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Einaudi Stile Libero

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Reduce da Tutto è meraviglia di Ann Napolitano e con il Piccoledonnometro già in modalità NON DI NUOVO VI SCONGIURO ho affrontato con titubanza e una certa diffidenza il secondo romanzo di Coco Mellorsil primo, Cleopatra e Frankenstein, mi era complessivamente garbato e ne potete leggere qui, senza la partecipazione di Jacob Elordi o di Guillermo del Toro. Napolitano, bisogna dirlo, è arrivata con un annetto d’anticipo e di questo Coco Mellors non ha colpa. I due romanzi, in fin dei conti, hanno in comune solo la presenza di quattro sorelle protagoniste e, nel caso di Blue Sisters – in italiano lo troviamo sempre da Einaudi Stile Libero con la traduzione di Carla Palmieri –, non c’è nemmeno l’intento di incistarsi nelle caratterizzazioni di Piccole donne per creare dei personaggi contemporanei che sembrano condannati dall’infanzia a rimanere incatenati a una specie di vocazione monolitica. Insomma, è un paragone che non ha senso ma che per istinto m’è venuto da fare.

Rogne mie a parte, le sorelle Blue di Mellors – che fanno così di cognome ma sono anche caratterialmente un po’ “blue”, tristi e angustiate – raccolgono a vario titolo uno spiccato talento dinastico per le dipendenze, pur riuscendo mediamente a eccellere in campi molto disparati. 
La prima fa l’avvocata corporate a Londra, s’è sposata felicemente con la sua terapista, è piena di soldi, è sobria da 10 anni e si è lasciata alle spalle un periodo turbolento trascorso in California a farsi le pere.
La seconda faceva la pugile e ha vinto i mondiali.
La terza era un cuore d’oro ma è morta d’overdose da oppiacei tagliati male che prendeva per tenere a bada l’endometriosi.
La quarta ha iniziato a 15 anni a fare la top model.

Cosa succede? Le ritroviamo tutte, sparpagliate e sconvolte per il mondo, un anno dopo la sfortunata dipartita di Nicky. Devono gestire il lutto, la disgregazione definitiva di una famiglia che non ha mai potuto contare su una guida genitoriale solida e le difficoltà che singolarmente le affliggono. La madre, dal niente, informa le sorelle superstiti che intende vendere l’appartamento a Manhattan in cui sono cresciute e dove Nicky è morta. Chi può vada a sbaraccare. Ed è lì che si rivedranno per creare un sistema gravitazionale nuovo. Con immane fatica e numerosi rosponi da sputare.

Sfida un po’ la nostra disponibilità a consegnarci al romanzesco, questa tripletta di successi fuori scala. Per quanto Mellors le azzoppi con droghe, alcolismo e fanatismi sportivi – che fanno del dolore un’altra sostanza che ti risucchia – le Blue sono fin troppo speciali, credo. Dovrebbero essere le dipendenze, che colpiscono indiscriminatamente, a farle tornare sulla terra e a renderle degli esseri umani che possiamo percepire come autentici, ma non per tutte funziona e spesso è l’artificio che prevale.
Mellors ha una sua parabola personale di conquista della sobrietà e non possiamo che gioirne per lei. Qui dentro, il tema si infiltra ovunque e ci trasmette a pieno la potenza di un’ossessione e di una sfida fisica e mentale. Se, da una parte, mi rendo conto che una persona possa finire per diventare la sua dipendenza, dall’altra si fatica a sentirlo reiterare più o meno allo stesso modo per la maggioranza schiacciante delle figure che partecipano a una storia.
Resta però bello sentir parlare i personaggi, è splendido sentirli litigare. Non ho idea di come sia avere una sorella, ma è in quel legame elettrico e negli equilibri sempre fluttuanti del “gruppo Blue” che il libro trova la sua anima e un passo vivo, sincero. Quando Mellors permette a tutte di dimenticare cos’hanno buttato giù, chi fanno finta di essere, quali successoni mirabolanti hanno raggiunto. È lì che ci credi e che le vedi. Non perché ti devi immedesimare, ma perché somigliano a delle persone smarrite. E nel vuoto si prova sempre ad allungare una mano.

Allora, io non ho tutta questa dimestichezza con i gialli. Mi cimento quando me li vendono evidenziando una stramberia strutturale – vedi i due Stile Libero di Janice Hallett, L’assassino è tra le righeIl misterioso caso degli angeli di Alperton -, una trovata stilistica o un’ambientazione peculiare, altrimenti è difficile che mi incuriosiscano. Con Uketsu, che in Giappone è una specie di fenomeno, possiamo anche contare sul bonus “personaggio misterioso che staziona su Youtube con una maschera di cartapesta in faccia e nessuno sa chi è”, quindi m’è sembrato legittimo fare un esperimento, considerando anche il lancio molto sostanzioso – anche questo è uscito per Einaudi, con la traduzione di Stefano Lo Cigno.

Ma com’è, questo Strani disegni? Dipende. Perché funziona tutto, ma non sembra un libro scritto da un essere umano – il che forse va benissimo, dato che Uketsu non si presenta come tale ma come una specie di entità astratta. Non è da uno con una tutina nera e un disco bianco sulla faccia che dovremmo aspettarci una penna “viva” e organica, forse, visto che già si propone al pubblico come un macchinario vagamente antropomorfo che genera storie spaventosin-disturbanti.

La storia è divisa in tronconi all’apparenza disparati, che a modo loro fanno provincia quasi autonoma. Son divisi dal tempo e dallo spazio e uno degli aspetti positivi del romanzo è la costruzione di ponti e nessi causali tra tutta questa roba che Uketsu apparecchia per costernarci.
Il titolo è sincerissimo, perché ogni porzione del mosaico poggia su un macro-indizio contenuto in un disegno o in una serie di disegni. Son quasi sempre dei brutti disegni ma, come un po’ tutto il resto, non sono lì per essere belli ma per essere utili: sono prove d’enigmistica all’interno di un grande esercizio, un invito ad allontanarci per mettere insieme i pezzi e scorgere l’impianto complessivo. Io, che sono qua perché i disegni erano il mio pretesto di curiosità, ne ho apprezzato l’utilizzo – anche se la genesi di alcuni è davvero stiracchiatina.

È un romanzo che si prende in mano e più o meno lo si vuole finire senza alzarsi, rimanendone quasi ipnotizzati? Direi di sì, perché è ingegnerizzato per quella precisa ragione – nonostante appaiano a più riprese degli schemini riassuntivi di quello che c’è scritto tre righe prima. Uketsu si impegna assai per rendersi accessibile, mettiamola così.
È anche un’esperienza di lettura orrenda? Per certi versi sì, perché è una scrittura puramente funzionale e quel che fa più paura in assoluto è sentir descrivere gli abissi dell’animo umano con quel tono lì. È come assistere a un massacro tra androidi con la telecronaca di un altro androide, insomma. È una pecca o un segnale di coerenza completa tra autore ed esecuzione? È tutta una gigantesca supercazzola? Un androide disegnerebbe meglio o peggio di Uketsu? È un altro mistero. In un paese in cui anche agli Evangelion venivano concessi carne, destino e sangue, Uketsu si veste da creepy-mimo e quello fa: disturba la nostra quiete con le conseguenze di un antico orrore, delegandoci i risvolti emotivi e lavorando solo col riflesso lontano di quel che dovrebbe essere una persona. Ma la trappola, efficientissima, scatta. 

Per individuare la mia scarsissima dimestichezza col giallo non occorre di certo un’indagine. Di indagini – più o meno audionarrate – mi occupo in generale pochissimo e ancor meno mi avventuro nel territorio del true-crime. Un po’ mi fa impressione per quello che succede e un po’ a farmi impressione è l’approccio collettivo alla cronaca nera tramutata in contenuto d’intrattenimento. Insomma, non è il mio… e forse è per quello che ho deciso di leggere due libri “d’indagine” che, nel fingersi totalmente “reali”, costruiscono un impiantone così artificioso da mettermi al riparo da quello che di solito mi infastidisce o poco mi avvince. In parole povere: se Janice Hallett non utilizzasse la struttura che abbiamo incontrato in L’assassino è tra le righe e che ritroviamo in questo secondo malloppone – sempre in libreria per Stile Libero con la traduzione di Gabriella Diverio e Manuela Francescon – mai mi sarei avvicinata. Ma ho un debole per le strutture matte… ed eccoci dunque qua.

Per Il misterioso caso degli angeli di Alperton non dobbiamo più destreggiarci tra carte processuali da revisionare per porre rimedio a un presunto errore giudiziario, ma seguiamo “in diretta” una giornalista/scrittrice nel lavoro investigativo che dovrebbe sfociare in un bel bestsellerone da spiaggia che, diciotto anni dopo i fattacci, ambisce a gettare nuova luce su un caso particolarmente torbido e sconvolgente, che molti punti oscuri conserva.
C’è di mezzo una setta – siamo angeli che devono proteggere il mondo dall’imminente venuta dell’Anticristo! …OK -, un neonato, due giovani plagiati e quello che appare come un suicidio rituale collettivo. Il leader carismatico è già in galera, ma poco o niente si è capito. Il neonato superstite sta per diventare maggiorenne e un’aura di omertà avvolge chi è uscito vivo dal magazzino di Alperton dove si è consumata la carneficina. CORAGGIO, TIRIAMOCI FUORI IL TITOLO DI PUNTA PER UNA NUOVA COLLANA DI TRUE-CRIME!

Amanda Bailey, tenace e sgradevolissima, si mette all’opera sollecitando contatti in polizia, riesumando documentari e opere di fiction spuntate come funghi dopo il caso, intervistando antichi testimoni, importunando assistenti sociali e incrociando elementi e vaghe piste per rintracciare il bambino e i due sopravvissuti. Insieme al caso “puro”, Hallett produce anche un gustoso backstage del lavoro editoriale e, in qualche modo, si arriva in fondo. Non mancano dei buoni colpi di scena e, nel complesso, resta sfizioso leggere trascrizioni di colloqui, messaggi, pagine di copione e mucchi di e-mail. Qui c’è anche una mezza ciavatta sovrannaturale che parte e di certo l’aspetto che ha più solleticato me è il commento – che voglio immaginarmi forse più satirico e pungente di quel che è – sul succulento mercato del true-crime bieco per davvero, ma di miracoli se ne verificano pochi. È farraginoso, insomma.

Caso a parte – che può sembrarci più o meno “soddisfacente” -, la domanda di fondo riguarda proprio l’opportunità etica di riesumare un caso vecchio per spettacolarizzarlo e rinnovarne la redditività. Quella che per un ipotetico pubblico è una storia, un puzzle da rimettere insieme per diletto o un modo per dimostrare la propria arguzia o affermare un successo professionale, per chi ha attraversato in prima persona quelle acqua torbidissime è vita reale, è passato che non si lascia seppellire, è macchia indelebile o brutto ricordo. Che diritto ha Amanda Bailey di specularci su? Dove va tracciato il confine tra sacrosanta ricerca della giustizia e puro opportunismo? Anche quello è un bel mistero… forse l’unico su cui sarebbe davvero interessante riflettere.