi, catalogando punti di svolta e spostamenti nello spazio e nella coscienza. Sono storie che seguono un arco che non somiglia al consueto tragitto di un eroe o di un’eroina da romanzo, sono archi narrativi che richiamano il modo in cui gli esseri umani “veri” si rendono conto che sta succedendo loro qualcosa di fondamentale. O che hanno perso un’opportunità. O che un pezzo di un passato sepolto sta tornando a interrogarli. O che un cambiamento necessita di essere digerito e capito. Raramente mi è capitato di leggere qualcosa di così sfuggente e potente al tempo stesso. Di sentire i pensieri altrui con una nitidezza così spietata e illuminante. O di sentire così poco il bisogno di una struttura più “normale”, anzi.
Vinci tu, Rachel Cusk.
E ora voglio conoscerti meglio.
Perché l’ambizione di “leggere altro”, come ben sappiamo, non ci abbandonerà mai. 🙂

Una piccola introduzione molto semplicistica.
La letteratura è (anche) una vasta collezione di disperazioni. È assai raro che la gioia possa fungere da solido motore narrativo, così come non è una coincidenza che il lieto fine stia dove stia: all’ultima pagina, senza la necessità di aggiunte o di particolari approfondimenti. E vissero tutti felici e contenti. Che altro vuoi? Metti in saccoccia e arrivederci. Lo spettacolo è finito, si prega cortesemente di dirigersi alle uscite.

Ma che cosa accade, però, quando l’intento fondamentale di un libro è quello di sviscerare e amplificare la sofferenza, il trauma, la vergogna, il malessere fisico e spirituale, la morte perpetua della speranza, la disfatta e il disfacimento? Accade Una vita come tante di Hanya Yanagihara, romanzo che ha conquistato a mani basse la sommità del mio personalissimo podio della tristezza in letteratura e che, in questi anni, si è trasformato in una sorta di oggetto di culto, in una vetta da scalare, in una sfida aperta ai rivenditori all’ingrosso di fazzoletti da naso.

Mesi fa, colta dal comunissimo raptus del “che diamine, solo io non l’ho ancora letto”, mi sono procacciata A Little Life e me lo sono girato un po’ tra le mani. La mole mi era già nota – l’edizione originale veleggia sulle 800 pagine -, ma prima di iniziare qualcosa attraverso sempre uno di quei momenti da pesatura egizia del cuore sulla soglia del regno dei morti. Metto il libro su un piatto della bilancia e, dall’altra parte, sistemo energie, forza di volontà e stati d’animo. E inizio davvero a leggere solo quando mi sembra che i due piatti raggiungano l’equilibrio. Ecco, con la Yahagihara ci è voluto un po’, ma il coraggio è arrivato.
Piangerai un casino!
Sarà orribile!
Ho provato a leggerlo ma l’ho mollato, si sta troppo male!
Stupendo… però che sofferenza.
No, zero, già sto da cani di mio, una roba del genere non la leggo neanche se mi pagano.
Quando l’hai finito dimmi che ne pensi, devo parlarne con qualcuno.

Ed eccoci qua.

Che cosa succede in questo libro, in estrema sintesi?
Una vita come tante racconta i rivolgimenti esistenziali di quattro amici.
Willem, Jude, JB e Malcolm si incontrano poco meno che ventenni al college e, fra alti e bassi, allontanamenti e riavvicinamenti, carriere che svoltano e battute di arresto, le loro esistenze continuano a intrecciarsi per i tre decenni successivi.
Il centro di gravità è New York, che tutti finiscono per abitare in modo diverso ed emblematico.
Il protagonista – anzi, il mistero da risolvere – è Jude. Ed è a Jude che ne capitano di tutti i colori.

Nella prima parte del romanzo, Jude resta nelle retrovie. Conosciamo meglio i suoi compagni di stanza, le loro lotte interiori per trovare una direzione e un posto nel mondo – Malcolm vuole fare l’architetto, JB vuole fare l’artista e Willem fa il cameriere mentre sgomita per diventare un attore. Il terzetto si destreggia tra zavorre dell’infanzia, ambizioni, dubbi e fatiche “pratiche” correlate al diventare grandi… e Jude pulisce casa. Cucina. Li osserva. Aggiusta quello che si rompe. Studia legge e matematica – rivelando la sua prodigiosa intelligenza. Zoppica. Digrigna i denti per il dolore e si scusa continuamente, perché si sente d’impaccio. Quel che sappiamo di Jude è che, in un momento imprecisato del suo passato, un tremendo incidente gli ha danneggiato in maniera invalidante la schiena e le gambe. Cammina male e amministra quotidianamente un dolore cronico, che a volte lo investe con una forza tale da paralizzarlo, cancellando anche i pensieri. Jude, però, non ne parla. Glissa sulla sua provenienza, glissa sulle sue strane abitudini, si scansa bruscamente quando qualcuno cerca di toccarlo – anche solo per dargli una pacca sulla spalla – e non si fa mai sorprendere a braccia scoperte – o nudo, figuriamoci.


Il disvelamento di Jude, se così possiamo chiamarlo, è la spina dorsale del libro. Il suo ostinato ermetismo è una strategia per arginare i ricordi di un passato indicibile, ma anche per limitare il disgusto che Jude è convinto di suscitare negli altri. È una corazza difensiva, piena di falle e spiragli, è il tentativo di cambiare pelle e di diventare una creatura nuova, un uomo che si rimette insieme un pezzo alla volta, piegando la realtà ai suoi molti segreti, elaborando strategie per rimanere al sicuro. Jude assorbe il male che gli è stato fatto e finisce per assumersene la responsabilità, tramutandolo in qualcosa di irreparabile, da custodire per non allontanare chi, nella sua “nuova” vita, gli sta facendo conoscere un universo nuovo, dove sono possibili l’amicizia, l’amore e la fiducia.

Scopriamo poco a poco che cosa è successo a Jude. Perché Jude “è così”. E, con il procedere del romanzo, le nostre conoscenze sono comparabili a quelle degli altri personaggi. Finiamo anche noi per domandarci come “gestire” Jude, lo ammiriamo per la sua tenacia e per i suoi successi – perché intuiamo che arriva da una moltitudine di posti che, tipicamente, non sfornano giuristi di spicco, matematici brillanti o esseri umani di una tale sensibilità. Restiamo con lui perché la sua fatica e il controllo costante che cerca di esercitare sul suo corpo e sulla sua mente sono esercizi titanici e vorremmo alleggerirgli il fardello, pur sapendo che non ce lo permetterà. Lo seguiamo perché ci fa arrabbiare, perché scopriremo che cosa è stato e vorremmo dirgli che non è colpa sua, che può smettere di farsi del male.

Spulciando un po’ in rete alla ricerca di notizie sull’autrice, mi sono imbattuta in diverse interviste – e anche in un diario di bordo “visivo” che ha accompagnato Yanagihara durante la stesura del libro. Una domanda ricorrente è “ma perché così TANTO dolore?”.
È una domanda legittima. Una vita come tante è un romanzo sul dolore. Ed è un romanzo che esplora gli estremi dello spettro emotivo e gli strascichi eterni del trauma… ma si sofferma anche sull’enigma delle fortune umane. Tutto sembra governato da una forma sghemba di giustizia ultraterrena: si può ottenere un risarcimento per le sofferenze patite, ma non sarà mai un risarcimento sufficiente a guarirti dove più ne hai bisogno. Sarà una compensazione parziale, imperfetta, quasi malvagia nella sua inadeguatezza. Jude ci sottrae l’illusione di una felicità riparatrice o, se proprio, ci mostra la natura effimera dei periodi di tregua, pace, appagamento.
L’autrice ha più volte raccontato che questo calcare la mano è voluto e che il suo intento, scrivendo, era di amplificare fin quasi al paradosso tutto quello che di terribile può capitare a una persona, di spingersi fino ai confini più estremi dell’oscurità. Non c’è sfiga che a Jude venga risparmiata. E queste sventure – che si tratti di patimenti della carne o dello spirito – vengono anche descritte con puntiglio, chirurgicamente. A che scopo si continua a vivere, se il prezzo da pagare è questo?

La copertina dell’edizione originale, così come quella di Sellerio, che ha pubblicato Una vita come tante in Italia con la traduzione di Luca Briasco, è una fotografia di Peter Hujar – e sempre di Hujar sono le immagini che accompagnano questo post. Sembra un tizio che sta male, così di primo acchito. Il titolo dell’opera, in realtà, è Orgasmic Man. Leggendo, la scelta iconografica appare perfetta. Tanto, in questo romanzo, ruota attorno al corpo (spesso traditore), al sesso, all’intimità e all’abbandono. Ai segni che rimangono e alle cicatrici invisibili. Al fatto che un’esperienza possa risultare normale e meravigliosa per qualcuno e, contemporaneamente, traumatica e irreparabile per la controparte, innescando un meccanismo che somiglia alla dipendenza, a una catena infinita di compromessi che facciamo per tenere insieme i cocci e restare aggrappati a quello che abbiamo di più caro. Di indispensabile.

Anche il titolo è una specie di camaleonte. In originale, questo libro si chiama A Little Life. Man mano che si macinano pagine, ci si rende conto delle sue molte facce. Una di quelle più significative, secondo me, è anche un’esortazione impossibile da assecondare. “Forza, dai. Un po’ di vita!”. Jude se lo sente ripetere spesso… sia testualmente – durante specifiche situazioni traumatiche della sua infanzia e prima adolescenza – che velatamente, da una moltitudine di personaggi che costituiscono la sua famiglia allargata, la sua zattera di salvataggio. E forse è proprio questo il punto. Possiamo pensare di salvare davvero chi non si ritiene degno di essere salvato? Chi vuole arrendersi perché non ha più le energie per combattere?

Sono felice di aver letto questo libro. Non sono certa di poterlo consigliare. Non è un libro che si può consigliare. È come augurare a qualcuno di star male. Ma è un libro che spero possa essere letto e capito come merita, perché è una specie di monumento. Contiene l’ombra più fosca e uno spirito combattivo difficile da intravedere, ma potentissimo. Raramente – o forse mai – mi è capitato di “conoscere” personaggi così complessi, spregevoli, disarmanti e “buoni”. Non ho parlato di paternità, degli ambienti, di carriera e lavoro, di autolesionismo, di menzogne. Non ho parlato davvero di fluidità nell’approccio ai rapporti amorosi… e chissà quante altre cose ci sarebbero da dire. Ho la sensazione di poter parlare di questo libro per anni, perché porterò sempre con me un brandello di Jude e una rabbia senza soluzioni. È un romanzo terribile. È un romanzo bellissimo. E non ho la minima intenzione di sfoderare la bilancia per illudermi che esista un equilibrio. Prendo atto dell’impossibile. E spero di averne colto, almeno in parte, la complessità.