Allora, io non ho tutta questa dimestichezza con i gialli. Mi cimento quando me li vendono evidenziando una stramberia strutturale – vedi i due Stile Libero di Janice Hallett, L’assassino è tra le righe e Il misterioso caso degli angeli di Alperton -, una trovata stilistica o un’ambientazione peculiare, altrimenti è difficile che mi incuriosiscano. Con Uketsu, che in Giappone è una specie di fenomeno, possiamo anche contare sul bonus “personaggio misterioso che staziona su Youtube con una maschera di cartapesta in faccia e nessuno sa chi è”, quindi m’è sembrato legittimo fare un esperimento, considerando anche il lancio molto sostanzioso – anche questo è uscito per Einaudi, con la traduzione di Stefano Lo Cigno.
Ma com’è, questo Strani disegni? Dipende. Perché funziona tutto, ma non sembra un libro scritto da un essere umano – il che forse va benissimo, dato che Uketsu non si presenta come tale ma come una specie di entità astratta. Non è da uno con una tutina nera e un disco bianco sulla faccia che dovremmo aspettarci una penna “viva” e organica, forse, visto che già si propone al pubblico come un macchinario vagamente antropomorfo che genera storie spaventosin-disturbanti.
La storia è divisa in tronconi all’apparenza disparati, che a modo loro fanno provincia quasi autonoma. Son divisi dal tempo e dallo spazio e uno degli aspetti positivi del romanzo è la costruzione di ponti e nessi causali tra tutta questa roba che Uketsu apparecchia per costernarci.
Il titolo è sincerissimo, perché ogni porzione del mosaico poggia su un macro-indizio contenuto in un disegno o in una serie di disegni. Son quasi sempre dei brutti disegni ma, come un po’ tutto il resto, non sono lì per essere belli ma per essere utili: sono prove d’enigmistica all’interno di un grande esercizio, un invito ad allontanarci per mettere insieme i pezzi e scorgere l’impianto complessivo. Io, che sono qua perché i disegni erano il mio pretesto di curiosità, ne ho apprezzato l’utilizzo – anche se la genesi di alcuni è davvero stiracchiatina.
È un romanzo che si prende in mano e più o meno lo si vuole finire senza alzarsi, rimanendone quasi ipnotizzati? Direi di sì, perché è ingegnerizzato per quella precisa ragione – nonostante appaiano a più riprese degli schemini riassuntivi di quello che c’è scritto tre righe prima. Uketsu si impegna assai per rendersi accessibile, mettiamola così.
È anche un’esperienza di lettura orrenda? Per certi versi sì, perché è una scrittura puramente funzionale e quel che fa più paura in assoluto è sentir descrivere gli abissi dell’animo umano con quel tono lì. È come assistere a un massacro tra androidi con la telecronaca di un altro androide, insomma. È una pecca o un segnale di coerenza completa tra autore ed esecuzione? È tutta una gigantesca supercazzola? Un androide disegnerebbe meglio o peggio di Uketsu? È un altro mistero. In un paese in cui anche agli Evangelion venivano concessi carne, destino e sangue, Uketsu si veste da creepy-mimo e quello fa: disturba la nostra quiete con le conseguenze di un antico orrore, delegandoci i risvolti emotivi e lavorando solo col riflesso lontano di quel che dovrebbe essere una persona. Ma la trappola, efficientissima, scatta.
