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Sul vastissimo e tentacolare tema delle culture wars, dei social e dell’impatto che producono sul sentire collettivo e sulla nostra capacità di gestire conflitti, nodoni politici e questioni identitarie – tanto per salutare la punta dell’iceberg degli argomenti in campo – tendiamo a importare parecchia saggistica che, una volta approdata in libreria dopo i necessari tempi “tecnici”, viene puntualmente superata dall’incalzare della realtà o solo parzialmente si preoccupa del nostro contesto. Vero, abitiamo in un calderone relazional-informativo più globale che mai e globale e pervasiva è l’esperienza a cui piattaforme d’intrattenimento e d’aggregazione ci sottopongono, ma quanto siamo riusciti a fare “nostro” quel dibattito, mappando la traiettoria del Grande Motivo Del Contendere Del Momento per capire cosa produce sul nostro modo di informarci, di discutere e di configurarci come creature politiche?

Ecco, tutto questo pasticcio di premessa per dire che La correzione del mondo di Davide Piacenza (in libreria per Einaudi Stile Libero) è un esempio – non frequentissimo, mi vien da dire – di buon tempismo, opportunità e sforzi di sistematizzazione molto salutari. Che fa Piacenza, sottoponendoci una miriade di esempi, casi emblematici, complotti surreali e indici puntati? Smonta e rimonta quello che ci fa arrabbiare. Analizza sia il contesto in cui dibattiamo – che è ingegnerizzato per produrre polarizzazioni, fazioni idrofobe e reazioni il più possibile virulente – che i numerosi oggetti del contendere. Dallo spauracchio della “dittatura del politicamente corretto” all’attivismo commercial-performativo, dall’eredità dei grandi movimenti delle piazze virtuali all’inclusività di facciata, dalle gogne al complottismo, troverete una mappa aggiornata degli scogli su cui ci schiantiamo abitualmente, spesso partendo da premesse pretestuose, non troppo oneste e figlie di finalità terze.

Come è possibile che a fronte della sacrosanta ascesa di istanze che dovrebbero aver aumentato la sensibilità collettiva si assista, invece, a un accrescimento degli attriti e della conflittualità?
Dove finisce la paraculaggine e inizia il tentativo sincero di migliorare le cose?
Siamo ancora capaci di identificarci come soggetti “pubblici” e non solo come individualità che cercano un pubblico – appropriandoci del tema più gustoso o conveniente?
Perché è tutto TOSSICO, ma sempre qua stiamo?

Piacenza non ce la risolve, ma qualche strumento critico in più per pensarci di certo riesce a offrircelo.

Quando mi sono trasferita a Torino per cominciare lo stage che avrebbe sancito il mio debutto ufficiale nel mondo del lavoro mi sono cercata una casa da affittare. Sapevo che sarei rimasta per 6 mesi, ma non avevo certezze sul potenziale rinnovo del contratto o sulla mia possibile permanenza ulteriore in quell’ufficio o in quella città. Non avevo mai visto un contratto d’affitto o visitato un appartamento, accompagnata da un agente immobiliare. Non sapevo che domande fare, non sapevo se era normale che mi chiedessero tre mesi di caparra e non sapevo chi doveva pagare l’idraulico nel caso fosse esploso un tubo. E la cosa divertente (e molto rivelatoria) è che non lo sapevano nemmeno i miei genitori. Mi ero fatta aiutare dal mio fidanzato dell’epoca, che a Torino abitava da qualche anno perché si era trasferito per studiare al Politecnico e che, al contrario di me che avevo frequentato i miei 5 anni d’università a Milano da pendolare, continuando ad abitare a casa mia a Piacenza, aveva un’esperienza un po’ più solida di cosa succedeva nel mondo “vero”. Che lo spaesamento dei miei genitori di fronte a quell’aspetto pratico e fondamentale della quotidianità di molti fosse così marcato mi era sembrato strambo anche ai tempi, ma ci è voluto del tempo per capire davvero il perché.

Il lavoro dei miei genitori – che era stato “certo” e “fisso” sin da subito e da un’età precoce, per gli standard attuali – occupava da sempre una fetta importante delle loro giornate, ma produceva anche dei benefici tangibili. Lavoravano, ma pareva ne valesse la pena. Lavoravano, ma esistevano delle certezze materiali di cui tutti quanti potevamo godere, ricompensandoli dell’indubbia fatica che per anni han fatto pure loro. Mia madre, dopo un paio di mesi dall’inizio del mio stage, giudicava con manifesto scandalo la mia scarsa propensione al risparmio. Nell’universo in cui era abituata a muoversi lei, infatti, c’erano di certo dei sacrifici e delle decisioni da prendere, ma non c’erano affitti da pagare, futuri più incerti della media e bilanci stabilmente in passivo. Se lavori riuscirai a mantenerti. Se lavori riceverai in cambio il necessario per fronteggiare i tuoi bisogni e gestire oculatamente anche il tuo futuro. Il fatto che non si rendesse conto che, con un rimborso spese di 500€ mensili – o, più tardi, con uno stipendio da neoassunta di 1.100€ -, il risparmio fosse un lusso è un altro tassello del problema. Ero di sicuro io che non sapevo farmi valere o che non lavoravo abbastanza, ero io che non sapevo convertire l’istruzione che avevano profumatamente pagato in un impiego degno del mio blasonato ateneo. E il fatto che la mia azienda avesse un nome importante – uno di quelli che funzionano all’interno di un “ah, sì… siamo molto contenti, mia figlia lavora da…” – tendeva un po’ ad accrescere le dimensioni del paradosso, almeno dal mio punto di vista.
Quel che ho scoperto io, specialmente da dipendente, è che non esiste più alcun premio per il delfino che salta meglio e più spesso nel cerchio. Anzi, la piscina sta diventando sempre più piccola, gli allenamenti sono sempre più estenuanti e, al massimo, se ce la fai ti tocca una sardina, anche se il valore che con le tue competenze stai contribuendo a creare per la tua azienda corrisponde a una carriola piena di bei salmoni grassi.
Per concludere questa confusa parentesi autobiografico-didascalica, direi che i miei genitori hanno conosciuto (per loro e mia fortuna, dato che anch’io ho avuto la possibilità di avvalermi delle risorse di famiglia da loro create e/o ereditate) l’era lavorativa del ne vale la pena. Noi, con ogni evidenza, stiamo gestendo maldestramente l’epoca del Ma chi me lo fa fare?, che non a caso è anche il titolo (azzeccatissimo) del saggio di Andrea Colamedici e Maura Gancitano.

Che fa questo libro? Cerca di dare struttura allo scoramento collettivo. Cerca di risalire alle cause di questa vasta sindrome di Stoccolma che, da un lato, configura il lavoro come dimensione assoluta delle nostre identità e, dall’altro, riconosce nel lavoro la radice di un malessere diventato tentacolare e profondamente invasivo.
Perché ci piace così tanto lasciare che sia il nostro lavoro a definirci?
Perché è diventato cool esibire agende fittissime?
Perché preferiamo dichiararci esausti piuttosto che rischiare di farci dare dei fannulloni?
Perché è così complicato (se non proprio disdicevole) abitare serenamente il tempo “improduttivo”?
Che cosa diamine dobbiamo dimostrare?
Perché è proprio nel lavoro che abbiamo riposto le nostre speranze di affermazione e prestigio?
Trova la tua vocazione… e lavorerai sempre?
Ho preso in mano questo libro con la certezza di arrabbiarmi e, devo dire, è in parte accaduto. Ma non tanto per l’inevitabile rispecchiamento in parecchie delle trappole mappate e identificate… il problema è sentirsi ancora inermi e molto piccoli. Al di là del valore moral-identitario che attribuiamo al lavoro, quello che davvero mi prosciuga di ogni fiducia è l’irraggiungibilità “media” di traguardi che dovrebbero essere (e che per qualche generazione sono stati) ovvi, scontati e basilari. Uno su mille magari ce la farà anche, ma siamo collettivamente cementati in una situazione di disparità strutturale che nessuno stipendio realistico può scalfire. L’inaccessibilità degli elementi indispensabili a garantire a una vita “normale” e dignitosa ai tanti – invece che ai pochissimi – è quello che mi fa davvero imbestialire, anche perché quel che ne riceviamo in cambio è un’ansia da prestazione esasperata, l’imputazione al singolo – e alle sue capacità mai sufficienti – di una deformazione diventata sistemica. Impegnati, anche tu potrai trasformarti nell’eccezione! Guarda qua, il salto al gradino successivo è possibile, basta volerlo davvero!
Che senso ha continuare a raccontarci il lavoro come leva di riscatto e progresso, come strumento aspirazionale che ci permetterà di realizzare i nostri sogni e di raggiungere benessere e sicurezze, quando ci confrontiamo invece con una realtà che del lavoro ci restituisce solo la sfiancante sensazione di essere ostaggi (più o meno consapevoli o consenzienti) di forze che non controlliamo e che rendono il “campo da gioco” così iniquo e impari? È la domanda che anche in Ma chi me lo fa fare? rimane comprensibilmente aperta. E credo sia la domanda fondamentale attorno alla quale dovremmo aggregarci, magari dopo aver chiarito meglio – come può aiutarci a fare questo saggio – il percorso che ci ha portati a formularla, trascinando i piedi mentre ci rimettiamo davanti al computer e, almeno nelle nostre più sovversive fantasie, erigiamo barricate impilando schiscette ancora piene… perché sai, la call s’è un po’ allungata, non ho fatto in tempo a pranzare. Progetto bellissimo, però. 

Siamo collettivamente programmati per considerare la California un posto degno di essere sognato. Pochi altri luoghi hanno goduto di una fama altrettanto dorata e hanno saputo capitalizzarla, rendendo spesso possibili ascese sfolgoranti e grandi fortune, più o meno basate sull’innovazione tecnologica. Se ci mettiamo i paesaggioni e la costante influenza sulla cultura globale – dal cinema alla musica – dovremmo aver dipinto un quadro più che idilliaco. Chi non vorrebbe vivere in un posto dove c’è ricchezza, occupazione, fermento e inventiva? Università strabilianti, terreno fertile per far germogliare le proprie idee, la promessa continua del progresso e del benessere? Insomma, chi non vorrebbe vivere in California, sembra domandarci il fin qui incoraggiante curriculum dello stato? I californiani, a quanto pare.

Da che mondo è mondo, la gente si sposta per migliorare le proprie condizioni di vita. Le motivazioni possono essere innumerevoli, ma l’ambizione di base è grossolanamente riassumibile in questo modo. Perché mai, dunque, un posto che sembra avere ogni carta in regola per garantire radiosi futuri sta perdendo “popolazione”, invece di guadagnarne come regolarmente è sempre accaduto?
Francesco Costa prova a rispondere, un pezzettino alla volta, a questa domanda complicata in California – in libreria per Mondadori. Perché sì, per quanto controintuitivo possa risultare, qualcosa si è spezzato e i costi della vita californiana stanno cominciando a sovrastare le opportunità, superando anche la dicotomia tra città e centri più piccoli. Tutto tende all’impraticabile, allo sproporzionato, al dispendioso.

Dalle radici profonde di una crisi immobiliare che sta raggiungendo vette surreali all’emergenza umanitaria (mi pare la definizione più accurata) dei senzatetto, dal costo esorbitante della vita all’incubo del traffico, Costa assembla un puzzle pieno di linee di frattura e tesserine bruciacchiate dal fuoco dei frequentissimi incendi. Il paradosso più grande sta forse nella politica che, nel professarsi estremamente virtuosa, “woke” – come viene bollata con insofferenza – e iper vigile e accogliente in fatto di diritti civili, diversity ed equità, non sembra di fatto avere gli strumenti per affrontare una realtà conflittualissima, iniqua e impari. La California pare un posto dove il privilegio estremo viene riconosciuto a parole – sovente di autodenuncia, perché segnalare sempre la propria rettitudine è fondamentale – ma dove è difficile innescare un cambiamento che non sia soltanto cosmetico. Perché restare, si chiedono molti “nuovi” californiani, in un simile ginepraio di potenziali passi falsi e oggettive asperità pratiche? Perché rinunciare a un presente più “semplice” – anche se magari meno glorioso, per certi standard da SE VUOI PUOI – in nome di una promessa che pare sempre più remota o alla portata ci chi partiva già in vantaggio?
Vedremo come si mette? Vedremo come si mette. O al massimo raccoglieremo firme per l’ennesima petizione in difesa di uno status quo che non conviene quasi più a nessuno.