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Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.

Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.



Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.

Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.

Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.

Ani e Bianca si sono avvicinate per rendere più sopportabile il presente e per ricostruire un’idea di famiglia, in un posto dove si arriva spogliate di legami pregressi, identità e futuro. Sono raccoglitrici di sale, prigioniere di un gigantesco campo di lavoro in cui centinaia di altre donne “indesiderabili” (e pericolose per il rigido ordine pubblico del regime) si spaccano la schiena in un susseguirsi di giorni sempre uguali, guardate a vista da guardie armate e private di ogni prospettiva di fuga, cambiamento, libertà.
Fuori si sta peggio, si sentono ripetere. Qui almeno si mangia e abbiamo un tetto sopra la testa. Non siamo nessuno, ma siamo vive. E provvediamo all’approvvigionamento dell’unica risorsa energetica ancora disponibile… quale onore più grande può esistere? Rese inermi dalla fatica estrema e anestetizzate dalla paura, le donne del campo vivono in un limbo che cancella il tempo, piega la volontà e distorce la realtà… ma Ani e Bianca non hanno mai smesso di domandarsi cosa resti del mondo oltre i confini di quella prigione. E sarà la loro alleanza – sghemba come il loro modo di stare insieme, nonostante le differenze – a cambiare tutto e a spalancare nuovi scenari: si muore davvero quando si smette di sperare nella possibilità di cambiare le cose.

Non voglio spoilerare, perché meritate pure voi di godervi in santa pace i numerosissimi colpi di scena di Brucia la notte di Tiffany Vecchietti e Michela Monti – in libreria per Mondadori e in audiolibro su Storytel. Qualche tema lo nominerei, però.
Ci sono ragazze guerriere, ragazze rancorose, ragazze potenti e ragazze che si organizzano in nuovi modi antichissimi. Ragazze sradicate che resistono e provano a ripartire da un’idea di collettività che cerca di tornare umana, amica delle differenze e attraversata da prodigi insperati. C’è un’Italia “alternativa” e un’Italia leggendaria e mistica. È una storia che indaga il potere del pensiero – e la relazione ambivalente tra pensiero, autorità e comunità. È una storia di rivoluzione e di quanto “costa” credere in un’idea – o accettare quel che c’è scegliendo il silenzio. Che Bianca non stia mai zitta non è una coincidenza… e che Ani dica invece così poco – ma veda moltissimo – nemmeno. Spero le accompagnerete nel viaggio. Sarà lungo e difficile… ma tra strighe bisogna darsi una mano.

Una ragazza dagli occhi grandi abita con sua madre e un gatto in una casupola ai margini di un villaggio dell’Essex. Sono sole e non dispongono di un’indole molto malleabile. Vivono di ricami e rammendi e governano le quattro bestie in croce che possono mantenere sul loro fazzoletto di terra. La madre è altissima e irascibile, una virago che beve birra e non te la manda a dire. La figlia è innamorata dello scrivano che le sta insegnando a leggere le Scritture e ogni mattina porta una scodella di porridge a una vedova decrepita con una gamba di legno che nessuno vuole frequentare – ma che si interpella volentieri quando c’è bisogno di un prodigio.È il 1643, c’è miseria, gli uomini del re e i sostenitori del parlamento si ammazzano a vicenda, Dio latita ma il Demonio è ovunque e, aguzzando la vista, lo si può scovare anche a Manningtree. Basta interpretare i segni, dar seguito alle maldicenze, indagare i corpi con un pungolo rovente… mentre i poveri si contendono stracci e avanzi, un uomo pio arriva in città per diventare il Grande Inquisitore d’Inghilterra. Chi salverà  l’anima di chi si preoccupa delle anime altrui?

Le streghe di Manningtree di A. K. Blakemore – in libreria per Fazi – è la storia corale di un processo per stregoneria. La voce principale è quella di Rebecca West, figlia della più bellicosa tra le “donne” della contea e unica a mostrarci un punto di contatto con l’universo quasi ermetico – e di certo dotato di una maggiore autorità fattuale – degli uomini.
Il libro parte da una descrizione della quotidianità che precede l’arrivo di Hopkins – l’uomo timorato, il puritano che fa della caccia alle servitrici del Diavolo una missione e un vero e proprio lavoro – e ripercorre con raro dettaglio l’iter canonico di un’accusa di stregoneria. È una rielaborazione romanzesca che si basa però su fatti reali: Hopkins è esistito davvero e in un biennio d’attività fervente ha contribuito a far condannare a morte decine di donne (le stime documentate sono incerte, ci attestiamo tra le 100 e le 300). Al di là dei danni (pur notevoli) prodotti da un singolo invasato, però, l’esordio narrativo di Blakemore offre un vasto spaccato collettivo e indaga in filigrana le cause profonde dell’accanimento e del fanatismi.

Cosa occorre per trasformare una donna in una strega?
Qual è l’origine dei focolai di fervore accusatorio che culminano in torture, reclusioni disumane e disinvolte impiccagioni?
Arginare l’empietà per guadagnarsi il regno dei cieli è un “movente” sincero o è piuttosto un puro pretesto per levare di mezzo soggetti indesiderabili, scomodi, devianti?
Si parla di Dio o si parla di soldi?
A chi conviene ammazzare le streghe?
In quale vuoto di potere e in quale deserto identitario può attecchire il carisma sinistro di un inquisitore?
Blakemore individua in Manningtree il luogo adatto per rispondere narrativamente a questi interrogativi, riuscendo a buttare nel suo capiente e suggestivo calderone storia, finzione e sottotesti culturali.

La scrittura è splendida – e un applauso va a Velia Februari per la traduzione, dev’essere stato un lavoraccio infame – e conferma la mia teoria: Blakemore arriva dalla poesia e quando chi scrive poesie vira sulla narrazione il risultato è sorprendente. È un libro crudo e lirico, fatto di voci grezze e santissimi proclami. C’è una natura sapiente e ci sono i pidocchi, c’è il torbido in cui le anime nobili sguazzano con compiacimento e c’è la furbizia spiccia di chi non ha mai il coltello dalla parte del manico. Ci sono anatemi e confessioni estorte, verità di comodo e follie simulate. È una storia che fa male alle ossa, come quando cambia il tempo e tornano a galla le memorie di vecchi strappi, di fratture rimaste sghembe. Il tempo è passato e la ragione ha illuminato le tenebre della superstizione, ma sono dolori che avvertiamo comunque, perché le ossa delle streghe son state le nostre… e forse lo sono ancora.

Vi risparmio l’elenco lunghissimo degli importanti riconoscimenti conquistati da Kate Beaton per questo lavoro, ma tenete presente che ci sono – Eisner Award compreso – e che sono meritati. Ducks è un libro che potrebbe alimentare una tale quantità di discussioni “calde” da farci scoppiare la testa, anche perché l’epoca che racconta è al contempo vicina (cronologicamente) ma lontanissima per sensibilità e istanze maneggiate dall’opinione pubblica. Credo sia questa specifica collocazione “di confine” a farne un libro così emblematico: i nodi sono venuti al pettine oggi (o in un passato relativamente molto recente), ma il garbuglio c’era già… o c’è sempre stato, anche se non conveniva alzare la mano per segnalarlo.

Si sta discutendo spesso di autofiction, di preponderanza dell’autobiografia sulla narrativa d’invenzione, di presunzioni d’universalità anche quando si racconta delle proprie unghie incarnite, di che valore possano avere le minuzie individuali – vendute e ben confezionate come grandi rivelazioni – nel panorama del pensiero umano. Ecco, Beaton ha saputo riconoscere la rilevanza di un’esperienza personale e ce l’ha restituita in Ducks – in libreria per BAO con la traduzione di Michele Foschini –, compiendo quella famosa prodezza del “tu che adesso hai una voce… usala per portare a galla questa roba che si è trasformata su mille piani diversi in un bel problema collettivo!”.
E quale mai sarà quest’esperienza così stratificata e significativa? Pare una faccenda circoscritta e MOLTO “site-specific” ma non è solo questo. Beaton arriva da un’isola del Canada atlantico. Nel 2005, a 21 anni, si è laureata in arte e ha deciso di partire per l’Alberta per trovare un lavoro abbastanza redditizio da permetterle di estinguere il suo gravoso debito studentesco. Ha passato due anni a lavorare nelle attrezzerie – e successivamente negli uffici “sul campo” – delle grandi compagnie estrattive dell’area di Fort McMurray, terra promessa delle sabbie bituminose.

Perché dovremmo mai leggere la storia di una ragazzina che fa i bagagli e parte da sola per lavorare in un luogo assurdo, lontanissimo da casa e potenzialmente letale?
Perché l’esistenza stessa di una struttura lavorativa simile si innesta su un profondo disagio socio-economico, fatto di posti che si spopolano e di generazioni giovani che non riescono ad accedere a un avvenire dignitoso perché son sommerse dai debiti prima ancora di riuscire a laurearsi – impresa in cui ci si imbarca con l’idea probabilmente superata che il titolo di studio basti a poter star meglio di come stanno le famiglie d’origine.
È una storia tremenda (e preziosa) perché una popolazione “aziendale” in cui il rapporto donne-uomini è di 1 a 50, residente in villaggi fatti di container in mezzo al nulla più assoluto e impiegata in turni che non permettono un contatto significativo con la rete sociale e affettiva di provenienza ECCO è un contesto che trasforma le più basilari norme di convivenza e di umanità, riscrivendole a favore di una situazione liminale, dove la responsabilità si edulcora e l’essere perennemente “di passaggio” fornisce un alibi di ferro per un cameratismo tossico, esasperato e concretamente violento.
È un libro importante perché parla di soldi, di risorse naturali e di impatto ambientale a livello “macro”, ma ci interroga anche sui vari gradi di complicità che possiamo esprimere in via indiretta, magari mentre cerchiamo con gran fatica di guadagnare anche solo il minimo indispensabile.
È una storia di migrazioni economiche e di sconfitta della retorica del “se vuoi puoi” – che di solito ci viene propinata da chi può molto perché parte con le spalle più che coperte -, di scelte impossibili tra radici e futuro, di ambizioni e patti infelici con la realtà, di opportunismo travestito da opportunità dorata. “Che vuoi farci, il mondo va così”, ci ripetiamo quando i problemi che si affastellano sono troppo grandi per essere maneggiati e ci sentiamo estremamente irrilevanti per poter fornire un contributo che faccia una qualche differenza. Forse è vero… ma è una fortuna che spunti, ogni tanto, una voce capace di rendere palese questa sconfitta, che ci racconti un posto “limite” che diventa crocevia di molto di quello che ci preoccupa e che, inevitabilmente, ci riguarda. La nostra storia non sarà mai sovrapponibile a quella di Beaton, ma a quello servono i testimoni attendibili: ci dicono quel che è successo, quello che noi non potevamo sospettare e, per fortuna, anche che quello che mai avremmo voluto sentire.

Le Barbie che dimorano a Barbieland sono convinte che nel Mondo Reale vada tutto a gonfie vele. E perché non dovrebbero? Rispondono a un intento di progettazione che le vuole amiche delle bambine, fonte di ispirazione per dimostrare loro che sì, possono essere tutto quello che desiderano. Sono bone e piene di talenti, non sono afflitte dallo scorrere del tempo e i loro tanti “mestieri” sono una dotazione genetica che – come la bellezza – richiede solo di esprimersi, giorno perfetto dopo giorno perfetto. Cordiali, sorridenti, allegre, canterine e capaci di campare sui tacchi – perché già di loro appoggiano il peso solo sulle punte – le Barbie vivono spensierate in un sogno collettivo realizzato e vincono Nobel a ripetizione, circondate da Ken che non hanno altro scopo se non quello di bearsi della loro vicinanza. Ma se si aprisse una crepa? E se quella crepa portasse la tragica domanda “ma che deve fare una donna oggi per cavarsela con dignità?”. Tutto, come Barbie. Ma nel Mondo Reale.

Gerwig affida a Margot Robbie la Barbie più neutra possibile. Anzi, la Barbie Stereotipo, quella non pensata per diventare pilota, fisica, presidente o chirurga, ma solo per incarnare lo standard della perfezione. Lei è lo stampo per tutte le altre, le contiene idealmente ma non ha altro da dare se non sé stessa – Barbie non ha bisogno di chiedersi se è “abbastanza [qualcosa]”, perché lei è tutto… e forse niente. Per proiettare un sogno ci vuole una tela bianca, ma Mattel – che nel film è un’entità corporate estremamente presente e anche disposta a stare al gioco e a farsi qua e là vituperare – ci sta vendendo una promessa realizzabile o sta contribuendo a farci sentire “peggio”?

America Ferrera, che abita nel Mondo Vero e fa la segretaria (?) del megaboss Mattel – Will Ferrell prosegue nella sua lunga carriera da Lord Business e qua è splendido, non tanto per “come fa” il megaboss ma per quello che Gerwig gli fa dire, trasformandolo nella macchietta di ogni CDA-staccionata che si crede avantissimo perché in azienda ci sono i bagni genderless ⚰️ – è un’ottima ambasciatrice delle nostre fin troppo tangibili menate. Lei, che per anni è stata Ugly Betty, conquista il titolo di Barbie Naomi Wolf ad honorem, restando umanissima e dicendo fuori dai denti quel che c’è da dire. Gerwig usa questa contaminazione fra donne e bambole per mettere in fila i concetti base del femminismo e, per quanto a mio gusto sia tutto un po’ TANTO didascalico, il risultato è salutare e anche molto divertente da vedere, proprio perché è satirico e “calcato”.

E Ken? Epico. Fin troppo, forse. Si ride praticamente sempre a sue spese, ma se Ken non scoprisse che nel Mondo Vero “comandano gli uomini” avremmo molto meno di cui discutere – e quasi niente da vedere, anche. Ryan Gosling non è contento, DI PIÙ. E per quanto il suo Ken resti drammaticamente un Ken – cosa che non accade a Margot Robbie, che ha la possibilità di far scorrere sulla plastica qualche lacrima sentita – pure lui è prigioniero. La cosa che forse mi ha fatto un po’ arrabbiare, nella parabola di Ken e dei Ken è che, in fin dei conti, sono ancora una volta le donne a doversi occupare di educarli. Ma probabilmente un altro dei grandi inghippi sta lì: a chi conviene cambiare le cose quando si ha il coltello dalla parte del manico?

Insomma, nel complesso ho amato. Ed è davvero interessante interrogarsi sui margini di manovra di “critica” che Gerwig tenta di esercitare. Mattel produce il film – oltre a fornire la materia prima per la storia – e, anche se presta il fianco a stoccate ben assestate, vien comunque da domandarsi quanto ci sia di strumentale in questo “vi sentiamo, donne! Sappiamo che negli anni abbiamo fatto i soldi vendendovi modelli figli del loro tempo! Ma ora eccoci qua!”. Sono dell’idea che retroattivamente ci sia poco da fare, se non acquistare consapevolezza di quel che è cambiato e del molto che ancora si può migliorare. E Gerwig ha sfornato quel che mi aspettavo, devo dire.

Note!
Colonna sonora nutritissima. Menzione d’onore a Dua Lipa che appare anche in veste di splendida Barbie Sirena – il suo Ken-tritone è JOHN CENA, in lizza per il cameo del secolo.
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Serve dire che i costumi e tutto il baraccone di Barbieland sono perfetti? Non serve.
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La promozione di questo film è stata lunga e MOLTO articolata. Ecco, fate conto che la prima metà del film l’avete già vista nei 2000 trailer, meme e frattagline pro-hype di questi mesi. Bastava meno, secondo me.
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BARBIE STRAMBA TVB.

l tempo che impiegherete per pensarci su sarà incomparabilmente maggiore del tempo che vi occorrerà per leggere Una giuria di sole donne di Susan Glaspell – in libreria per Sellerio con la traduzione di Roberto Serrai e due bei contributi di Alicia Giménez-Bartlett e Gianfranca Balestra.
È un racconto uscito in origine nel 1917 – e che ha avuto anche un’emanazione teatrale – e recuperato poi dal un certo oblio a partire dagli anni Settanta, a sostegno dello slancio del dibattito femminista. Di che parla? Di un delitto e di un’indagine insolita e assai innovativa per l’epoca di riferimento – e forse anche per la nostra.

Un uomo viene ritrovato morto in una casa isolata. La moglie viene arrestata e altre due donne approdano sulla scena del crimine per prepararle un valigino con l’occorrente per il “soggiorno” in cella in attesa del giudizio. Sono la moglie dello sceriffo e del fattore che ha scoperto il delitto e arrivano in questa casa silenziosa, mesta e cupa insieme a un folto gruppo di inquirenti (maschi) che cercano di far luce sul mistero. Le donne vengono lasciate in cucina (dove tutto sommato ci si aspetta che stiano, visto che quello è il loro posto) mentre gli uomini si aggirano per casa in cerca di indizi, girando fondamentalmente a vuoto mentre le signore, analizzando i dettagli minuti in cui si imbattono, sbrogliano la matassa.

Mentre gli investigatori le trattano con condiscendenza – schernendo anche apertamente la loro “condizione” e non ritenendole neanche per un istante interlocutrici valide -, le signore risolvono il caso per immedesimazione, potremmo dire. Da una stufa crepata, delle conserve, un tavolo pulito a metà e un cestino del cucito ricavano un quadro della situazione che restituisce peso ai gesti minuti della quotidianità femminile e mostra, al contempo, quanto sia piccolo il mondo in cui l’indagata – come loro – è costretta a muoversi e quanto possa essere sterminata la solitudine che ci si insinua dentro.
Gli uomini non solo non ritengono la cucina degna di approfondimenti, ma nemmeno sarebbero in grado di leggere gli indizi come invece fanno in maniera lampante le due signore. E non solo risolvono il caso, ma prendono anche una decisione che spalanca un altro grande spazio grigio – quello che separa, a volte, la legge dalla giustizia.

Cosa ce ne facciamo della legge se i presupposti di base da cui partiamo per amministrare la giustizia sono fallati, sbilanciati e iniqui? In una cucina, unico spazio che possono governare e che parallelamente è la loro gabbia, le due signore allestiscono spontaneamente l’unica giuria equa alla quale la reclusa potrebbe ambire: quella delle sue pari, che la vedono, la sentono, la “conoscono”, perché il peso che portano è lo stesso. E i maschi non lo vedono – e non lo capirebbero.
È da leggere tenendo presente che è stato scritto nel 1917? Chiaro. È un racconto che continua a parlarci? Sì, anche se non so quanto rallegrarmene.

 

Dalla gestione domestica all’organizzazione della famiglia, dai compiti di “cura” alle operazioni basilari e ripetitive che garantiscono il buon funzionamento di una casa, con Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli) Annalisa Monfreda si interroga sulle corrispondenze generi-ruoli e sugli automatismi che tradizionalmente condizionano il nostro abitare la coppia, la famiglia, il mondo del lavoro e la dimensione collettiva.
Quale imperativo biologico dovrebbe rendermi più qualificata del mio partner a caricare la lavastoviglie?
In base a quali costrutti stratificati ci sono compiti “da donna” e incombenze “da uomo”?
Perché i “ti aiuto, basta che mi dici cosa devo fare” è una trappola, per quanto forse mossa da buone intenzioni?
Quali strutture di potere diamo per buone senza renderci conto dei confini che ci impongono?

Tra fonti autorevoli e cronache di scleri condivisibili, Monfreda esplora le radici del carico mentale – e delle disparità lampanti ma mascherate che il concettone nasconde – per provare a immaginare una prospettiva che affianchi alla basilare idea di ribilanciamento degli sforzi anche una comprensione meno “meccanica” delle fatiche.
Il perno continua ad essere la scelta, secondo me. Si può scegliere se ci sono alternative. Si può scegliere se esiste un margine di manovra e se resta energia da convogliare in una determinata direzione. Si può scegliere quando ci si rende conto che l’orizzonte dovrebbe essere comune – e raggiungibile da entrambe le parti in causa. Una riflessione sincera, utile, liberatoria e pragmatica che sarebbe bello non leggessimo soltanto noi… WINK-WINK.

[Bonus-track: Bastava chiedere di Emma, il fumetto che ha recentemente rianimato il dibattito sul carico mentale.]

 

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche. 

 

 

I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

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La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

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Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

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Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

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Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).

Perché in tutti i film di esorcismi le vittime del demonio di turno sono sempre bambine o ragazze adolescenti? E perché l’assassino comincia sempre dalla cheerleader bionda che si accoppia col fidanzato? Abbiamo la certezza che Godzilla sia un maschio? Perché, in una maniera o nell’altra, l’opinione pubblica ci tiene sempre tantissimo a dipingere “male” le mamme dei serial killer più efferati? Perché lo zoccolo duro del pubblico dei programmi di true crime è formato in prevalenza da donne?

In questo saggio eclettico e assai battagliero – uscito per Tlon nella traduzione di Laura Fantoni -, Jude Ellison Sady Doyle attinge esempi da fatti di cronaca (anche lontani nel tempo) e dal nostro multiforme immaginario di riferimento – dal cinema alla letteratura – sistematizzandoli in una vasta disamina della mostruosità femminile. È una mostruosità più attribuita e artificiosa che oggettiva, un costrutto culturale di vocazione strumentale che ha radici profonde e remotissime – che spesso ritroviamo nella cosmogonia stessa dei popoli più disparati – e che deforma ogni ruolo identitario che col tempo ci è stato attribuito, dallo status di figlie a quello di madri.

Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne : Doyle, Jude Ellison Sady, Fantoni, Laura: Amazon.it: LibriIl corpo che si trasforma (per dare la vita, ad esempio) o per affacciarsi alla sessualità è il grande campo di battaglia. La posta in gioco, argomenta Doyle, è quella del controllo da esercitare e preservare per fare in modo che lo status quo – l’impalcatura patriarcale pervasiva che ha strutturato da ambo le parti il nostro modo di concepire l’ordine umano del mondo – continui a reggere. E perché regga è necessario che i ruoli non cambino e che nessuna desideri più di quanto le è stato concesso. Chi devia dal seminato è mostro, strega, forza maligna, matta o belva.

Dalla mitologica Tiamat alla Lucy di Dracula, Doyle cerca qui di rendere onore al profondo slancio di libertà che ogni donna-mostro ha espresso (malgrado i vincoli della sua condizione) e cerca anche di rendere giustizia a chi in mostro è stata trasformata per preservare una narrativa che tenta di renderci più controllabili, meno riottose, più gestibili e utili a una causa strutturata per non giovarci.

Una lettura che un po’ si discosta dal discorso introduttivo al femminismo più “appetibile” per cominciare a sporcarci le mani, affacciandoci su un paesaggio quasi inevitabilmente feroce. Perché anche nello scenario all’apparenza più estremo e splatter esiste un fondo di delegittimazione sistematica che riguardo anche il nostro quotidiano e l’immaginario in cui siamo state abituate, più o meno velatamente, a riconoscerci. Per Doyle, le gabbie servono a rinchiudere quel che temiamo, ma anche a tenere al riparo il resto del mondo da quello che non possiamo sperare di controllare. E tramandare questa paura, adattandola di volta in volta ad epoche e sistemi valoriali, è uno dei tanti modi per continuare a tenere in piedi le gabbie che da sempre ambirebbero a contenerci.