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Dunque, l’universo costruito da Scott Alexander Howard per questo libro funziona così: nel cuore di una valle c’è una cittadina lambita da un grande lago e protetta dai monti. Non si hanno notizie di altri luoghi da raggiungere o di un mondo più vasto. Tutto quello che sappiamo è che alla “nostra” valle ne corrispondono altre, copie identiche traslate di vent’anni avanti o indietro nel tempo – e via così potenzialmente all’infinito, possiamo immaginare. Se dalla nostra valle “presente” ci spostiamo a ovest torniamo indietro di 20 anni – rivisitando il passato -, se ci spostiamo a est andiamo avanti di 20 anni – trovando il futuro. I confini tra le valli sono sorvegliatissimi dalla gendarmeria e le visite tra una valle e l’altra vengono autorizzate solo in casi eccezionali da un Consiglio che ha sia il compito di amministrare la cittadina che di salvaguardare il tessuto del tempo – come ci hanno insegnato Doc e Marty McFly, infatti, incontrare una propria versione passata/futura può produrre effetti devastanti e imprevedibili, così come provare ad alterare o cambiare il corso degli eventi.

La piccola comunità valligiana è organizzata secondo un sistema che sembra scoraggiare strutturalmente la mobilità sociale o i ripensamenti in corsa. Durante le superiori gli studenti sono chiamati a scegliere una “carriera” che li accompagnerà per tutta la vita. I panettieri saranno panettieri, i gendarmi saranno per sempre gendarmi e chi manifesta tendenze “antisociali” o una fondamentale incompatibilità con un compito preciso sarà relegato a vagabondare ai margini e reso teoricamente innocuo dall’indigenza e dall’invisibilità che ne consegue. Il Consiglio è l’unico organo che può sporadicamente permettere ai “meritevoli” di ascendere, con un programma didattico specifico che promette maggiori privilegi e anche un accesso ai meccanismi meno noti del tempo. La comunità sa il minimo indispensabile a mantenere l’ordine e si nutre di folclore e di moniti che paiono più adatti a tener buoni i bambini che a gestire un gruppo sociale consapevole.

La nostra protagonista è una studentessa poco appariscente, timida e taciturna. Di amici pare non averne e sua madre – che fa l’archivista per il Consiglio perché non è riuscita a superare le selezioni per sedersi al tavolo dei potenti – la sprona pesantemente a vendicare la sua sconfitta. Forza, Odile, provaci! So che saprai fare meglio di me! Riscattaci! E Odile ci prova, candidandosi per l’ambito programma speciale che dovrebbe garantire a lei – come a sua madre – una vita più confortevole e un destino diverso da quello di formichina muta e ignara che tocca alla maggior parte degli abitanti della valle.
I sedici anni di Odile saranno decisivi, perché quel tentativo di affacciarsi al mondo – che passa per la candidatura al Consiglio ma anche con la faticosa apertura a un piccolo gruppo di compagne e compagni di classe – coinciderà anche con la comparsa di un presagio e con una tragedia che cambierà per sempre il suo tempo “personale”… e forse anche quello delle valli in cui Odile esisterà.

Allora, le regole d’ingaggio e le condizioni di contesto/mondo che vengono apparecchiate per noi in L’altra valle – in libreria per la neonata casa editrice Mercurio con la traduzione di Veronica La Peccerella – sono di estremo fascino, credo. Meccanismo temporale a parte – che è fatto sfizioso senza ombra di dubbio -, c’è l’opacità del potere, l’asimmetria che si crea quando a decidere come una “massa” dovrà vivere sono solo alcune persone che si auto-proclamano migliori, illuminate, più adatte. Ci si chiede dove stia il confine tra bene comune e volontà pura di controllo e che cosa faremmo noi, trovandoci in un posto liminale che almeno in via teorica ci permette di vedere che cosa ne sarà di noi o di correggere quello che ci sembra di aver sbagliato. Per essere un romanzo che usa il tempo come tema centrale e dilemma etico, però, non c’è una gestione brillantissima del ritmo e il punto di vista di Odile non aiuta molto a “muovere” la narrazione. In un certo senso è un aspetto totalmente funzionale a trasmettere una certa idea di inesorabilità e di rassegnazione, di penitenza e di lento macerarsi tra rimorso o occasione sfumata, ma per quanto lo si possa motivare il risultato è a tratti frenato da una certa pesantezza di fondo. Ne riemergiamo con soddisfazione grazie a un buon finale e tanti sono gli interrogativi che ci aiutano a proseguire, ma spesso ci si ritrova a esaminare Odile, le valli e i suoi abitanti come farebbe uno scienziato gigantesco, molto efficiente e scarsamente empatico con un terrario pieno di cavie. E chissà che la natura autentica del paesaggio del romanzo non sia, in fondo, proprio quella…

Angela Izzo, io ti riconosco. Sono di Piacenza e a Napoli non possiamo vantare alcun parente, ma ti sento nelle ossa, ti sento nelle orecchie, capisco cosa dev’essere stato passarti davanti. Detestarti è stato bellissimo, in queste pagine. Forse meritavi di peggio, ma “‘o scrittore du’ cazz'” è figlio tuo e io non ho intenzione di intromettermi. Di te, però, devo ammettere d’aver ammirato l’aperta ostilità e la propensione nulla al commento obliquo, ma andiamo con ordine. Chi diavolo è Angela Izzo? Era la mamma di Antonio Franchini, che qui troviamo trasfigurata in personaggio nefasto e nemesi romanzesca, nel mostro che sta al centro del gorgo di famiglia. Angela risucchia tutto e sembra contaminare anche quello che non tocca, perché vastissima è la disapprovazione che proietta e inesauribili sono i debiti di cui è capace di caricarti.

Di figli e figlie che scrivono delle proprie madri è pieno il mondo, ma è raro imbattersi in un’avversione così schietta,  furibonda e circostanziata. Nel produrre questo ritratto “mediato” di Angela, Antonio Franchini intreccia piani temporali, registri e ricordi, restituendoci un intero sistema di disvalori, oltre che la parabola biografica di un rapporto di sangue. Angela è difficile da intrappolare e impossibile da neutralizzare, perché non tace mai e sgomita per deformare la realtà. Il suo dominio è lo spazio domestico – prima a Napoli e poi a Milano, dove segue due dei suoi figli ormai diventati adultissimi – ma il dove la si piazzi conta poco, perché Angela è impermeabile al mondo, alle opinioni altrui, all’italiano e alla temperanza.

Angela si esprime per sentenze, anatemi, rivendicazioni, dogmi, furori imprevedibili, sceneggiate interminabili, insulti. È vanagloriosa ma poveretta quando le fa comodo, prepotente ma vittima, sprezzante ma dipendente dagli altri, perché può affermarsi solo per opposizione diretta, in una continua rivendicazione di una superiorità farlocca, basata sul disvalore, sul pregiudizio e sul disprezzo. Le sue arringhe sono confuse e la sua invadenza totale: son tutti coglioni (o zoccole) tranne lei, che non si fida di nessuno e che tutti dovrebbero elevare a esempio supremo, anche se crede a intermittenza solo a quello che potrebbe tornarle utile o, per principio, solo al contrario di quello che pensi tu. Lo stato le deve l’accompagnamento, i suoi figli le devono tutto e noi, che possiamo solo limitarci a leggerla, siamo grati a Franchini per aver fatto da parafulmine.

Il fuoco che ti porti dentro – uscito per Marsilio e finalista al Premio Campiello – è un libro tremendo perché Angela è tremenda, ma Franchini riesce a restituirci quella simpatia immotivata che le conoscenze superficiali possono di tanto in tanto suscitare. Tutti gli amici o i colleghi di Milano che per qualche ragione di sono imbattuti in Angela l’hanno trovata folcloristica, insolita, affascinante e “fortissima”, nella sua inarrestabile follia. Il dramma è lì, in questa capacità di metamorfosi del mostro, ma in questo spazio sta anche l’abilità di scriverne donandoci il comico e il paradossale, senza scadere nella macchietta ma concedendole l’onore delle armi, come andrebbe fatto con ogni valente avversario. La storia di Angela è quella di una famiglia intera, di uno scontro eterno tra Nord e Sud, tra ricchi e zappatori, tra pesce “buono” e schifezze del supermercato, tra madri e figli… che scappano per salvarsi e, per fortuna, decidono a volte di raccontarcelo così.

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

Dunque, ci sono delle signore di un sobborgo-bene di Charleston che bidonano un bookclub pretenzioso per fondarne uno “specializzato” lì per lì in true-crime, delitti efferati, cronaca nera e grandi misteri americani. Sono amiche, hanno tutte una manciata di figli a testa, dei mariti che lavorano mentre loro badano al tran tran domestico e delle casone col pratino da curare. Sono immerse in un contesto di “vicinato” a metà tra l’invadenza e l’estrema premura: qui ci vive solo gente come si deve, siamo una grande famiglia, la nostra comunità è genuina e virtuosa. Siamo negli anni ‘90 e Patricia Campbell è afflitta – come le sue amiche – da tutte le migliori intenzioni della Brava Moglie del Sud. Ma cosa succede quando in una comunità così affiatata e unita appare un elemento di rottura – e di potenziale stravolgimento?

Il “corpo estraneo”, per le nostre affiatate lettrici, è un nuovo vicino che arriva nel quartiere per prendersi cura – a suo dire – dell’anziana zia. Sembra un tizio a posto, ma non lo si vede mai in giro di giorno, guida un furgonaccio, pare sprovvisto di documenti, risponde con cordiale evasività (e palesi contraddizioni) a ogni domanda personale e resta sullo zerbino finché non lo si invita esplicitamente a entrare in casa. La suocera invalida di Patricia perde la brocca appena lo vede e sostiene a gran voce di averlo già incontrato da bambina: questo qui è il tizio che ha distrutto le nostre famiglie! Patricia non sa bene cosa pensare: Miss Mary è senza dubbio più di là che di qua, ma tanti altri piccoli incidenti cominciano a verificarsi attorno a James Harris… e forse vale la pena indagare.

Mentre Patricia si esercita a demolire le barriere del suo razionalissimo mondo per confrontarsi con qualcosa che sfida il senso condiviso della realtà, James Harris si guadagna la fiducia di mariti, figli e figlie, semplici passanti, ratti. Nel quartiere afroamericano cominciano a sparire dei bambini, ma nessuno – a parte Patricia e la badante di Miss Mary, che viene da lì – pare scomporsi. I nostri figli stanno bene, no? I ragazzini neri si mettono sempre nei guai, che sarà mai.
In un’alternanza di ipocrisie terrificanti – ma molto rivelatorie -, gaslighting sistematico, problemi strutturali di attendibilità – dovremmo forse dar retta a una casalinga suggestionata dal true-crime? Dove andremo a finire! -, uomini coglioni e foschi presagi, Grady Hendrix apparecchia una storia corale che batte un po’ sempre sugli stessi tasti ma che riesce a intrattenerci bene, insinuando il tarlo del sovrannaturale nella vita placida (e urbanamente meschina) del quartiere.

Peccato per James Harris – che dice poco e credo sia anche l’ipotetico mostro più noioso che mi sia capitato d’incontrare – ma un pollice su per l’abile stratificazione delle inquietudini e del senso di minaccia latente. L’indagine di Patricia non è degna della CIA, ma la dinamica dei personaggi fa il suo dovere e il fatto che le opinioni delle donne vengano sempre trattate con estrema condiscendenza e paternalismo fa arrabbiare, ma è anche il succo della questione.
Sì, qua e là c’è roba schifosa, macabra e splatter. Ma anche pulire la cameretta di un adolescente credo lo sia.

Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe è uscito per Mondadori nella traduzione di Rosa Prencipe, ma si può ascoltare anche su Storytel – come ho fatto io. Per collaudare Storytel con un bel mese gratuito, qua c’è il solito link.
Se volete approfondire le imprese di Hendrix, di suo ho letto anche Horrorstör, una roba mattissima e dal taglio OH CHE PAURA ancor più calcato. Che succede? Tutta la vicenda è ambientata in un megastore di arredamento che molto ricorda un arcinoto colosso svedese. È una via di mezzo tra un’escape-room e una discesa agli inferi ma, in maniera ancor più spiccata, è una riflessione sul consumo, sul capitalismo e sul lavoro come forma di dannazione eterna. Fa ridere, mette angoscia, è una chicca di astuta stranezza.

Lo squash è il vostro sport preferito? Ottimo.
Mai v’è interessato? Nessun problema.
Lo squash, in questo romanzo d’esordio, è una sorta di laboratorio emotivo e il campo – con le righe che tracciano la grande “T” del titolo – è il posto in cui si va quando le parole non bastano più. È buffo che per guarire dal vuoto lasciato da un lutto i personaggi superstiti di questa storia – un padre e le sue tre figlie – scelgano di gettarsi a capofitto in uno sport intrisecamente solitario, come parecchi di quelli che si fanno con una racchetta in mano, ma ci si arrangia con quel che c’è e con quello che si conosce. E si provano a rievocare atmosfere felici (o a stancarsi molto) mentre si aspetta che i fantasmi che amiamo ci mandino un segno.

Gopi e le sue sorelle hanno perso la mamma e si ritrovano per allenarsi, un giorno dopo l’altro, sotto l’occhio spento del padre su un campetto alla periferia di Londra. Farle giocare è l’unica cosa che sembra aiutarlo a tenersi a galla e loro lo assecondano, insieme e solissime, colpendo palle a ripetizione nella speranza di ritrovare il ritmo della normalità… o di lasciarsi ipnotizzare. C’è molto di meccanico, negli sport che si fanno con la racchetta, ma esiste uno specifico stato di felice straniamento che si innesca quando ti abbandoni all’automatismo. Si diventa fluidi, si diventa leggeri, ci si dimentica di sé, si fa tutto il giro e forse ci si ritrova.

La voce narrante di T di Chetna Maroo – splendidamente tradotto da Gioia Guerzoni per Adelphi – è proprio quella di Gopi, la più piccola e anche la più brava e promettente in campo. È una voce bizzarra, per una bambina di undici anni. Seria, profondissima, lapidaria. Gopi è una di quelle persone con cui è facile condividere un silenzio, perché chi ha pochi punti di riferimento tende ad ascoltare molto e a cercare indizi. Non che suo padre le offra molti appigli, a parte il salvagente – e l’ossessione – per lo sport. A squash, lì a Londra, sembra giocarci solo chi arriva dal Pakistan o dall’India, come loro. A tener vive le radici c’era la mamma – anche se le tre sorelle non parlavano bene il suo gujarati – e vuole riprovarci la zia, che le vede selvatiche e sperse, lontane dalla comunità e anche da lei, che vive a Edimburgo. Quanto allenamento occorre per crescere quando ti manca un pezzo? Quanta stanchezza serve accumulare per dimenticare? Chi ci aspetterà, quando resteremo indietro?

Bonus track: una chiacchiera di approfondimento – e di rara piacevolezza – con Nadeesha Uyangoda.

 

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Invidia è uscito a puntate sul quotidiano Tan nel 1937 e questa traduzione di Nicola Verderame per Crocetti è la prima a far capolino fuori dai confini della Turchia, dove Nahid Sirri Örik è al centro di una sorta di riscoperta collettiva dopo decenni di oblio. Cosa ne so io della produzione letteraria turca a cavallo tra la disgregazione dell’ordine imperiale Ottomano e l’insediamento della repubblica? Zero, ma da qualche parte è possibile cominciare, quindi perché non tentare con questo concentrato di cattiveria, passioni nefaste, scappatelle sciagurate, matrimoni mal architettati e città minerarie provincialotte che vogliono fingersi bel mondo? Alé.

Una buona domanda per cominciare è la seguente: che cos’è l’invidia? Quali conseguenze può produrre? Per quanto possiamo “coltivarla” prima che ci divori dall’interno? Örik architetta per la protagonista di questa storia delle pessime condizioni strutturali: è brutta – e ci viene ribadito brutalmente ogni tre righe proprio in quel modo lì: “è brutta” -, non è più giovane – secondo gli standard del tempo, almeno -, non ha un marito e dipende di fatto dal fratello, che è avviato a una buona carriera nel nuovo e fiorente settore estrattivo.
Ma poteva andare diversamente?
Secondo Seniha sì. Perché bella non è mai stata, ma c’è stato un tempo in cui avrebbe potuto studiare e prendere sul serio le proposte di potenziali pretendenti, ma in una famiglia in cui le risorse non sono più floride come prima – l’era dei Pascià è letteralmente e metaforicamente finita – si sceglie di investire sul figlio maschio di casa e non di sicuro su una femmina, che di prezioso ha solo la sua virtù. Halit studia e viaggia, insomma, mentre Seniha resta ferma ai blocchi di partenza, vedendosi portare via risorse che pensa le spettino e covando nel cuore un rancore devastante.

Quando Halit torna a casa con una moglie vispa e bella – a coronamento di una posizione sociale che si fa sempre più significativa -, a Seniha si chiude definitivamente la vena. Tu, che prosperi grazie a tutto quello che mi è stato tolto. Tu, che mi ignori e manco mi degni di uno sguardo, quando a ogni passo dovresti ringraziarmi perché è me che hanno sacrificato per darti tutte le possibilità che hai avuto. Tu, che hai deciso che dovrò farti di fatto da governante a vita invece di impegnarti a trovarmi un buon partito e una casa mia da gestire come avevi promesso di fare.
E via così.
Ma le recriminazioni di Seniha non si limitano a restare nello spazio astratto delle idee: a trasformare “la fanciulla sfiorita” – CHE CI TENGO A RICORDARVI SEMPRE E ANCHE QUA CHE È MOLTO BRUTTA, inciso mio – nell’antieroina totale di questo romanzo è la transizione dall’interiorità alla pratica. Seniha si fa artefice di un sabotaggio deliberato, di una lunga e meticolosa opera di manipolazione ai danni dell’anello più malleable della catena, quella giovanissima e splendida moglie che nessuna passione vera ha conosciuto e che ha sposato Halit per uscire dall’indigenza – l’ennesima tragedia “femminile” che Örik ci dona. Seniha trasforma Mükerrem in un’arma per danneggiare il fratello, anche a costo di non guadagnarci più niente – anzi, ben sapendo quanto poco le convenga turbare lo status quo.

L’aspetto più epico e terrificante dell’impresa di Seniha è proprio la natura intrinsecamente autolesionistica del suo progetto: l’invidia che la muove non è un sentimento che produrrà dei vantaggi per lei o che prevede almeno una soddisfazione personale. Non c’è rivincita, non c’è compensazione possibile. Quel che è perso è perso, ma quel che posso farti perdere io non mi restituirà niente e non renderà radioso il mio avvenire. Ma lo faccio lo stesso, perché demolirti è l’unico potere che mi hai lasciato, avendo escluso a priori di poter partecipare di buon grado alla tua prosperità. Scelgo di farti del male e spero di fartene il più possibile, perché è l’unico tizzone “vivo” che mi resta.

Insomma, se vi intrigano i territori storico-letterari fuori dai radar consueti e se siete in cerca di un libro fatto di interiorità tumultuose e gente sgradevolissima ma assai interessante nel suo nero spirito, Örik può essere un recupero curioso – per quanto amaro e fosco – da fare.

Dunque, di Ilaria Bernardini avevo letto con trasporto Faremo foresta e torno a frequentarla con Il dolore non esiste – uscito per Mondadori -, una storia incasellabile nel filone degli scrittori e delle scrittrici che terrorizzano la propria famiglia parlandone nei loro libri. Nel caso di Bernardini, però, scrivere del padre è un esperimento di “contatto”, di recupero del ruolo di figlia all’interno di una relazione che si è rotta, forse senza rimedio.
“Mio padre non mi parla”, dichiara all’istante Bernardini – e non lo fa da tanti anni. Però un padre che le parlava, che manifestava la sua presenza (per quanto scostante, diluita o regolata da confini precisi) nella vita della famiglia è esistito, fino a un certo punto.
Che è successo? Perché parla a tutti e a lei no? Perché si è tenuto alla larga anche dagli eventi più enormi dell’esistenza “adulta” di sua figlia? Perché non c’è più un posto per lei?
Per spiegarsi quello che mai le è stato spiegato, Bernardini cerca di ricostruire la vita di un padre che resta ingombrante, magnetico e fondamentale pur non partecipando mai allo scorrere di un presente che si fa sempre più lungo, dilatato e incomprensibile. Tu non mi vuoi parlare? Perfetto, parlerò io anche per te. È un modo come un altro per tenerti con me.

L’ombra del padre si intreccia a un presente di sceneggiature da consegnare, di bambini che smettono di avere un bisogno completo di noi, di isole, di isolamenti forzati e di pugni tirati. La boxe è un collante imprevedibile – per quanto in differita – tra padre e figlia. Bernardini si allena in vista di un match che dovrebbe finalmente ricomporre la frattura, ma anche per combattere bisogna essere in due… e non è detto che ci si voglia far male per davvero, quando già basta la lontananza ad allenarci al dolore. Negarlo rende più forti? Quanto possiamo incassare? Come si tira avanti quando abbiamo l’impressione di essere diventate superflue – per chi ci ha cresciute come per chi stiamo provando a crescere?

È una storia difficile da classificare. Avvolge pur parlando di distacco e penso sia anche un buon esempio di cosa significhi scrivere per colmare vuoti, neutralizzare assenze o confrontarci con quello che non capiamo. Non sempre si arriva a una risposta lineare. Per sentirci “presenti” bisogna registrare le scosse del quotidiano, osservarci mentre capita dell’altro, costruire una specie di sistema orbitale che tiene insieme piani diversi che funzionano tutti insieme – e seguono spesso moti irregolari. 

[Volete farvelo leggere da una portentosa Sabrina Impacciatore? Trovate l’audiolibro su Storytel. Non avete ancora collaudato Storytel? Ecco qua il “nostro” periodo di prova gratuito esteso.]

Non so come sia crescere in una casa piena zeppa di fratelli e sorelle. Forse si impara a fare un gran chiasso per emergere in quel pandemonio di altri bambini, calzini, piatti e carabattole – specialmente se i genitori che ti toccano somigliano un po’ a quelli di questa storia. O forse ci si ritira nel proprio guscio come chioccioline pazienti, perché gestendo un perimetro più piccolo si può imparare a sottrarsi al caos circostante o a patire di meno la noncuranza dei grandi. Non si sa nemmeno se i grandi, qui, siano sbrigativi e distaccati per necessità pratiche o per indole, ma tra i figli che ci sono già e quelli che arrivano a ciclo continuo resta più margine per il lunario da sbarcare che per grandi slanci sentimentali. Le braccine dei bambini servono ad aiutare e grava sulla casa una cappa di disordine, di fatica rassegnata, di uomini che perdono bestie utili a carte e che quando escono chissà dove vanno.

La bambina silenziosa di Un’estate – piccolo gioiello di Claire Keegan in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Monica Pareschi – si prepara a cambiare aria per un po’. L’ennesimo fratellino sta per nascere, la mamma sarà indaffarata e un’estate senza scuola è lunga da sfangare. La bambina viene caricata in macchina e portata dai Kinsella – una coppia insieme vicina e lontana alla famiglia. Mandano avanti una fattoria prospera e, anche se si fanno un mazzo così, la bambina intravede in loro una serenità che non conosce e che non è abituata a “sentire”. Saranno davvero così contenti? È possibile che decidano di cacciarla via all’improvviso? Perché l’estate non può durare per sempre? Perché sono così diversi dai suoi genitori?

È una storia fatta di gesti semplici e di parole misurate, delicatissima nel rivelare pian piano una ferita insanabile. Ci vuole coraggio a voler bene di nuovo così come ne serve tanto per lasciarsi amare, se raramente qualcuno si è preso cura di noi. E quell’amore “di base”, così ovvio ma anche elusivo, può attecchire fortissimo anche se mancano legami di sangue, rivendicazioni di “proprietà”.
Si legge in un paio d’ore – meno di quanto occorre a preparare una crostata al rabarbaro, penso -, ma credo vi farà compagnia a lungo, consolandovi anche un po’. Perché sì, comunque vada, l’amore che si riceve non si dimentica.

[Ma c’è altro di Claire Keegan? Certo, ecco qua Piccole cose da nulla.]

Sei la bambina più bella, brava e intelligente del mondo, Sabrina Mannucci. Il tuo sarà un avvenire luminoso. L’universo intero ti deve ammirazione e ti sarà devoto, perché ogni qualità umana e ogni talento confluiscono nella tua personcina. Fama e fortuna, gloria e felicità ti apparterranno di diritto e, di riflesso, eleveranno la tua famiglia, che ti ha amata, “vista” e sostenuta come meriti. È il 1977, Sabrina è pronta per salire sul palco dello Zecchino d’Oro e tutto questo sembra ancora plausibile. Ma i poteri del Mago Zurlì basteranno?

Figlia di un funzionario RAI di caratura irrilevante – ma certo di contare moltissimo -, Sabrina cresce con la ferrea convinzione di essere speciale per davvero. Riccardo, suo padre, la porta in palmo di mano e sembra puntare su di lei – il cavallo migliore tra i figli – per iniziare un’ascesa in piena regola. Da famiglia piccolo borghese – con tutte le grettezze del caso – i Mannucci possono fare di meglio, possono seriamente tentare di insinuarsi nei giri che contano. Sabrina è uno strumento d’interposta ambizione e il prodotto mostruoso delle illusioni e delle frustrazioni altrui. La televisione è sempre accesa, pronta a istruire il pubblico su cosa sia legittimo sognare e a fornire un traguardo sempre visibile da tagliare: se arrivi qua dentro sei a posto, tutto cambierà.
Nel 2007, ritroviamo i Mannucci al capezzale di Riccardo e scopriremo gradualmente che ne è stato di loro. Sabrina sarà riuscita ad agguantare l’avvenire promettente tanto agognato? Sarà riuscita a trovare qualcuno capace d’amarla quanto l’ha amata suo padre? La famiglia sarà finalmente stata accolta nella cerchia dei ricchi e dei potenti? Son davvero tutti stupidi, brutti, grassi, ignoranti e grezzi a parte Sabrina o, nemmeno troppo in profondità, c’è sempre stato qualcosa di tragicamente sbagliato? E per noi che leggiamo, sarà così mostruoso tifare per il fallimento di Sabrina?

Sabrina è un personaggio ciabattesco da manuale. Contiene illusioni, vanagloria, megalomania e tutte le spiacevolezze e le robe orrende che vorrei tanto poter dire di non aver mai sentito crescendo, ma nel credersela così tanto si smaschera da sola e ci offre anche la possibilità di trovarla patetica e vittima di un contesto altrettanto “piccolo”. È l’eterna lotta tra pezzenti e ricchi, ultime ruote del carro e blasonati dirigenti, umili ingranaggi e macchinari pesanti. Nel rifiutarsi di restare al proprio posto possono emergere virtù e meraviglie che migliorano l’universo, ma non è il caso dei Mannucci. In loro si riassume molto di quello che non va nella “catena alimentare”, ma fanno parte del problema. Sperare non è peccato, ma è l’assoluta ineleganza con cui falliscono a risultare ripugnante. Anche quella, però, è una pura questione d’apparenza. Volete leggere qualcosa di malvagio? Sabrina è qua per voi.

[Vi va di ascoltarlo come ho fatto io? Trovate I giorni felici di Teresa Ciabatti su Storytel. Vi ricordo che passando per di qua vi donano un periodo di prova gratuito “prolungato” – 30 giorni invece di due settimane.]

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.