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Visto che siamo riusciti a preservare il primogenito fino ai cinque anni d’età e un po’ d’esperienza sul campo l’abbiamo guadagnata, ecco qua una raccolta ragionata – e sostenuta dal preziosissimo senno di poi – di COSE che si sono dimostrate indispensabili e utili per affrontare l’arrivo di un piccolo umano in famiglia. Perché mi metto qua a compilare un listone per neonati e neonate? Perché fra qualche settimana accoglieremo una creatura nuova e sto cercando di capire pure io cosa si può riciclare, cosa si può migliorare e cosa ci manca. Insomma, mi rinfresco le idee io e, incidentalmente, magari fornisco pure a voi qualche informazione sensata. In questo post troverete quello che abbiamo usato noi al primo giro – e che s’è dimostrato durevole – per affrontare i primissimi e primi tempi.

Procediamo.


Preparazione del terreno

LA FAMIGERATA BORSA DELL’OSPEDALE

Sì, le implacabili esigenze d’equipaggiamento iniziano dal parto e si configureranno in una borsa per voi e una borsa per chi nasce. Gli ospedali sono soliti fornire una lista di elementi indispensabili e/o caldamente richiesti o consigliati per la fase di ricovero – questa, per esempio, è quella dell’ospedale dove ho partorito e partorirò io – e visto che la vita è difficile, vi incoraggio a dar retta a chi tenta di semplificarvela. Cercatela o chiedetela, perché ogni reparto ha le sue “regole” organizzative e se date una mano nel farvi dare una mano filerà tutto più liscio.
Sì, i pannoloni post-parto sono grotteschi, ma facciamoci pace.
Sì, portatevi delle ZAVATTE che si possano lavare.
Sì, impacchettate la roba della prole separatamente, in modo che sia consegnabile al personale del reparto. Non partite con l’idea del “quando sono là smisto tutto”.
No, non prendete su ciucci, giocattoli, pupazzi e cazzate perché un bambino di due giorni non necessita di intrattenimento.
Sì, armatevi di vestaglia.

UNA RISORSA UTILE PER AGGIORNARE IL PARENTADO

Farete molte foto. Tutti vorranno riceverle. Voi non avrete voglia di mandarle a 30927209 gruppi di messaggistica diversi ogni sei minuti.
Come risolverla? Con un’app molto comoda che vi permette di caricare foto e video rendendoli consultabili da parenti e amici senza che vi rompano l’anima. Invitate chi volete e solo quelle persone potranno accedere ai materiali e caricarne. Altre utilità: precisissima misurazione del tempo, comodità di consultazione e, man mano che passano i mesi, “tesori” da ripescare. Lo spazio d’archiviazione è gratuito fino a una certa capienza e poi si paga un abbonamento mensile – noi li stiamo spendendo molto volentieri ormai da un lustro. L’app si chiama Back Then.


Mobilio domestico

Pinterest potrebbe avervi irrimediabilmente infuso un senso preventivo di sconfitta, ma facciamoci forza. Avrete tempo per allestire una cameretta degna di Downton Abbey e vi auguro di poterci riuscire, se le vostre ambizioni sono quelle. Noi, non vivendo in una magione sconfinata, abbiamo badato alla praticità e alla possibilità di allungare il più possibile la vita a quello che stavamo comprando. Sì, non ci siamo orientati sulla soluzione più economica del mercato, ma sono cinque anni che usiamo questa roba e ora ricominceremo il giro riciclando tutto per la creatura nuova… quindi sì, mi sento di dire che è stato un buon investimento.

Che vi serve, in estrema sintesi?
UNA CULLA.
UN FASCIATOIO.

Noi avevamo preso in blocco il sistema Stokke Home.
Com’era fatto? C’era una culletta e un cassettiera – predisposta per incastrarci sopra un piano aggiuntivo che fungeva da fasciatoio. A tendere, con il telaio della culletta e il piano del fasciatoio si assemblava una scrivania. L’abbiamo assemblata? Totale. Stiamo ancora usando la cassettiera? Totale 2.

La culla era così:

Sono molto triste perché pare non la producano più ma sono anche molto contenta perché riutilizzeremo la nostra. Per qual motivo? PERCHÉ BASCULA. C’è un telaio “fisso” ma la parte del materasso si può far dondolare, conciliando magistralmente il sonno dell’occupante.
Ci sono mille tipi di culla, là fuori. Io non ho optato per una di quelle che si attaccano direttamente al letto perché non sono mai stata in grado di allattare da coricata – andava già bene se ci riuscivo da seduta – e quel che mi premeva principalmente era avere il bambino in camera con noi per ridurre i pellegrinaggi notturni. Credo che Stokke non faccia più la culla Home perché mi pare abbiano “perfezionato” e allungato il potenziale utilizzo degli altri modelli – quelle celeberrime culle tonde con le sbarrette di legno che poi si allungano e si modificano per crescere col bambino senza imporvi di comprare prima una culla e poi un lettino.

Per quanto riguarda la cassettiera-fasciatoio, noi ci siamo trovati bene perché ci cambi e ci vesti sopra il bambino senza doverlo mollare lì per andare a frugare in un armadio. Mettevamo i pannolini nel primo cassetto, gli indumentini negli altri e le varie lozioni nello scomparto laterale del fasciatoio. È capiente? Non sembra, ma molto. Cesare ha un armadio suo da circa un mese ma fino ai cinque anni abbiamo usato quella cassettiera per tutti i suoi vestiti.

Collaterali utilità da fasciatoio: il nostro aveva il materassino imbottito “suo”, ovviamente lavabile. Una volta assicurata la morbidezza necessaria del piano d’appoggio, potete anche valutare di metterci su una traversina o un telo di più rapida gestione: si sporca e lo sostituite. È una soluzione che torna anche comoda quando si è in giro e magari non c’è sempre la possibilità di avvalersi di una “stazione di cambio” regolamentare.


Arnesi

Non arredano, ma soccorrono.

LA SDRAIETTA

Cielo, non posso allontanarmi nemmeno per lavarmi i capelli! Ebbene, è una menzogna. Armatevi di sdraietta. Placa le ansie, è facilmente spostabile, rimbalza e intrattiene, previene i ruzzoloni perché c’è la cintura e, con un opportuno riduttore che di solito vi vendono insieme al resto, la potete usare praticamente da subito. Perché no, i neonati non son capaci di stare seduti ma sono felicissimi di guardarsi attorno da spaparanzati.
Ma la piglio “motorizzata”? In giro ce ne sono parecchie che si muovono da sole ma, a mio parere, sono un po’ dei baracconi. La maggior parte sono dondolabilissime a mano e, nel caso scegliate uno di quei modelli che sono anche incastrabili sui seggioloni della medesima famiglia, tendete a prolungarne l’uso e le occasioni di utilità, variando anche l’inclinazione.
Noi avevamo preso la Steps, piazzabile anche sul seggiolone gemello.

IL MANGIAPANNOLINI

Dove gettare le scorie radioattive?
Ci sono degli appositi bidoncini. Sì, il fatto che esistano non è un mero esercizio di speculazione commerciale ma una buona invenzione. Sì, sono fatti apposta per non puzzare come la morte e per essere tenuti a portata di braccio. Col tempo imparerete anche a fare canestro con grande disinvoltura.
Ce ne sono di diversi tipi. C’è la tipologia dispendiosa ma a prova di disastro nucleare – ogni pannolino viene sigillato in un sacchetto tutto suo e poi finisce nel bidoncino – e c’è la tipologia onesta e snella tipo questo qua della Chicco che abbiamo usato noi. Nel primo caso vi dovete comprare il bidoncino e anche i sacchetti – perché funziona coi suoi e solo coi suoi, quindi periodicamente dovrete rifornirvi di ricariche -, nel secondo caso potrete benissimo avvalervi di un sacchetto della monnezza qualsiasi e basterà comprare il bidoncino per i fatti suoi.

LA VASCHETTA PER IL BAGNO

No, i neonati non sono scaraventabili nella vasca da bagno che usate voi. Sono minuscoli e scivolosi come anguille. Mia madre vi esorterebbe a immergerli senza indugi il catino del bucato, ma la civiltà ci fornisce qualche alternativa. Là fuori ci sono vaschette piccoline di ogni tipo. Noi avevamo scelto questa perché è pieghevole (e volendo anche trasportabile senza troppe cerimonie) e dotata di riduttore – una sorta di “cucchiaione” che si assicura al bordo e vi aiuta a sostenere la creatura nei mesi che precedono lo sviluppo dell’impagabile abilità dello stare seduti.

 

Altra cosa che può aiutare nelle abluzioni? Un termometro da bagno. Perché vogliamo bambini puliti ma non cotti.

LO STERILIZZATORE

Non fate come me, non mettetevi a bollire roba in una pentola piena d’acqua per settimane. Gli sterilizzatori esistono e sono nostri amici.
Allattate? Buon per voi. Vi servirà per eventuali ciucci, ammenicoli da morsicare nel periodo della dentizione, giochi scagliati in terra, componenti vari ed eventuali di un ipotetico tiralatte – contenitorini per il latte compresi.
Non allattate o fate allattamento misto? Benissimo per voi anche in questo caso: vi servirà ancora di più per i biberon, sia di vetro che di plastica.
Noi abbiamo la versione “vecchia” di questo, che sterilizza generando vapore, non si insozza, è capiente e può anche essere scomposto e ficcato nel microonde.

CUSCINI

Se allattate e non volete soccombere a dolori articolari incredibilmente avvincenti e insoliti, vi consiglio con tutto il cuore di trovare una seduta con uno schienale alto e confortevole e di munirvi di cuscino. Io avevo usato un classico Boppy della Chicco, che di certo non brilla per versatilità e potenziali impieghi alternativi, ma fa il suo. Sì, è comodo da sfoderare per i lavaggi e potete comprare delle federine aggiuntive.

Volete un cuscino concettualmente più “ricco”? C’è questo di Koala Babycare che può essere usato per allattare, come paracolpi in vista di futuri lettini, come nido-ciambellone o invalicabile muraglia di morbida ma implacabile sicurezza.

STRACCINI E COPERTINE

Che fungano da salviette, copertine o argini per bave, le mussole sono valide alleate. Sono tessuti morbidi, si lavano agevolmente, asciugano in fretta e resistono bene. Noi le abbiamo usate moltissimo sia in versione “lenzuolino” che in versione quadrata, tipo tovagliolo o straccino.

*

Ma la bilancia?
La bilancia per pesare i neonati è un oggetto di cui dotarsi se un medico vi dice che è indispensabile per monitorare la crescita (si possono noleggiare anche in farmacia) o di cui potete pensare di dotarvi spontaneamente se siete persone che gestiscono ragionevolmente le ansie. È uno strumento che può fornirvi un’informazione sul come sta procedendo la crescita, ma la gestione di quel dato – sempre nel caso non sia arrivato un* pediatra a ordinarvi di monitorare tutto con precisione marziale – sta poi al vostro equilibrio. Insomma, se vi dovete ossessionare tenderei a consigliarvi di evitarla.

Ma il tiralatte?
Io ne avevo preso uno “manuale” con cui mi sono trovata malissimo. Non ho allattato con particolare facilità e non ho collaudato tiralatte elettrici più sofisticati – che dovrebbero anche essere più comodi, quindi non mi addentrerò nell’argomento, che in generale è delicato e molto personale.


Andare in giro

Il TRIO

So bene quanto l’universo dei passeggini possa risultare disorientante, ma la prima cosa da fare è pigliare un metro e misurare la porta dell’ascensore. Aiuta nella scrematura iniziale: qualsiasi arnese sia dotato di un telaio più largo della porta dell’ascensore – o delle porte che abitualmente vi troverete a varcare nella vostra quotidianità – non è da prendere in considerazione.
Ciò detto, da che si inizia? La soluzione più lineare – per quanto possa apparire barocca – è il trio. C’è un telaio unico e sopra ci potrete incastrare tre supporti diversi: la navicella (per i civili: la culla), l’ovetto (per i civili: l’aggeggio per il trasporto in macchina) e il passeggino più comunemente inteso, che subentra quando gli infanti riescono a gestire un’anche vaga posizione seduta.
Sì, il trio è un baraccone e quando potrete finalmente optare per un passeggino “leggero” vi sentirete assai meglio, ma nostro malgrado ci vuole. Fattori ulteriori da considerare: come si ripiega? Quanto spazio occupa nel bagagliaio (da ripiegato)? Come si guida? Quanto pesa?
Il fattore compattezza è molto relativo. Il trio ha tendenzialmente un telaio grosso e di miracoli non ne accadono. Votate almeno per il sistema di “chiusura” che vi pare meno macchinoso e tenete presente che quelli col maniglione unico sono incomparabilmente più comodi da guidare (riuscite anche a spingerli con una mano sola) ma si chiudono con manovre più impervie e quelli con le due maniglie indipendenti (che da guidare per me sono scomodissimi) tendono a chiudersi “a ombrello” e sono un po’ più semplici. E il peso? Se siete soliti/solite uscire sempre con una dama di compagnia o con un valletto il problema potrebbe non tangervi, ma se programmate di fare cose per conto vostro assicuratevi di essere in grado di sollevare il maledetto passeggino in autonomia. Sì, potete chiedere aiuto ai passanti, ma dovendomi basare solo sull’altrui gentilezza in questo momento sarei ancora ad aspettare in cima alle scale della metropolitana.

Dopo aver girato per un po’ di negozi – cosa sensata perché vi fanno vedere materialmente come si incastrano e si chiudono le cose e potete anche cimentarvi in una prova di sollevamento – noi avevamo scelto un trio di Inglesina (il Trilogy) con telaio leggero e “stretto”, visto che il nostro vecchio ascensore era molto angusto. In questi cinque anni son cambiati colori e piccoli dettagli, ma il succo è questo:

UNA BORSA PER IL CAMBIO

Spesso i generosissimi produttori di sistemi trio tendono a omaggiarvi o a includere nei cento miliardi che gli darete anche una borsa per il cambio da agganciare al passeggino o da portarvi in giro. Sono quasi sempre delle specie di cartelle da postino bruttarelle e poco funzionali che vi penzolano davanti mentre spingete il trabiccolo e che a tracolla non vi metterete mai perché una roba pesante a tracolla mal si concilia con le tette – già piagate da problemi gestionali tutti loro.
Zaino? Meglio.
Uso potenzialmente eterno, mille scomparti comodi, tasche termiche, cerniere in posti impensabili ma saggi, lo aprite e sta in piedi da solo, capiente, possibilità di trovarne uno bellino, mettibile. Lo volete agganciare al maniglione? Si può. Volete buttarlo nelle retine-porta-cose dei passeggini? Si può. Ve lo volete portare sulla groppa o sbolognare a qualcuno? Si può.
Io avevo comprato questo – ma in una fantasia più giuggiolosa:

 

UN SACCOTTO TERMICO

L’inverno è laborioso, ma ce la si fa. Sarete comunque piagati da innumerevoli strati d’indumenti, ma la soluzione più lineare per uscire è avvalersi di un saccotto termico da ficcare nella navicella o da assicurare al passeggino (ci sono sempre delle fessure, dietro, per far passare gli spallacci delle cinture). Se posso, vi esorterei a propendere per i saccotti “interi” e non solo per quelli in cui infilare le gambe. Meglio ancora quelli con il cappuccio che si può stringere col cordino intorno alla facciotta dei bambini per riparare anche testa, collo e minuscole spalle.

*

Ma la fascia? Non ho informazioni intelligenti da elargire. Con Cesare non mi sentivo in grado di manovrarla e non ho mai provato. Ora che c’è un po’ più di fiducia magari mi cimento.


Bonus track finale?
Un libro, non posso esimermi. L’offerta di album di ricordi e/o diari per la registrazione di avvenimenti salienti nel percorso di crescita dei vostri neonati è molto estesa e spesso eccessivamente zuccherosa. Con Cesare non ho compilato un bel niente perché era già tanto se riuscivo a gestire la situazione, ma ora che brancolo un po’ meno nel buio mi piacerebbe imbarcarmi in un’impresa di documentazione. Uno spunto simpatico e poco “oneroso”? Ecco qua.

 

Bene, ho cercato il più possibile di razionalizzare e di sfrondare il superfluo… e dovrei aver finito. Serve comunque una barca di roba? Un po’ sì, ma mi auguro di aver limitato i danni e spero di cuorissimo che questa lista possa tornarvi utile nell’avvicinamento alla grande avventura genitoriale.
Ci aggiorniamo fra qualche tempo per uno spin-off dedicato ai primi giochi. :3
In bocca al lupo e PIGLIATELA CON TRANQUILLITÀ.

Ambivo a una maggiore tempestività, ma poi ho pensato all’antica massima che ci vuole tutti presissimi a leggere, vedere cose, frequentare mostre ed esibirci in grandiosi avvicinamenti al mondo della cultura durante i più disparati periodi di relax vacanziero, quindi eccoci qua con un piccolo riassuntone delle novità di dicembre ascoltabili su Storytel – più qualche pensiero su quello che mi sono sparata io ultimamente e, visto che il Natale incombe, pure un paio di spunti per fare regali saggi affannandovi molto poco.

Premessa
Ho fatto amicizia con Storytel in via del tutto sperimentale. E proviamoli, questi audiolibri… vediamo cosa succede. Ecco, è successo che uso l’app quotidianamente e sono davvero fiera e feliciona di aver sviluppato questa nuova abitudine. Se vi siete persi le mie riflessioni iniziali sull’audiolibro come oggetto narrativo e come potente antidoto al tedio che ti pervade quando devi stendere e ti senti un vegetale, ecco qua il post.
Visto che anche i caroni di Storytel si sono trovati bene con me, qui sul blog e su Instagram – principalmente – continueremo a volerci bene e a monitorare progressi, novità e iniziative degne di nota. E un gigantesco EVVIVA solcò il cielo.
Ma veniamo al dunque. Anzi, ai vari dunque.

Le aggiunte al catalogo sono sempre numerose. Tra le novità più ciccione segnalerei La verità sul caso Harry Quebert di Dicker (letto dal prode Gioele Dix) e Ora dimmi di te. Lettera a Matilda di Camilleri, letto da Rosario Lisma (che avevo anche importunato in fase di registrazione, rompendogli l’anima mentre stava religiosamente chiuso in cabina).
Altre sugose NIU ENTRIS di dicembre che credo ascolterò assai presto: La vita davanti a sé di Romain Gary – letto da Marco D’Amore -, Caro Michele di Natalia Ginzburg – letto da Nanni Moretti -, le Fiabe islandesi lette da Marco Pezza e, udite udite, il Kamasutra letto dall’onnipotente Paolo Poli – che solitamente associo alle Fiabe Sonore, quindi non so bene se sentirmi turbata o molto divertita.
Tra i titoli già aggiunti con baldanza alla libreria, invece, mi pare saggio menzionare Becoming di Michelle Obama (letto da lei medesima), The Arrangements di Chimamanda Ngozi Adichie (letto da January LaVoy, che è di una chiarezza cristallina) e La chiave di Tanizaki (letto da Claudio Moneta).

C’è anche dell’innovazione sul fronte dell’app. Ora è disponibile anche un Kids Mode, che filtra il catalogo facendo saltar fuori solo le letture per bambini e abilita pure l’ascolto in contemporanea da due DEVAIS diversi.

Se poi siete ancora a piedi con i regali di Natale, Storytel ha ovviamente previsto svariate soluzioni sul fronte della munifica donazione di abbonamenti al servizio. Ci sono numerosi periodi temporali regalabili (1, 3, 6 e 12 mesi) e le gift card si possono comprare direttamente sul sito. Se volete foraggiare chi già utilizza Storytel, il vostro dono sovrascriverà l’abbonamento in corso. Insomma, il fortunato destinatario smetterà di pagare quel che paga e ricomincerà alla scadenza del vostro gradito regalo.

Se invece siete ancora in fase di collaudo, il “mio” periodo di prova di 30 giorni è sempre disponibile qui. Sarà possibile usufruirne allegramente fino al 6/1.

Ma cos’ho ascoltato negli ultimi tempi?
Sto iniziando a cimentarmi con ascolti un po’ più “lunghi”. E la mia tenuta è sempre ottima, devo dire. Ho amato follemente Lamento di Portnoy di Philip Roth narrato da Luca Marinelli – un compendio delle perversioni umane, ma anche uno dei libri più paradossali e divertenti mai incontrati dalla sottoscritta. E sì, Luca Marinelli è BRAVISSIMO -, mi sono fatta demoralizzare da Jack London con Pronto soccorso per scrittori esordienti, letto da Roberto Recchia – è una raccolta di lettere e articoli di Jack London sul tema della scrittura come “mestiere”, corredata da spietatezze di vario tipo – e Come fermare il tempo di Matt Haig, letto con garbo da Neri Marcorè. Da un protagonista di 400 anni e passa mi aspettavo una maggiore profondità di vedute, ma è un’avventura piacevole tra storia, sentimenti e rimpianti potenzialmente millenari.

Cosa sto ascoltando ora? Bad Feminist di Roxane Gay, una raccolta di saggi sui temi più disparati, dai tornei di Scarabeo agonistico alla disamina di Girls, dalla rappresentazione delle persone di colore nel cinema alle modalità profondamente ingiuste con cui un tema come lo stupro viene trattato dai mezzi di informazione – o integrato nei prodotti di intrattenimento.

Ho finito?
Credo di sì.
Felici ascolti a tutti. E se scovate qualcosa di fantastico fatemelo sapere. La mia audio-libreria ha SEMPRE bisogno di nuova linfa. :3

 

Sono convintissima che da qualche parte dentro di noi – a gradi variabili di profondità – esista la propensione ad ascoltare storie. A me, come a moltissimi di noi, da piccola ne hanno lette tante. E, quando mia madre o mio padre non potevano star lì mezz’ora con un libro sulle ginocchia, c’erano comunque le Fiabe Sonore. Il mangianastri Fisher-Price mi ha seguita in tutte le case che ho abitato da grande. Ed è ancora qui con me. Vetusto e marroncino – un colore che giammai ritroveremmo in un “giocattolo” a noi contemporaneo – aveva dei bottoni giganti e una pratica maniglia, più varie personalizzazioni a base di trasferelli di Paperino che mi sono preoccupata di aggiungere, deturpandolo quasi irrimediabilmente.

Ricordi a parte, le voci che leggono storie fanno parte di quello che siamo, credo. E l’esperienza è ovviamente diversa, rispetto alla lettura.

Quando leggiamo un libro la voce che ascoltiamo è la nostra. Il ritmo è il nostro. Le inflessioni che ci saltellano nella testa sono le nostre. E un libro da leggere con gli occhi – che si tratti di un volume “vero” o di un e-book – ci offre anche una serie di punti di riferimento visivi e materiali che l’ascolto, per forza di cose, non può garantirci. Ascoltare un libro inserisce altre variabili nell’equazione del racconto. La nostra voce si riposa e dobbiamo affidarci a quella di un altro interprete, che inevitabilmente aggiunge una stratificazione nuova al materiale letterario di partenza. E, di fatto, costruisce per noi una dimensione molto differente da quella che esploreremmo da soli.

Un altro aspetto importante, a livello generale, è la creazione di spazi “di lettura” nuovi. Ed è l’aspetto che per me, fra tutti, si è dimostrato decisivo. All’interno delle nostre giornate esistono tempi attivi e tempi passivi, se così possiamo definirli. Ci sono spazi morti in cui tendiamo quasi a metterci in stand-by in vista del compito successivo che assorbirà la nostra attenzione. Non mi riferisco a grandiose parentesi di decompressione in cui ci concediamo il lusso di fissare l’orizzonte riflettendo sulla condizione umana, ma a quella serie di incombenze sceme che ci obbligano a tenere impegnate le mani, a quei gesti ormai automatici che svolgiamo senza pensare, col cervello che potrebbe tranquillamente galleggiare in un vaso su una mensola polverosa. Stendere. Riempire la lavastoviglie. Svuotare la lavastoviglie. Piegare i panni. Spalmarsi in faccia i tredici prodotti previsti dalla beauty-routine coreana. Pettinarsi i capelli dopo la doccia. Rifare il letto. Raccattare venti chili di giocattoli sparsi per il tappeto. Camminare dal punto A al punto B. Farsi centordici fermate di metropolitana. Guidare nel traffico. Roba così.
Ecco, mi sembra di averli rianimati, quei tempi lì. Non dico che non vedo l’ora di fare il bucato per potermi ascoltare un libro, ma di sicuro mi pare di aver reso meno imbecilli i momenti che devo dedicare a quel tipo di attività. È un tempo che ha smesso di essere neutro e, anzi, è diventato produttivo. Un tempo felice. Perché il tempo occupato dalle narrazioni – indipendentemente dalla loro natura e dal supporto di fruizione – per me è sempre stato un tempo felice.

Ora, si potrebbero fare innumerevoli altre considerazioni strutturali sul consumo di audiolibri – e, a tal proposito, vi invito anche a leggere le riflessioni di Massimo Mantellini – ma penso sia sensato spendere due parole sulla “fonte” di tali considerazioni.
Era anche ora, dopo un mese di collaudo.
Chi già mi tollera su Instagram saprà bene che il mio campo-base per gli audiolibri è Storytel e che sono molto felice sia del servizio che del gioioso sodalizio con l’ufficio italiano.

Per riassumere il funzionamento del congegno: Storytel è una gigantesca libreria audiolibresca. Il catalogo è vasto – sia in italiano che in inglese – e non si risparmia sul fronte delle novità. I libri si possono ascoltare “in streaming” o scaricare per la fruizione offline. Si può creare la propria playlist per non perdere per strada gli ascolti che ci interessano e i lettori sono, di base, personaggi di considerevole bravura. Ci sono attori cinematografico-teatrali e, spesso e volentieri, anche gli autori. Il servizio funziona in abbonamento – come Netflix – e, a fronte di una quotina mensile di manco 10€, consente l’ascolto illimitato di tutto quello che vi pare. Ci sono libri, ma anche podcast (come quello di Francesco Costa, ad esempio) e produzioni originali – ovvero, contenuti narrativi che Storytel ha realizzato appositamente per la piattaforma o tradotto per il pubblico italiano a partire da un materiale creato per la fruizione audio. Il servizio si può provare gratuitamente per 14 giorni – che diventano 30 utilizzando questo link, attivo fino al 9 dicembre – e, se siete contenti, l’abbonamento parte in automatico. Quindi sì, in fase di registrazione vi chiedono i dati della carta, ma nessuno sta cercando di derubarvi o di farvi pagare cose in anticipo.

Lei è senza ombra di dubbio il mio nuovo punto di riferimento nella vita.

Ora, gestire – da utente – un catalogo così vasto è uno dei problemi principali di questo tipo di piattaforme. Visto, soprattutto, che l’accesso è da mobile e che la navigazione, per forza di cose, è soggetta ai vincoli del DEVAIS. A questo proposito, Storytel cerca di soccorrerci con una newsletter che segnala chicche e novità e, sull’app, propone periodicamente delle selezioni tematiche da esplorare per aggiungere ciccia alle nostre playlist – se può servire, c’è anche un piccolo box che contiene i frutti dei miei valorosi carotaggi e le mie future ambizioni di ascolto. Vi esorto ad andare a frugarci dentro… e mi prendo un po’ di spazio qui per una breve carrellata di quello che ho già ascoltato.
Come si “recensisce” un audiolibro?
Non ne ho idea, ma proviamo.

Chimamanda Ngozi Adichie
We Should All Be Feminists
(Letto dall’autrice)
Chimamanda – la chiamo per nome come se fosse amica mia, cosa che mi piacerebbe molto – è una perla rara. Legge con la stessa limpida chiarezza che ritroviamo nelle sue argomentazioni. Ed è un ascolto che può funzionare bene anche per chi non è proprio un fulmine con l’inglese. Il libro è una riflessione schietta ed elegantemente battagliera sul concetto di femminismo e sul superamento dei costrutti fittizi – legati al genere – che determinano ruoli, aspettative, gerarchie e gestioni arbitrarie del “potere”.

Amélie Nothomb
Stupore e tremori
(Letto da Laura Morante)
È il secondo libro della Nothomb che affronto – lo so, sono indietro rispetto al resto del pianeta. E, in tutta sincerità, la Morante un po’ mi preoccupava. Perché nei film è sempre alle prese con esaurimenti nervosi, porte che sbattono e piatti che volano… e temevo di non avere molta voglia di sentirla sclerare per un paio d’ore buone. Ebbene, che bellezza. Il libro racconta la discesa agli inferi di una neo-impiegata europea in una megaditta giapponese. I suoi tentativi di comprenderne il funzionamento, gli equilibri, le gerarchie. È una specie di ode alla catarsi che solo i fallimenti più monumentali possono regalarci, ma anche il resoconto quasi tragicomico della lotta contro un sistema che sfugge alla nostra comprensione e che, soprattutto, non ci vuole. La Morante è ipnotica. E ci incalza senza aggravare l’ansia.

Michela Murgia
L’incontro
(Letto dall’autrice)

Autrici sarde che leggono una storia ambientata in un paesino sardo. Mi pare assai appropriato. Ed è un buon esempio di come la versione audio di un testo possa arricchire la narrazione di partenza, perché il parlato rafforza il contesto e lo rende ancora più vivo. Al centro di questo libro c’è una guerra tra parrocchie, paesani e statue di santi. Ma ci sono anche i legami di amicizia che possono nascere (e sopravvivere alle avversità circostanti) giocando per strada, da bambini. È un’avventura comica, ma anche uno spaccato di mondo in cui si agitano ricordi, miti truculenti, ginocchia sbucciate e incenso che appesta l’aria. Cosa non trascurabile, contiene anche preziosi stratagemmi per liberarsi dalle pantegane.

Miriam Toews
Un complicato atto d’amore
(Letto da Linda Caridi)

Questo ascolto mi ha fatto capire che anche la produzione di audiolibri risponde a precise regole di casting. Nomi, la protagonista, ha sedici anni e vive in una comunità mennonita dalle molteplici contraddizioni e dalle ragguardevoli rigidità – almeno formali. È un racconto spezzacuorissimo di abbandoni seriali e un viaggio nella testa di chi rimane, cercando di venire a patti con un paesaggio dove i punti di riferimento non esistono più e quelli che ci sono – la chiesa con le sue regole – non fanno altro che esacerbare la distanza tra noi e gli altri. Linda Caridi è una giovane attrice italiana e, anche se questa è in assoluto la lettura più “calcata” che ho sentito, ha restituito bene la violenza emotiva dell’adolescenza, con le sue grandi disperazioni, i suoi vuoti, i suoi stordimenti e le sue gioie profondamente istintive.

Carlo Rovelli
Sette brevi lezioni di fisica
(Letto dall’autore)

Ho scoperto che Carlo Rovelli ha una bellissima rrr che penso si collochi all’intersezione tra un piacentino – lo so bene, fidatevi – e un nobile cortigiano dell’assolutismo francese. Inflessioni a parte, io di fisica non ho mai capito NIENTE, ma mi sono appassionata. Non posso dire di aver assimilato alla perfezione le sette lezioni qui proposte, ma il nobile scopo di fondo mi è chiaro: renderci partecipi della complessità delle forze che governano la struttura del nostro universo e spiegarci che, in fondo, la scienza è alla base di ogni avventura umana.
Povero Rovelli, ha letto per un’ora abbondante e quello che ne ricavo io è LO SO CHE NON CI ARRIVO MA LA SCIENZA È FANTASTICA.

Chimamanda Ngozi Adichie
Dear Ijeawele, or a Feminist Manifesto
(Letto da January LaVoy)

Perdonatemi, ma ogni dieci giorni ho bisogno di farmi dire dalla Adichie che cucinare non è un’incombenza che la biologia ha specificamente destinato alle donne. O che i papà che cambiano un pannolino non andrebbero applauditi come eroi conquistatori perché i figli sono anche i loro… e che il fatto che se ne prendano cura dovrebbe essere la normalità, mica un miracolo. Con i quindici suggerimenti contenuti in questo libro Chimamanda risponde a un’amica che le aveva chiesto consiglio su come crescere “bene” sua figlia e, nel farlo, porta ancora una volta allo scoperto le colossali stupidaggini con cui, nostro malgrado, siamo ancora costrette a confrontarci quotidianamente.

Neil Gaiman
Norse Mythology
(Letto dall’autore)

Qui sarò molto professionale: CHE BENESSERE. NEIL GAIMAN PATRIMONIO DELL’UMANITÀ.
L’epica norrena rielaborata da un maestro assoluto del fantastico: Norse Mythology è una sorta di antologia che raccoglie i miti più significativi della tradizione “scandinava”. Divinità, mostri, regni lontani, alberi del mondo, ponti arcobaleno, idromele, cavalli a otto zampe, giganti, malefatte, eroismo, poeti, trasformazioni e valchirie si alternano sul palcoscenico, ripercorrendo il grande arco temporale che congiunge le origini del mondo all’inevitabile crepuscolo della creazione – il Ragnarök. Gaiman non solo rende i miti assolutamente godibili – riproducendone l’impronta epica senza però privarli della sua impalpabile ironia – ma li legge anche con la passione e il piglio divertito di chi sa, sopra ogni altra cosa, quanto una storia ben raccontata possa toccarci nel profondo, e rimanere con noi ben oltre la fine dei tempi.

Ecco, ho finito.
Se vi interessa fare un esperimento con Storytel, vi ricordo il link per usufruire bellamente del periodo di prova “potenziato”: correte qui.
Se vi siete già invasati, invece, abbracciamoci forte mentre pieghiamo le lenzuola o sbattiamo padelle unte in lavastoviglie. Da parte mia, per quel che vale, continuerò a raccogliere i miei ascolti qui sul blog e, ovviamente, anche nelle beneamate Stories.
Per il resto, buon ascolto.
O si dirà “buona lettura”?
Chi lo sa.
Facciamo così: buone storie, come e quando vi pare. 

 

Mi sono affezionata a Snapchat con una certa riluttanza. All’inizio, un po’ come tutti gli esseri umani nati prima del 2000, non avevo idea di come si usasse. Il buio. Il nulla. L’ignoto. Il mistero. È raro che una persona installi un’app e, nonostante la buona volontà, non riesca a capacitarsi del suo funzionamento… ma neanche vagamente, proprio. Mi sono sentita una cretina per giorni, mesi e secoli ma, grazie al cielo, ad un certo punto mi sono resa conto di non essere l’unica. Là fuori, infatti, è tutto un fiorire di BELLO SNAPCHAT MA NON CI VIVREI. Ma scusa, perché ti fa schifo? …perché non lo so usare.
Ecco.
Non va bene. Non è dignitoso. Che ne è stato del nostro amor proprio? Il “so di non sapere” è una mirabile e saggia ammissione dei propri limiti, ma poi bisogna fare qualcosa per risolvere l’incresciosa situazione. Riscattarsi dall’ignoranza è importante, maledizione, anche quando si tratta di padroneggiare un’applicazione per quattordicenni.
Comunque.
Dopo svariate sessioni di training – in cui amici e conoscenti hanno pigliato in mano il mio telefono e, a suon di ditate, mi hanno illustrato le funzionalità principali – e un’assidua frequentazione del blog del mirabile Stefano Perazzo – The Snapchat Journal – sono diventata autonoma e ho cominciato a produrre contenuti di cui nessuno al mondo sentiva il bisogno. Mi sono messa a seguire persone che mi stanno simpatiche, mi sono sciroppata le storie di magazine e publisherS assortiti (sezione DISCOVER, caroni) e ho usufruito – quasi sempre volentieri – degli imprevedibili momenti LIVE offerti dalla piattaforma.
Tutto molto bello.
Tutto molto ENGAGING.
Tutto molto AMAZING.

MA MAI COME I FILTRI.

Dopo analisi rigorose e meticolosissime, sono arrivata alla conclusione che – una volta comprese le funzionalità basilari dell’app – con Snapchat ci si piglia tutti bene perché ci sono i filtri scemi. 
E buonanotte.

Snapchat, facendo astutamente leva sulla megalomania delle masse e sull’inesauribile serbatoio di cialtronaggine che qualunque essere umano serba nel proprio cuore, ci allieta quotidianamente con filtri imbecilli che possiamo utilizzare per sfigurarci variamente mentre raccontiamo i fatti nostri al prossimo. Per indagare il fenomeno – che merita senza dubbio di diventare materia di tesi di laurea – mi sono chiesta come si comporterebbe un giornalista di Vice e ho deciso di collaudare i filtri più spettacolari, screenshottandomi senza pietà. L’obiettivo finale di questo inutile progetto è vagamente classificatorio: i filtri di Snapchat hanno un senso? Sono raggruppabili in filoni controllabili e gestibili? Come scegliere il filtro che più si addice ai nostri scopi?

Parliamone.

I FILTRI CHE FANNO FARE I SOLDI A SNAPCHAT

Vuoi vendere qualcosa – pure ai ragazzini? Chiedi a Snapchat di fabbricarti un filtro e di metterlo al primo posto tra quelli disponibili in una determinata giornata. A quel punto, sgancia un casino (immagino) di soldi e goditi il preoccupante show.
Coraggio, ringraziamo tutti Ariana Grande per averci dato l’opportunità di indossare un mascherone fetish da coniglia dominatrice – con tanto di luce della santità sullo sfondo e possibilità di evocare dal nulla un gigantesco bacio glitterato – e al Magnum Double per aver finalmente permesso alla panterona che è in noi di balzare allo scoperto – proprio come nello spot!

snapchat tegamini sponsored

Non so voi, ma attendo con ansia il filtro-Gardaland per potermi finalmente tramutare nel drago Prezzemolo.

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I FILTRI SFIGURANTI

Snapchat adora manomettere i nostri già disperati lineamenti.
Somigliamo a un copertone sgonfio? I filtri sfiguranti sapranno fornirci un ironico alibi. Sei una figa apocalittica ma vuoi dimostrare al mondo che non te la tiri? I filtri sfiguranti sapranno riavvicinare il tuo volto celestiale a quello di un comune mortale. Sei una persona normale? I filtri sfiguranti ti permetteranno di aggiungere un prezioso livello d’espressività ai tuoi monologhi.

snapchat tegamini filtri sfiguranti

Lo so, ho delle felpe irresistibili.
I filtri sfiguranti, almeno dal punto di vista narrativo, possono risultare utili. Il problema è che, spesso, la gente rimane intrappolata nella grottesca magia del filtro dimenticandosi, di fatto, di narrare qualcosa. Perché, amici. Perché. Il risultato? Snapchat abbonda di persone variamente modificate dal punto di vista morfologico che ridacchiano del proprio riflesso, convinte che anche noialtri dovremmo trovare la faccenda divertentissima. Ricordate: usare un filtro sfigurante con la più totale nonchalance è assai più spassoso che assistere all’increscioso spettacolo di una persona di trent’anni che passa 10 secondi a gridare NO, HO GLI OCCHIETTI PICCOLI. LA VITA!

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I FILTRI ZOOMORFI

Internet è dei gattini, ma Snapchat vuole bene a tutte le bestie del creato. E ce lo dimostra ogni giorno.
I filtri zoomorfi sono di diversi tipi. Ci sono i filtri zoomorfi a mascherone e i filtri zoomorfi minimalisti. Le due grandi famiglie sono popolate, a loro volta, da animali immaginari e da animali reali.
Ma non stiamo qui a farci troppi pipponi.

snapchat tegamini filtri zoomorfi minimalisti

I filtri zoomorfi minimalisti sono tipicamente composti da orecchie pelose e nasone. Spalancando le fauci o alzando le sopracciglia avrete altresì la possibilità di scatenare effetti secondari di rara ripugnanza. Potrete evocare lingue, zampine o tramutarvi in belve mannare e minacciose (il leprottino furibondo, nonostante io lo conosca benissimo, non smette mai di terrorizzarmi).
Tra i filtri zoomorfi minimalisti che più detesto c’è quello del segugio-leccone. Il filtro del segugio-leccone pare intramontabile. L’umanità lo ama e Snapchat, di conseguenza, non ce lo leva dai piedi.

snapchat tegamini filtri zoomorfi

Il procione, pur essendo un filtro zoomorfo minimalista un po’ meno minimalista degli altri, nulla ha a che vedere con la magnificenza dei filtri zoomorfi a mascherone. Grande è il dispiacere per non essere riuscita ad immortalare il filtro PANDA-GONFIO-CON-CORONCINA-FLOREALE, ma accontentiamoci di quel che c’è. I filtri zoomorfi a mascherone hanno la capacità di rievocare armoniosamente e realisticamente le fattezze (e di frequente anche l’habitat) del vostro animale esotico del cuore, riuscendo comunque a rendervi vagamente riconoscibili e a donarvi una certa plasticità.
Menzione speciale, all’interno della categoria, va al filtro SFINGE DORATA, che è semplicemente il più bello di sempre e che, se solo il mondo fosse giusto, dimorerebbe d’ufficio in cima alla lista – al posto di quello da CAGNA MALEDETTA, magari.
Comunque.
Non abusate dei filtri zoomorfi. O si impossesseranno di voi… e perderete l’uso del pollice opponibile.

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I FILTRI SACCHETTO IN TESTA

I filtri sacchetto in testa sono di un’invadenza rara. E mancano di garbo. Dal teschio fiammeggiante al tronco d’albero, potrete godere di una temporanea ma completa perdita d’identità. Sono filtri che possono soccorrervi in una giornata che non vi ha donato altro che brufoli, inspiegabili sfoghi cutanei e scottature devastanti ma, a parte quello, non li trovo un granché affascinanti. Molto spesso, poi, l’inquadratura fatica a contenerli e sono accompagnati da effetti sonori destinati a coprire qualsiasi altro genere di rumore, discorsi compresi.
Insomma, sono i classici filtri che a Snapchat s’inventano di venerdì pomeriggio alle sei e un quarto.

snapchat tegamini sacchetto in testa

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I FILTRI AUTOSTIMA

Per incoraggiare la produzione di contenuti e la vispa partecipazione degli utenti, Snapchat ha magistralmente deciso di puntare sulla vanità. Accanto ai filtri buffi, ai filtri per Licia Colò e ai filtri per i bambini che trovano fantastico avere la faccia ricoperta di corteccia, Snapchat ha messo a punto anche una nutrita batteria di filtri cosmetici, studiati per farci sembrare più belli. O meno brutti, a scelta.
I filtri autostima si basano su un elementare ma sacrosanto presupposto: l’attivazione della fotocamera interna del telefono è sempre un trauma. E non tutti possono permettersi di spendere un capitale in creme di Guerlain. Ma Snapchat sa. E Snapchat capisce. E Snapchat vuole aiutare anche chi, magari, non ha ancora trovato il modo di convivere serenamente con l’esuberanza delle proprie occhiaie.
Beccatevi dunque il filtro Kardashian.
I filtri autostima si avvalgono di diverse strategie. Si va dalla piallata epidermica con illuminazione a un milione di kilotoni (già utilizzata con ottimi risultati in ogni studio televisivo italiano) al trucco posticcio (con inturgidimento delle labbra), fino al filtro golden shower imperiale – con vittoriosa corona d’oro zecchino.

snapchat tegamini cosmetici

Vi amate a sufficienza per non ricorrere a questi mezzucci? Buon per voi.
Siete obiettivamente bellissimi, vi svegliate la mattina e lo specchio tenta di limonarvi? La cosa non può che farmi piacere.

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I FILTRI ACIDO

Non tutti sanno come procurarsi degli allucinogeni. O non hanno i soldi per sostenere una proficua dipendenza da sostanze psicotrope più o meno esuberanti. Snapchat, anche in questo caso, può correre efficacemente in nostro soccorso.
La famiglia dei filtri acido è vastissima, eterogenea e popolata da accrocchi non sempre ben riusciti – ma immancabilmente affascinanti.
Ci sono filtri capaci di trasformare il vostro cranio in un pomodoro gigante che, a sua volta, vomita fettine di pomodoro. C’è il filtro zombie che tutti abbiamo usato per comunicare ai nostri conoscenti di avere un forte raffreddore e/o una malattia potenzialmente letale. C’è un prezioso filtro che ti permette di rigurgitare arcobaleni. E quello che ti regala una moltitudine di sudditi adoranti con le antenne pelose.
Giuro.
Vorrei essere fatta come una mina, ma è tutto vero.

snapchat tegamini acido

snapchat tegamini acido II

All’orripilante categoria dei filtri acido appartengono anche i famigerati face-swap, che ti fanno ridere per quattro secondi – per poi gettarti del tedio più acuto. Perché un face-swap solo non basta. Il vostro amico che scopre all’improvviso il face-swap vorrà farlo con TUTTI. Voi, se potete, guardatevi bene dall’illustrargli la malaugurata funzionalità in mezzo, che ne so, a Piazza Duomo. O allo stadio. O al concerto di Adele. L’entusiasmo, solitamente, è immediato e – come ogni vera gioia – contagioso e inarrestabile. Il face-swap è come un’epidemia zombie. Non macchiatevi di favoreggiamento.

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I FILTRI CHE CI MERITIAMO, MA CHE NON CI SONO ANCORA

Ora che sappiamo (in maniera incredibilmente esaustiva) quello che esiste, soffermiamoci su quello che ci serve.
Di che cosa abbiamo bisogno?

Vogliamo un filtro con un vero unicorno – mica quella specie di mulo viola che annega nello zucchero filato.
Vogliamo i filtri a tema film e serie TV. E li vogliamo ora, visto che nel cinema girano i soldi.
Vogliamo le correnti artistiche! Pensavi di cavartela solo con la Gioconda, Snapchat?
Vogliamo più roba da mangiare. Il filtro pizza. Il filtro torta. Il filtro con le ciambelle.
Vogliamo i filtri per fare finta di essere usciti di casa, quando in realtà siamo sul divano col mal di pancia. Il concetto è estendibile anche alle vacanze: vogliamo il filtro con la spiaggia tropicale, anche se siamo a Pietra Ligure ai Bagni Ondina.
Vogliamo i filtri romanzo e i filtri tematici degli scrittori. Tipo. Franzen! Occhiali da secchione, aria di supponenza e centomila uccellini che svolazzano. Hemingway! Barba, camicia di lino, caraffa di mojito e gatti con sei dita da tutte le parti.
Vogliamo i filtri delle Fashion Week… con il make-up delle sfilate. I vestiti non ce li possiamo permettere, ma dateci almeno il trucco.
Quello che ci meriteremmo davvero, però. è un filtro CORGI – sponsorizzato, possibilmente, dalla monarchia britannica.

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Il mio amore per la cancelleria sta cominciando a produrre risultati imprevedibili. Adoro comprare quaderni bizzarri, adorabili blocchetti per gli appunti ed estrose biro dal tratto vagamente pennarelloso, ma non ci faccio mai niente. Le penne mi provocano scompensi minori, ma non c’è verso di convincermi ad aprire un quaderno BELLO e a scriverci dentro per davvero. Ho un’agenda “di servizio” che uso per annotare (A MATITA) gli impegni e la lista delle cose da fare, ma ho praticamente perso la capacità di tenere traccia di quello che mi capita o di scarabocchiare da qualche parte quello che vedo o quello che mi colpisce. Da piccola ero molto scrupolosa. Scrivevo tutto. Mi ricopiavo sul diario anche gli SMS che mi arrivavano, che con lo spazio che c’era sul 3310 mica si poteva andare avanti chissà quanto. Mettevo da parte i bigliettini, ritagliavo foto dalle riviste, immagazzinavo cartoline, catalogavo lettere e non buttavo neanche un disegno. Visto che non mi sentivo particolarmente padrona della situazione, cercavo di catalogare il catalogabile, sperando che – almeno sulla carta – le cose cominciassero ad assumere una forma vagamente comprensibile. Ora, nonostante l’accrescimento esponenziale della complessità delle mie giornate, percepisco un quaderno come qualcosa di decorativo e piacevole, più che come uno strumento in grado di aiutarmi a non prendere a capocciate il muro. Quello che continua a sembrarmi importante, però, è il bisogno di non dimenticare quello che, anche solo per un attimo, mi è sembrato speciale. E, visto che non riesco più a farlo con un quaderno vero, ho deciso di equipaggiarmi diversamente. Certo, adesso ho molti più strumenti per esternare le mie imprescindibili osservazioni e per collezionare quello che vedo, ma la sensazione è che l’universo sia vasto e che ci sia sempre qualcosa che mi sfugge. Un tweet di qua, una post su Instagram di là. E rimane comunque un gran casino. Le cose succedono, si accumulano, si disperdono e vengono dimenticate.
Ci vorrebbe un diario, ho pensato.
Ma un diario un po’ più realistico e maneggevole di quello che avevo da piccola.
Una sera, poi, il nostro amico Andrea ci ha fatto una foto. Avevamo mangiato, eravamo in giro e, in qualche modo, avevamo partecipato alla sua giornata. E siamo finiti nel suo diario. Belli tranquilli, così come eravamo. Curiosa come una bertuccia, mi sono fatta spiegare che cosa diamine stava facendo con il nostro prezioso ritratto… e ho scoperto Day One.

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Non mi pare un’app dal potenziale particolarmente rivoluzionario – è pure in giro da qualche anno -, ma mi è subito sembrata un’ottima invenzione.
A che serve?
Day One è fondamentalmente un diario. Le diverse entries si possono catalogare seguendo categorizzazioni pazze (dei sotto-diari, di fatto) o, semplicemente, creare e buttare dentro in ordina cronologico, lasciando alle label il compito di riordinare il mondo. Ogni contenuto può essere accompagnato da un piccola galleria di immagini – pescabili da rullino -, da un testo – io sono abbastanza laconica ma, volendo, uno può scriverci dentro anche Guerra e pace -, da un tag geografico – con tanto di meteo e temperatura – e da una serie di etichette che puoi inventarti a piacimento e che, fra mille anni, potranno aiutarti a ripescare quello che ti è successo.
Niente di clamoroso, insomma… ma Day One fa innegabilmente il suo sporco dovere. E mi sta regalando l’illusione di governare un po’ meglio il caos. Per ora mi sto solo divertendo a raccogliere ricordi quotidiani, ma potrei provare a inventare dei diari paralleli per gestire meglio – che ne so – quello che capita al lavoro, le menate burocratiche che ci devastano la vita – il 26 maggio hai stupidamente accettato di dare un milione di euro al tuo gestore telefonico, cretina! -, le avventure di Minicuore, una routine ginnica, la roba che leggo, i film che vedo.
E niente, tutto qua. Ve lo volevo dire. Il diario è l’invenzione più vecchia del mondo… e IL DIARIO SULLO SMARTPHONE non è sicuramente il miracolo del progresso moderno, ma mi trovo bene, che cosa devo fare. Sono una ragazza semplice. L’interfaccia di Day One mi capisce. Mi viene addirittura voglia di ricordarmi più cose, da quando uso Day One. L’ho pure pagata 4 euro e 99, questa strabenedetta app. Non compravo un’app dal giorno del mai! Che sta succedendo, mi sono rincoglionita all’improvviso o tutti quanti si ritrovano prima o poi a gestire abitudini diaristiche più o meno insensate?
Raccontatemelo, diamine.
Ho bisogno di capire se anche voi siete travolti dalle mie stesse preoccupazioni. Se temete l’oblio. Se ve ne fregate.
Avete metodi alternativi da suggerire?
Là fuori ci sono app ancor più stupefacenti di cui ignoro l’esistenza?
Ma, soprattutto, avete visto qualche quaderno bellissimo che posso ammirare, coccolare e apprezzare senza mai scriverci dentro neanche una riga perché ormai ho Day One e buonanotte al secchio?
Illuminatemi.
Ogni contributo, siatene certi, verrà catalogato con cura.

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Là fuori capitano cose belle. Mentre siamo tutti a buttar via le nostre vite sul divano, quattro personaggi (Eli Horowitz, Russell Quinn, Matthew Derby e Kevin Moffett) si inventano The Silent History, un’app-romanzo che oltre ad essere di piacevole lettura è anche sommamente interessante.
L’antefatto è semplice: all’improvviso iniziano a nascere bambini che non emettono suoni e non sono in grado (o non vogliono?) comunicare verbalmente. Bambini perfettamente in salute, capaci di interagire emotivamente e di comprendere quello che capita intorno a loro, ma che, semplicemente, non fanno nemmeno BA. E diventano sempre di più, sparpagliandosi in una sorta di epidemia silenziosa che la scienza medica non sa spiegare e la società fatica a digerire. Questi bambini vanno a scuola, crescono, camminano per strada… e con questo loro impenetrabile silenzio cambiano per sempre il mondo che conosciamo.
L’app – per tutti quelli che come me stanno pagando un iCoso in trenta mesi -, è un super puzzle di testimonianze, dal 2011 al 2043. Sono capitoletti che si leggono in cinque minuti, rilasciati giorno per giorno. Ci sono i ricordi dei papà che portano la moglie in ospedale per il parto, le babysitter dei primi bambini silenziosi, le vicine di casa impiccione, i dottori che gettano le basi per gli studi all’inizio del fenomeno, maestre turbate, sorelline affettuose. Voci diverse da posti diversi, per scoprire che cosa sta davvero accadendo insieme al lettore.

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Oltre alle testimonianze, l’app prevede anche un secondo livello di lettura, con i field reports geolocalizzati. Si va in punto ben preciso e solo da quel punto, sventolando il proprio DEVAIS davanti a non so bene cosa, è possibile accedere a una testimonianza aggiuntiva, specificamente pensata per quel punto. I field reports non sono indispensabili alla comprensione generale della storia, ma sono una sorta di bonus interattivo, perchè oltre ad andarteli a leggere, se hai voglia puoi pure crearne uno. In Italia, per ora, non c’è granchè, ma sarebbe davvero bellissimo poterne trovare di più.

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Tutto il baraccone costa 6,99€. Si può anche decidere di scaricare il primo periodo a 1,99€ e poi vedere che succede ma, come per gli album, conviene davvero investire l’inestimabile somma e iniziare subito a leggere.
E’ bello perchè è una storia (una bella storia, tra le altre cose) che si adatta, finalmente, al supporto destinato a convogliarla. Gli iPhone e gli iPad non sono fatti per leggere libri come può molto meglio fare su un Kindle, su un Kobo o sugli altri fratellini della famiglia degli inchiostrini magici… e ben vengano, allora, i capitoli da cinque minuti. E ben vengano, soprattutto, i capitoli da cinque minuti che raccontano una storia gigantesca, combinando prospettive, mescolando registri differenti e invitandoti a fare dei chilometri a piedi, magari, tanto per andarti a vedere che è capitato. E come ogni app degna di questo nome, crea dipendenza.
Insomma, per chi può, The Silent History è una bella faccenda. Una storia che funziona e un meccanismo antico come il mondo (ah, il romanzone a puntate!) che si trasforma. Evviva.

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