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Sei la bambina più bella, brava e intelligente del mondo, Sabrina Mannucci. Il tuo sarà un avvenire luminoso. L’universo intero ti deve ammirazione e ti sarà devoto, perché ogni qualità umana e ogni talento confluiscono nella tua personcina. Fama e fortuna, gloria e felicità ti apparterranno di diritto e, di riflesso, eleveranno la tua famiglia, che ti ha amata, “vista” e sostenuta come meriti. È il 1977, Sabrina è pronta per salire sul palco dello Zecchino d’Oro e tutto questo sembra ancora plausibile. Ma i poteri del Mago Zurlì basteranno?

Figlia di un funzionario RAI di caratura irrilevante – ma certo di contare moltissimo -, Sabrina cresce con la ferrea convinzione di essere speciale per davvero. Riccardo, suo padre, la porta in palmo di mano e sembra puntare su di lei – il cavallo migliore tra i figli – per iniziare un’ascesa in piena regola. Da famiglia piccolo borghese – con tutte le grettezze del caso – i Mannucci possono fare di meglio, possono seriamente tentare di insinuarsi nei giri che contano. Sabrina è uno strumento d’interposta ambizione e il prodotto mostruoso delle illusioni e delle frustrazioni altrui. La televisione è sempre accesa, pronta a istruire il pubblico su cosa sia legittimo sognare e a fornire un traguardo sempre visibile da tagliare: se arrivi qua dentro sei a posto, tutto cambierà.
Nel 2007, ritroviamo i Mannucci al capezzale di Riccardo e scopriremo gradualmente che ne è stato di loro. Sabrina sarà riuscita ad agguantare l’avvenire promettente tanto agognato? Sarà riuscita a trovare qualcuno capace d’amarla quanto l’ha amata suo padre? La famiglia sarà finalmente stata accolta nella cerchia dei ricchi e dei potenti? Son davvero tutti stupidi, brutti, grassi, ignoranti e grezzi a parte Sabrina o, nemmeno troppo in profondità, c’è sempre stato qualcosa di tragicamente sbagliato? E per noi che leggiamo, sarà così mostruoso tifare per il fallimento di Sabrina?

Sabrina è un personaggio ciabattesco da manuale. Contiene illusioni, vanagloria, megalomania e tutte le spiacevolezze e le robe orrende che vorrei tanto poter dire di non aver mai sentito crescendo, ma nel credersela così tanto si smaschera da sola e ci offre anche la possibilità di trovarla patetica e vittima di un contesto altrettanto “piccolo”. È l’eterna lotta tra pezzenti e ricchi, ultime ruote del carro e blasonati dirigenti, umili ingranaggi e macchinari pesanti. Nel rifiutarsi di restare al proprio posto possono emergere virtù e meraviglie che migliorano l’universo, ma non è il caso dei Mannucci. In loro si riassume molto di quello che non va nella “catena alimentare”, ma fanno parte del problema. Sperare non è peccato, ma è l’assoluta ineleganza con cui falliscono a risultare ripugnante. Anche quella, però, è una pura questione d’apparenza. Volete leggere qualcosa di malvagio? Sabrina è qua per voi.

[Vi va di ascoltarlo come ho fatto io? Trovate I giorni felici di Teresa Ciabatti su Storytel. Vi ricordo che passando per di qua vi donano un periodo di prova gratuito “prolungato” – 30 giorni invece di due settimane.]

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Book cover

La gente di pianura diventa cattiva perché non ha niente da guardare: non c’è un ostacolo naturale capace di creare un limite ai desideri ma la vastità monotona di quello che ti circonda scoraggia l’iniziativa. Insomma, vuoi andare chissà dove perché il paesaggio appare “facile” – e pensi che l’orizzonte ti sia dovuto – ma per strada non ti ci metti perché il potenziale percorso è semplicemente eccessivo. Marta Cai esordisce per Einaudi con Centomilioni allestendo il suo teatro proprio in un’evanescente cittadina di pianura, affidando alle sue “vittime” di finzione il compito di raccontarci l’insoddisfazione, lo stallo perenne di chi molto vuole ma pochissimo crede di poter fare, la claustrofobia assoluta delle radici, della meschinità fatta passare per affetto, della cura come ricatto.

L’unica cosa che Teresa e Alessandro hanno in comune è forse la necessità viscerale di scappare. Lei non concepisce nemmeno la possibilità di comprare un vestito senza la supervisione della famiglia tutta, lui si piace da impazzire e non ritiene che serva altro. Lei ha ben superato i 40, lui ne ha poco più di 20. Lei è una via di mezzo tra una bambina decrepita e una zitella prigioniera, lui non ha mai trovato il modo di farsi prendere sul serio. Entrambi coltivano una sorta di esistenza parassitaria: lei ostaggio dei genitori anziani – “con tutto quello che abbiamo fatto per te non vorrai mica abbandonarci?” – e lui come zavorra per il Vecchio Porco che mantiene la madre. Lei lo ama come ci si innamora di un cantante alle medie… e lui l’ha capito.

Son poche pagine, ma il rancore che ci troverete dentro penso vi basterà per lungo tempo. Più che Teresa – che è una creatura paradossale che può far pena come rabbia – quel che colpisce è l’accuratezza della ricostruzione di quella miriade di grettezze quotidiane, abitudini impermeabili al cambiamento e superbie imbecilli che fanno “paese”… e che sono fin troppo vere. A tenere insieme tutto è l’eterno tema dei soldi: chi ne ha, chi se li merita, chi li butta, chi ne vuole di più, chi fa progetti senza averne, chi non ha nemmeno l’immaginazione per spenderli e chi li conta in tasca agli altri, incessantemente. Cento milioni, pensati in lire per farli sembrare di più – anche perché andranno divisi in tre: ecco il premio per il più mesto degli inganni. Sono pochi? Sono tanti? Non si sa, dipende da com’è il paesaggio di casa vostra. Teresa e Alessandro vivono in pianura. E vivere, per loro, è un debito insormontabile.

Ogni famiglia è infelice a modo suo, abbiamo collettivamente metabolizzato. Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde – in libreria per Neri Pozza – è la cronaca secca e precisissima dell’insoddisfazione di una specifica famiglia, di un vuoto civilissimo e agiato, di una diminuzione perenne dell’amore che finisce poi per “personificarsi” in una figlia che sceglie di farsi spettatrice, topolino che si aggira ai margini dei crucci altrui – sempre silenziosi, sempre segreti, sempre senza speranza.

Nipote e figlia di femmine scandalose, troppo vive per essere opportune, “pazze” e nemmeno troppo tacitamente disapprovate dalla brava cittadinanza, Annetta diminuisce di pagina in pagina – un po’ perché non cresce, un po’ perché quello che pensa le spetti è poco e un po’ perché sua madre non c’è mai quando dovrebbe, non la ripara dalle ingiustizie più stupide e grette, non le lascia nemmeno immaginare un paesaggio in cui correre da sola (su gambe lunghe e forti).

È un esordio insolito e molto ben eseguito, misuratissimo e pieno di crudeltà tristi. Somiglia a un pezzo di musica da camera che si ascolta bene ma da studiare è un baratro di difficoltà o a un quadro piccolissimo ma zeppo di dettagli che in mezzo centimetro di tela lasciano intravedere un “oltre” sconfinato – ma noi siamo prigionieri di quella cornice, come Annetta, come sua madre.

Ah, se i muri potessero parlare! Nel caso di Adattarsi di Clara Dupont-Monod – in libreria per Clichy con la traduzione di Tommaso Gurrieri – lo fanno… e con grande garbo e sapiente delicatezza. Le “narratrici” poco invadenti di questo libro – che è un romanzo malinconico ma anche animato dalla forza cocciuta di un tempo che aggiusta, in qualche modo – sono le pietre di un cortile. Nella casa di montagna abita una famiglia che accoglie un bambino nuovo. C’è un fratello maggiore e c’è una sorella minore. Il bambino nuovo è bellissimo e tranquillo, ma dopo qualche mese tutti insieme appare fin troppo chiaro che non parlerà mai, non vedrà mai niente e non sarà mai capace di camminare o di relazionarsi con gli altri. Il suo è un “male” poco evidente e per nulla plateale, una staticità che pare accontentarsi di poco ma che devierà irrimediabilmente il corso della famiglia.

Il libro è diviso in tre parti, che corrispondono a quel che succede ad altrettanti abitanti della casa dopo la comparsa di quel bambino che resterà bambino per sempre… o almeno finché reggerà – e la medicina stabilisce subito che l’orizzonte da attendersi non è lungo.
I tre testimoni – più o meno sincroni rispetto all’esistenza del bambino – sono il fratello maggiore, la sorella minore e l’ultimo figlio. Un custode, una ribelle e uno spirito antico. Tutti e tre misurano differenze tra il prima e il dopo, tra loro e il bambino, tra il futuro che immaginavano e quello di cui dispongono, tra come pensavano di reagire e come di fatto agiscono, affaccendandosi o metabolizzando quella forza immobile ma presentissima, cambiando per non soccombere, trasformando quello che si sentono abbastanza forti da governare. Sono tre approcci molto diversi, che di certo sono solo alcuni degli innumerevoli possibili: spezzano il cuore perché sono tutti legittimi e nessuno sa di resa.

Chissà cosa sentiva davvero, il bambino di questa storia. Come sarebbe stato prezioso saperlo. Dividere l’inadatto dall’adatto è una libertà che nessuno in questo libro si prende, perché prevalgono le reazioni viscerali e istintive. Ci sono protezione, repulsione, curiosità e tutte sono forme di ribellione a un destino strano, espressioni tenaci di una volontà di conservarsi in una tempesta che non risparmia nessuno, perché il passo lento (o assente) di qualcuno significa rivalutare l’ampiezza del proprio. C’è chi trova un centro rallentandosi e chi scalpita per correre lontano e chi, dopo, deve inserirsi in un ritmo che ha subito scossoni impossibili da conoscere ma di cui si ereditano le vibrazioni. È una storia triste e gentile, paziente e inesorabile. Somiglia alle pietre che la raccontano: levigata ma dura, pronta a resistere alla natura.

Parlare di come è strutturato questo libro credo produca più disservizi che chiarezza. Lidia Yukanavitch sceglie la metafora dell’acqua proprio per lasciar scorrere i ricordi, creare gorghi, lanciarci giù per una cascata o imprigionarci nella fanghiglia stagnante dei momenti più cupi. La struttura che sceglie – o da cui si fa trasportare – è fluida come la memoria, deformata dalle rifrazioni della luce e condizionata dalla profondità degli eventi che man mano riguadagnano la superficie.

Insomma, La cronologia dell’acqua – in libreria per Nottetempo con la traduzione di Alessandra Castellazzi – diventa lineare solo dopo averne preso le distanze e dopo averlo considerato “tutto insieme”. E mentre si legge ci si aggrappa a quello che fluttua. Ci aggrapperemo a bottiglie vuote, a mostri sacri della letteratura, a mariti perduti, a percorsi accademici tortuosi, a elaborati sex-toy, a una bicicletta nuova, a una collezione di ciocche di capelli… tutti questi detriti viaggiano verso alcune isole “stabili” che ospitano dolori imperdonabili, incorreggibili.

Grossolanamente, potremmo dire che la storia di Yukanavitch è quella di una bambina cresciuta in una famiglia disfuzionalissima e violenta. Di un precoce prodigio del nuoto che non ha mai raggiunto orizzonti eclatanti. Di un corpo portato al limite e consegnato a un disordine vertiginoso. Di una ricerca per spogliare la lingua e la scrittura dal gesso dell’accettabilità e del garbo. Di una madre che perde la sua bambina e sceglie di non rimettere insieme i pezzi.
Pare la cronaca di quel che resta all’indomani di un susseguirsi di disastri naturali, se là fuori esistessero disastri naturali circoscrivibili a una singola persona. C’è il trauma come tema portante – già, anche qui… ben giunte e ben giunti nella Grande Era del Trauma Letterario, movimento collettivo che ha forse contribuito a mantenere vivo e a costruire un ulteriore seguito per un libro originariamente pubblicato nel 2011 -, ma c’è anche una grande vitalità rabbiosa, una volontà di persistere che non sfida tanto le circostanze avverse o il destino, ma diventa sfida contro il proprio stesso buio.

Non è un libro gradevole da leggere, penso. Ha guizzi di grazia estrema e frequentissime ruvidità. Le parti legate al sesso e alle dipendenze non sono particolarmente scioccanti, secondo me – per quanto trattate con esplicita disinvoltura -, ma credo risultino depotenziate dalla nostra ormai crescente assuefazione al tema. E la scrittura che viene a galla in questi capitoli m’è parsa molto didascalica, molto apparecchiata per ottenere un effetto, molto più banale dell’auspicato. L’aspetto positivo è che in questo libro ci sono così tante Yukanavitch che di rado si rimane ancorati a un unico vascello espressivo e ci sta che le pulsioni più incontenibili vengano descritte col metro espressivo che corrisponde a un tempo preciso, che si tratti di adolescenza o di qualsiasi altro momento di violenta liberazione.

Non so se La cronologia dell’acqua abbia voglia di sottoporsi a un “mi è piaciuto”/”non mi è piaciuto”. Ha davvero poco senso domandarselo. É un libro tremendo, crudo, violento. Ma è un libro che persiste e ci riconcilia con i mostri, i rancori, le furie irrimediabili, gli abbandoni e le sconfitte. Fa speranza anche quando fa più schifo. Prova a fare arte per mostrarci come far crescere una pelle nuova. Prova a raccontare che si può ambire alla felicità anche se ci sentiremo per sempre danneggiati. Prova a descriverci uno spazio eterno – liquido – di trasformazione.

Dalla gestione domestica all’organizzazione della famiglia, dai compiti di “cura” alle operazioni basilari e ripetitive che garantiscono il buon funzionamento di una casa, con Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli) Annalisa Monfreda si interroga sulle corrispondenze generi-ruoli e sugli automatismi che tradizionalmente condizionano il nostro abitare la coppia, la famiglia, il mondo del lavoro e la dimensione collettiva.
Quale imperativo biologico dovrebbe rendermi più qualificata del mio partner a caricare la lavastoviglie?
In base a quali costrutti stratificati ci sono compiti “da donna” e incombenze “da uomo”?
Perché i “ti aiuto, basta che mi dici cosa devo fare” è una trappola, per quanto forse mossa da buone intenzioni?
Quali strutture di potere diamo per buone senza renderci conto dei confini che ci impongono?

Tra fonti autorevoli e cronache di scleri condivisibili, Monfreda esplora le radici del carico mentale – e delle disparità lampanti ma mascherate che il concettone nasconde – per provare a immaginare una prospettiva che affianchi alla basilare idea di ribilanciamento degli sforzi anche una comprensione meno “meccanica” delle fatiche.
Il perno continua ad essere la scelta, secondo me. Si può scegliere se ci sono alternative. Si può scegliere se esiste un margine di manovra e se resta energia da convogliare in una determinata direzione. Si può scegliere quando ci si rende conto che l’orizzonte dovrebbe essere comune – e raggiungibile da entrambe le parti in causa. Una riflessione sincera, utile, liberatoria e pragmatica che sarebbe bello non leggessimo soltanto noi… WINK-WINK.

[Bonus-track: Bastava chiedere di Emma, il fumetto che ha recentemente rianimato il dibattito sul carico mentale.]

 

Che c’è di vero nei ricordi di famiglia?
Forse niente – ed è un niente molto più tentacolare di quello che accompagna i ricordi “normali”. Quel che c’è di vero sono le tracce che ci rimangono addosso e le spiegazioni che proviamo a darci, ma è una verità che associamo a un sentire sanguigno e non è raro che differisca di parecchio dalla cronaca imparziale e scientifica dei fatti.
Che possiamo saperne degli altri, poi?
Registriamo l’urto che generano su di noi, ma mai capiremo sul serio il perché profondo di quelle collisioni: si cresce compensando con l’invenzione i misteri imperscrutabili di casa propria e si cresce scegliendo cosa omettere o cosa infiorettare per cavarsela. Si cresce inventandosi una vita d’uscita e barando con tutta la gaiezza che possiamo chiamare a raccolta.

Vi ho quasi certamente attaccato una pippa superflua, però. Niente di vero di Veronica Raimo (Einaudi), non è uno di quei cronaconi formativi dolenti, ma somiglia di più a un’allegrissima operazione di esorcismo del gettonatissimo POVERA ME GUARDA CHE MI È TOCCATO.
Una madre capace di localizzarti a casa di chiunque – esteri compresi – in un’epoca priva di cellulari. Un padre che tira su tramezzi in casa trasformando un appartamento di 60 metri quadri in una sorta di alveare labirintico. Vestaglie, emicranie e Radio3. Vacanze che vanno a rotoli. Diffidenze ginecologiche strutturali e fidanzati che non ti vogliono mai al momento giusto – e poi trovano pure Gesù. Cofani fracassati. Ragazzine mummificate nello Scottex per non farle sudare. Zie pugliesi che ti infamano perché sei l’unica senza tette. Randagismo e case altrui. Lettere piene di frottole e scarponi in spiaggia perché ci sono i vetri. Rompersi le palle – anche grazie ai libri -, fratelli prodigio, clamorose truffe artistiche, bidelli coglioni, maniaci con l’impermeabile e nonne che parlano con la televisione.
La mitologia domestica di Veronica Raimo è una collezione di pessimi esempi, un esperimento di fuga continua, di adattamento tragicomico, di costruzione storta ma efficiente di un orizzonte sgombro dalle menate che ci buttano addosso. Anzi, è una rivendicazione surreale e molto divertente del diritto di fabbricarci le nostre personalissime menate, perché almeno in quello sarebbe bello poter fare di testa propria.

Perché scriviamo? Non posso rispondere per Raimo, ma forse lo facciamo per inventarci un posto più abitabile, per vendicare una versione più antica di noi, per dimostrarci di aver scansato l’ennesimo sabotaggio, per sincerarci di aver scendo, per non concedere a un male di svanire col tempo o per vincere ridendoci su. Scriviamo sulle ingessature che ci toccano in sorte mentre aspettiamo che le nostre ossa tornino a saldarsi. Ne usciamo più storte e di certo diverse da un ipotetico “prima”, ma quel che conta è come decidiamo di ricomporci. Che sia osso o memoria poco conta: restano comunque pezzi strutturali di noi.

Ah, Francesca! Tu a un anno recitavi a memoria le poesie! E quando andavi ai giardinetti con la tata sgridavi sempre gli altri bimbi che volevano tirare i sassi nella fontana. Sai cosa gli dicevi? SE BUTTI A SASSI A FUNTANA VIENE A CARAMBINIERI LEGA I MANI E METTE A PRIGIONE. Ma ti ricordi Bruno? Eri piccola, ma tutte le volte che lo vedevamo gli davi del nano. Bruno non è mai stato altissimo, ma tu niente, glielo dovevi chiedere. MA COME SEI BASSO BRUNO. MA BRUNO MA SEI UN NANO? Che figure che mi hai fatto fare, che figure. Anche coi nostri cugini di Chivasso. Ti ricordi, dalla zia per capodanno? Dovevi fare tre anni. C’è anche il filmino. Vero, Mimmo? L’avevi fatto il filmino. Avevamo il vestito di velluto uguale, io e la bambina. Quello nero con i fiori. Niente, non volevi stare nel seggiolone. Cercavo di farti sedere, ma tu ti eri stufata e volevi andare in giro. E a un certo punto ti sei girata e mi hai detto PUTTANA. Ma forte e chiaro. Si è capito proprio bene. Bello scandito. Pensa te, cosa mi è toccato sentire. Davanti a tutti, poi.

Ogni famiglia dispone della propria mitologia.
La nostra, come quella di tutti quanti, è zeppa di episodi discutibili di questo genere.
Pericolosi criminali alti un’ottantina di centimetri da consegnare alle forze dell’ordine. Malcapitati vicini di casa che, sull’onda dell’entusiasmo per Willow, venivano reclutati tra le fila degli eroici nani ribelli. E c’è, in effetti, una poesia antichissima che ancora mi ricordo – a spizzichi e bocconi -, ma dubito di averla declamata per mari e per terra prima ancora di imparare a camminare. Quanto al PUTTANA, MADRE di certo non se lo meritava, ma la provenienza dell’epiteto risale di certo ai viaggi in macchina con lei. MADRE ha sempre guidato molto bene, ma non si è mai dimostrata tenera con gli altri automobilisti, che venivano apostrofati nei modi più incredibili e con grande veemenza. Io, evidentemente, ero una passeggera molto ricettiva.

L’episodio più celebre, però, resta anche il più incomprensibile. Perché in casa mia non bestemmiava nessuno. Persino mio nonno e mia nonna si limitavano a ingiuriarsi in piacentino, senza però avvalersi di nulla di particolarmente blasfemo. L’unico che cristonava parecchio era il Nando, il nostro vicino in campagna, un signore altissimo e un po’ sdentato che ha passato la vita in canottiera bianca e salopette. Ma il Nando non bestemmiava con rabbia o con dell’autentico rancore verso il divino nel suo complesso, era più un intercalare. Quasi un gioviale apprezzamento nei confronti del cosmo e della sua benevolenza. C’è il sole? Il Nando non poteva limitarsi a dire “Che bellezza, c’è il sole!”, la Madonna (fantasiosamente deturpata) andava in qualche modo invocata per sancire l’estrema piacevolezza della giornata.
Anche se nessuno è mai riuscito a capire il perché, dunque, e sempre durante le fatidiche feste natalizie del PUTTANA, MADRE aveva deciso di portarmi a vedere questa sublime mostra di presepi nella cripta di un’antica chiesa cittadina.
Ettari di presepi. Presepi giganti, super complicati, accessoriatissimi e dotati di pecore quasi vive. Acqua corrente, lucette, dromedari, pastori devotissimi, angeli, chili di vera sabbia, muschio VIVO.
Uno di questi presepi artistici ospitava anche una grotta infestata da un piccolo demonio cornuto che appariva a intermittenza fra le fiamme. Credo fossero dei listellini di carta sospinti da un mini-ventilatore e illuminati come il set degli Occhi del cuore. Le fiamme si agitavano in pianta stabile, ma il piccolo Satana sbucava solo di tanto in tanto, allietandomi oltre ogni immaginazione. MADRE, che di certo non m’aveva portata alla mostra dei presepi per adorare il Maligno, doveva comunque star lì piantata davanti alla grotta per permettermi di gioire ogni volta che il demonio decideva di onorarci con la sua presenza, intoppando il passaggio e causando ingorghi fra i devoti visitatori. Non si sa bene quando accadde, perché MADRE non si è mai diffusa troppo sull’argomento, ma ad un certo punto, animata da un’incontenibile felicità per l’ennesima apparizione del diavoletto fiammeggiante, si narra che io, bionda e boccoluta, col ditino puntato in direzione della spelonca infestata dalle forze del male, abbia strillato fortissimo: IL DIAVOLINO PORCO ***!

Stacco.
Montaggio ravvicinato delle espressioni inorridite degli astanti.
Un prete, sullo sfondo, estrae il crocifisso.
Una signora anziana impugna il rosario come farebbe Wonder Woman col suo lazo magico.
E MADRE, vedendosi ormai accerchiata, mi trasporta di corsa fuori dalla chiesa, tenendomi come un pallone da rugby. O come una bomba pronta ad esplodere.

Cosa non darei per ricordarmelo.
Il diavolino, in realtà, ce l’ho in mente. È quel che ho detto che mi manca. Le concitate conseguenze della mia esclamazione devono aver generato un tale vortice di confusione da cancellare nella mia memoria ogni traccia verbale dell’episodio. E MADRE, ancora oggi, racconta la faccenda del diavolino con un misto d’orrore e divertimento, come una specie di sopravvissuta a una catastrofe (potenzialmente ben peggiore di quella che poi si è effettivamente verificata).

Perché è vero: i bambini dicono delle enormità. Anche se in casa loro, magari, son tutti dei poeti, dei santi o dei navigatori. No, magari dei navigatori no, che poi si sconfina subito nel gergo portuale.
Comunque.
Il bambino è, per definizione, imprevedibile. Perché non controlla i nessi causa-effetto, perché non sa ancora cosa aspettarsi dal mondo e perché i costrutti della socialità sono una faccenda complessa da amministrare. A me Bruno stava anche simpatico, ma a tre anni trovavo perfettamente legittimo investigare sulla sua altezza. C’è gente che sui social continua a comportarsi come mi comportavo io a tre anni con Bruno, ma il tatto verso gli altri esseri umani non è soltanto una qualità innata, c’è pure una considerevole componente sociale. Ci mettiamo un po’ a capire come stare insieme alla gente o a individuare il confine tra comportamenti accettabili e inaccettabili e, mentre prendiamo le misure, diciamo cazzate di ogni genere. Soprattutto se siamo piccoli e chiacchieroni.
Ecco.

Dati i miei vivaci trascorsi verbali infantili – nell’epoca precedente al sopraggiungere di una razionalità lievemente più strutturata -, vivo nel terrore. Perché ora un figlio ce l’ho io e, di certo, non sono pronta a sentirlo bestemmiare in chiesa. Nemmeno nei film esoterico-apocalittici con le mamme che scoprono di aver messo al mondo l’Anticristo c’è il piccolo Anticristo che bestemmia in chiesa (fosse anche in aramaico). Cesare si è approcciato al linguaggio con serena pigrizia. È da quando ha compiuto i due anni e rotti che ha deciso di parlarci oltrepassando la soglia dei suoi bisogni più immediati. Capiva tutto, ma non era particolarmente interessato a dircelo o a cimentarsi più di tanto nelle acrobazie dell’arte oratoria.

Ora, in compenso, non tace mai. Si esprime con un miscuglio di storpiature, termini precisissimi e onomatopee che lo fanno somigliare a una specie di Dario Fo a un passo dal coma etilico – ma più mobile. Assorbe tutto. Ripete tutto. Rielabora implacabilmente e, quando meno te lo aspetti, ti risputa fuori una roba che aveva sentito sei mesi prima in piazza a Rivergaro. E gli esiti non sono sempre edificanti.

Quand’è che bisogna bandire del tutto il turpiloquio dalle conversazioni domestiche?
Quand’è che va calata la scure della censura?
Quand’è che devi astenerti dal gridare CAZZO! quando t’arriva una multa?

Accidenti!
Caspita!
Perbacco!
…quando in realtà vorresti salire su una rupe e urlare VAFFANCULO STRONZI CHE NON SIETE ALTRO FICCATEVELA IN GOLA QUESTA MULTA DI MERDA!
O qualcosa del genere.

La risposta da vincitore delle Olimpiadi della Genitorialità dovrebbe essere la seguente: gli ultimi improperi vanno pronunciati in sala parto. Nulla di disdicevole, dal momento della nascita in poi, dovrà anche solo sfiorare le tenere orecchie della prole.
Ora, noi non so se mai ci qualificheremo per le Olimpiadi della Genitorialità. Va già bene se arriviamo alle selezioni provinciali. Milano è grande, mica è uno scherzo. Nel nostro piccolo, però, stiamo facendo il possibile per trasformarci negli sceneggiatori di Topolino. Innumerevoli personaggi di Topolino esternano a più riprese il loro disappunto, la loro rabbia e il loro legittimo furore senza scivolare nella trivialità più assoluta. Anzi. Non c’è nulla di più bello di un personaggio di Topolino che prorompe in una serie di esclamazioni desuete per prendersela con qualcuno. O che sceglie di canalizzare un dolore fisico LANCINANTE in una cascata di CORBEZZOLI e CORPO DI MILLE POLENE. Sempre con classe e pacatezza. Con dell’immaginazione. Con un lessico sublime, per quanto prestato a una situazione che fa incazzare.
Nonostante le nostre ottime intenzioni, però, ci troviamo spesso di fronte ad eventi imprevedibili. Perché il nostro infante, come tutti gli infanti, crea mostri anche là dove non c’era altro che innocenza. Tra le loro numerose qualità, infatti, i bambini hanno anche il dono della decontestualizzazione. Una roba “normale” viene presa, assimilata, processata e scomposta, per poi scaturire nuovamente da tuo figlio in un momento a caso, ubbidendo a una struttura che vive di vita propria e che tu non puoi governare.
Io, che qualche mese fa mi divertivo con PANDA che al plurale fa PANDI – o con UOVA/UOVI -, ora ho il terrore di sbucciare banane in presenza del mio erede perché, un pomeriggio, ho inconsapevolmente commesso un errore.
Adesso la mamma ti sbuccia la banana, Cece. Ecco qua. Togliamo tutto e… accidenti, si è rotto il culetto qua in fondo.
E per i quindici minuti successivi, Cesare ha urlato a pieni polmoni CULO ROTTO! CULO ROTTO!

Non c’è scampo.
Non c’è speranza.
Chiaro, potevo usare il termine “sederino” o buttarmi sul puntiglioso con un “accidenti, si è rotta la parte terminale della banana” e/o “l’estremità inferiore della banana”. Ma mica sono una tata-robot. Sono una madre che sbuccia banane al meglio delle sue possibilità. E ogni tanto i culi si rompono.

A onor del vero, però, va specificato che Cesare dice anche cose bellissime.
Anzi, le cose bellissime sono quasi sempre la norma.
La prima volta che ha risposto a un “ti voglio bene” con ANCA IO MAMMA TANTO TANTO BENE credo di aver pianto per due ore e mezza, soffiandomi il naso a più riprese e spedendo messaggini di giubilo anche ai vicini di casa che non ho mai visto.
Tralasciando per un attimo il rischio di creare (anche accidentalmente) delle bombe a orologeria verbali, però, quello che forse mi sto chiedendo davvero è che cosa “arriva” di quello che dico.
Cosa assimilano questi infanti? Come elaborano e fanno proprie tutte le chiacchiere che ci scambiamo? Sarò capace di trasmettere a Cesare qualcosa di importante, come le coordinate basilari della felicità, della sicurezza nelle sue capacità, del rispetto per gli altri e dell’amore? Riusciremo a fare un po’ di luce sulla vastità delle faccende del mondo? Riusciremo, in sintesi, a trovare un modo per farci ascoltare, quando vorremo (e vogliamo) provare a spiegargli quello che conta di più?
Come al solito, non ne ho la più vaga idea. Ma persevero nel descrivergli anche le azioni più piccole. Parlo di mele, lamponi, talloni, apatosauri, castori, pettini, pigiami e bambù. Parlo di quello che si vede e di come mi sento, di come mi sembra che si senta lui, di come si coccolano i gatti e di che cosa è successo oggi, anche se non è successo niente di decisivo per le sorti del mondo. Che ne farà di tutte queste parole? Un gran pasticcio, probabilmente. Diventerà un piccolo calderone da cui usciranno periodicamente robe inaccettabili – CAZZO! -, robe tenere – APATOALLO MANGIA EBBA – e immagini di una certa specificità – PAVONE FA UOTA, NONNA! – mentre sul fondo rimarranno a bollire altre storie, i ricordi antichi, le scoperte nuove. E, magari, anche le cose “grandi”, i piccoli fari con cui speriamo di guidarlo. Nonostante i culi rotti.

Non tutti gli anni ti capita qualcosa di straordinario. Non tutti gli anni sono speciali. Certo, quelli bravi sul serio riescono a tirare fuori il buono anche dai periodi più catastrofici, ma ci vuole dell’impegno. E, comunque, non è detto che un anno pieno delle celeberrime “difficoltà che mi hanno insegnato tanto” si tramuti all’improvviso in un forziere colmo di meraviglie da ricordare con gioia e gratitudine. Io, in tutta franchezza, di anni che dimenticherei piuttosto volentieri ne ho quanti ne volete. Sono serviti? Certo. Me li sciropperei di nuovo? No, grazie assai.
In quest’anno che è appena finito, però, mi sembra di aver combinato qualcosa di memorabile. Quest’anno, chissà poi come, mi pare di aver fatto qualcosa di buono, di felice. La felicità si fabbrica in maniere bizzarre e misteriose, quasi sempre accidentali. È un fenomeno di complicata riproducibilità che spesso ha poco a che vedere con le intenzioni, che ti fa commuovere quando la intravedi nella vita degli altri ma che ti fa anche imbestialire, perché inevitabilmente ti domandi che cos’hai che non va, perché tutti si muovono mentre te rimani sempre lì, perché sembra che ogni volta ti manchi un pezzo per arrivare dove credi di dover piantare una bandierina.
Per certi versi continuo – e temo continuerò sempre – a sentirmi un passo indietro, ma perché funziono così e ciao.
A me, tipicamente, la cosa giusta da dire viene in mente due giorni dopo. Sono quella vestita un po’ troppo bene quando gli altri arrivano (saggiamente) con le ciabatte di gomma – e viceversa. Non sono brava a simulare simpatie e a coltivare relazioni astute. Non ho pazienza per chi significa poco per me ed è impossibile darmi degli ordini. Non mi sento particolarmente indispensabile e, di conseguenza, mi prendo poco sul serio.
Sono sbilenca, e sbilenca resterò.
È un peccato, forse, ma ho deciso che va bene così. Perché, nonostante le mie numerose goffaggini, sto riuscendo a fare cose assolutamente impensabili. Almeno per me. Ed è questa la cosa davvero strabiliante. Scoprirsi capaci di cavarsela in un territorio dove mai avremmo creduto di poter mettere piede, perché ci sembrava un posto troppo remoto e troppo difficile da raggiungere. Un posto che, tutto sommato, non ci sentivamo pienamente in diritto di abitare.
Nulla di quello che mi è capitato in questi ultimi anni felici è riuscito a cancellare completamente il sospetto della candid-camera. Forse è per questo che non ho mai smesso di impegnarmi. O di stupirmi davvero moltissimo di fronte ad ogni mattoncino importante che sono riuscita – non si sa bene come e di certo non da sola – a incastrare al posto giusto.
Quindi sì, è così che è andata.
L’anno scorso non ho fatto nulla di inedito nel vasto panorama della storia umana. Ma mai al mondo avrei pensato di ritrovarmici. E di uscirne indenne. E di scoprire che così tante cose all’apparenza assurde e gigantesche sono, in realtà, assurde e gigantesche ma possibili. Ho fatto fatica e continuo a non capirci un granché, ma sono arrivata in fondo con la sensazione di aver creato, strada facendo, della felicità dove prima non c’era niente. Della felicità nuova.