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Non mi sforzerò nemmeno lontanamente di compilare una classifica, che già è stato arduo arrivare a queste sintetiche conclusioni. Quella dei libri preferiti dell’anno è senza dubbio la lista più difficile da assemblare e mi getta puntualmente in un gorgo di dubbio, tentennamenti e FOMO retroattiva. Non si può nemmeno sfuggire a una certa ridondanza, perché se nell’arco degli ultimi dodici mesi ho apprezzato un libro è raro che non l’abbia già dichiarato qua e là, chiacchierandone su Instagram o scrivendone qua sul blog. Insomma, al netto di tutte queste menate, dedichiamoci a quest’impresa di sintesi che risponde alle seguenti coordinate:

  • i libri che mi sento di segnalare fra i preferiti dell’anno X non sono necessariamente usciti nell’anno X, anzi. La mia scarsa reattività al nuovo è tendenzialmente assai spiccata, quindi c’è un po’ di tutto – anche se nel 2021 sono caduta dal pero un po’ meno del solito, mi pare.
  • i criteri son più “sentimentali” e istintivi che rigorosi e bilanciati. Insomma, per una volta mi concedo il lusso di non pensare a equilibri ferrei tra fumetto, narrativa, saggistica, editori e cento altre interpolazioni possibili.
  • nel caso ci siano luoghi dove ho elaborato un po’ meglio le mie impressioni non esiterò a indirizzarvici per approfondire.
  • no, Crossroads di Franzen non l’ho ancora finito. Abbiate pietà per i ritmi altrui.

Benone, ribadendo l’onnipresente problema della fallibilità umana, ecco qua il mio miglior 2021 libresco.

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Bernardine Evaristo
Ragazza, donna, altro
(Sur)
Traduzione di Martina Testa

Un esperimento narrativo corale che sintetizza senza retorica o condiscendenza tanto del dibattito (finalmente) attuale su rappresentazione, genere, identità e privilegio. Un libro prezioso per innovazione strutturale, piglio bellicoso e per rifocalizzazione del punto di vista.

Ecco qua dove ne avevo parlato in origine.

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Elizabeth Strout
Olive, ancora lei
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Il ritorno di Olive Kitteridge, la bisbetica più amata del Maine, ha rinnovato la mia ammirazione per Elizabeth Strout, che si conferma splendida ritrattista delle minuzie del tran tran quotidiano e delle testarde meschinità con cui tendiamo a complicarci la vita. È anche un libro che indaga gli effetti del trascorrere del tempo e il coraggio necessario per concederci una seconda possibilità, per quanto tardiva e monca ci possa sembrare.

Serve un approfondimento? Accomodatevi qua.

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Teresa Ciabatti
Sembrava bellezza
(Mondadori)

Cianciamo tanto della necessità di dipingerci “forti” e poco inclini a compromessi, ci dichiariamo pronte ad accogliere ogni genere di sensibilità – inclusi i personaggi femminili capaci di concedersi l’indubbio lusso di una spigolosità palese e impenitente – e applaudiamo senza remore i più vari elogi dell’imperfezione, ma quanto ci crediamo davvero? Quanto li digeriamo senza subirne con stizza l’urto inevitabile? Forse Teresa Ciabatti non è facile da leggere. Anzi, non è piacevole da leggere. Nella voce narrante che sceglie per Sembrava bellezza non c’è nulla di comodo, edulcorato o strutturato per rassicurarci. Ecco, reduce da un biennio in cui il mondo sembra essersi accorto (con comodo) che anche il pensiero positivo perenne e onnipresente può risultare tossico e colpevolizzante, ho trovato questo romanzo particolarmente liberatorio. Ma non tanto per il gusto di seguire le peregrinazioni di una ragazza “cattiva” che mai metabolizza fino in fondo delle ombre dell’adolescenza, credo sia più una questione di zone grigie. Non c’è desiderio di rivalsa senza insoddisfazione e non c’è narratrice inaffidabilissima che non sia anche profondamente consapevole delle proprie storture e delle proprie mancanze. Non c’è ambizione all’ascesa – sia estetica che di “status” – che non parta da un’intima conoscenza di una distribuzione disomogenea delle fortune. Credo sia anche per questo che ho amato questo libro: è probabile che i personaggi imperfetti la sappiano più lunga di noi perché conoscono sia i loro deficit che quel che occorrerebbe per raggiungere la felicità e l’appagamento. Vivono all’interno di quella distanza impossibile da colmare e ci abitano concedendosi il loro unico guizzo sincero: un’insoddisfazione sacrosanta, velenosa, più vera di ogni tentativo di dipingersi meglio di quel che sono e, nel non sapersi vendicare in prima persona, vendicano noi.

Per una cronaca un po’ più lineare di questo libro, qua si può riguardare la diretta con la sottoscritta, Daniela Collu e – in coda – Teresa Ciabatti, che appare come un cigno-fantasma.

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Kazuo Ishiguro
Klara e il sole
(Einaudi)

Traduzione di Susanna Basso

Ishiguro è stato uno dei graditi e attesi ritorni – non pochi, devo dire – del 2021. Anche a questo giro il tema al cuore del romanzo è il seguente: che cosa ci rende umani? Per ipotizzare una risposta, Ishiguro si fa aiutare da una schiera di simulacri – molto realistici e credibili, ma pur sempre artificiali – che popolano un mondo rarefatto e socialmente atomizzato. Si piange pure con gli androidi? Già.

Il post provvisto di tutti gli optional e degli upgrade più moderni si può leggere qua.

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Giulia Caminito
L’acqua del lago non è mai dolce
(Bompiani)

Ho tifato tanto allo Strega – non è servito -, ma Giulia Caminito ha avuto la sua rivincita al Campiello e ne sono stata immensamente felice, di certo per il valore del romanzo ma anche per la soddisfazione di veder riconosciuto, per una volta, il talento di un’autrice limitrofa alla mia condizione anagrafica e che di sconfitte generazionali ha parlato senza piagnistei e deferenza verso l’ordine costituito. Gaia, la protagonista, è una piccola gorgone di lago e anche la lingua che Caminito sceglie per guidarci nella sua lotta quotidiana sconfina quasi nell’incisività e nel piglio del mito. Si parte da una famiglia disastrata, tenuta insieme solo dalla forza di volontà e dall’impermeabilità all’umiliazione dell’ingombrantissima madre, Antonia. Si procede per tappe, verso un riscatto imposto che passa per lo studio e le violentissime reazioni all’accumulo di ingiustizie di quegli anni che ci vengono spesso venduti come i più verdi e belli, ma sono verdi e belli quanto il fondo limaccioso e buio del lago di Bracciano, cornice di questa storia. Non ci si lamenta, non ci si rassegna, non si mostra il fianco. Ma dopo tutta questa fatica, tutta questa brace incandescente che coviamo e che man mano diventa sempre più fredda e rassegnata, dov’è tutto quello che ci è stato promesso? È forse mai esistito?

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Leigh Bardugo
La trilogia di Shadow and Bone 

La serie di Netflix, almeno nel mio caso, ha prodotto quell’auspicabile esternalità positiva che prevede la trasformazione dello spettatore televisivo in lettore del materiale di partenza. Di solito preferisco arrivare “preparata” alla visione di una serie, ma in casi più rari può anche capitare che ci si trasformi in salmoni che compiono all’inverso il naturale percorso di avvicinamento. I tre romanzi di Tenebre e ossa mi hanno egregiamente tenuto compagnia, generando anche quell’effetto “devo vedere subito come va a finire” che non si manifestava da un po’. Per quanto trovi Alina irritantissima e per quanto io sia perfettamente in grado di scorgere più di un difetto nell’impianto generale e nella “resa” di questi libri, non è stato affatto impervio sedermi là a godermeli lo stesso. Innumerevoli sono stati gli incoraggiamenti a proseguire con Sei di corvi – se non proprio i “lascia perdere i primi tre, puoi leggere direttamente la duologia che è molto meglio”, ma m’è sembrato più opportuno farmi un’idea meno raffazzonata del mondo e dunque eccoci qua con un timbro nuovo di pacca sul passaporto del Grishaverse. Grazie per aver fornito il necessario intrattenimento, Leigh Bardugo. E un saluto anche a te, Ben Barnes.

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Emmanuel Carrère
Yoga
(Adelphi)

Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala

Che anno denso di attesi ritorni (non deludenti) e di narratori splendidamente inaffidabili, è il caso di dirlo. Carrère continua a menarci per il naso? È possibile, ma a questa ipotetica grande mistificazione – che forse poi è la mistificazione strutturale che passa per la soggettività del ricordo e di quello che ci raccontiamo per sopportare quello che succede, forse – continuo a cedere volentieri.

Per impressioni un po’ meno nebulose, il post era qui.

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A cura di Sheila Williams
Relazioni – Amanti, amici e famiglie del futuro
(451)

Dodici racconti – raccolti da Sheila Williams per l’annuale impresa antologica della longeva serie tematica Twelve Tomorrows del MIT – per ipotizzare altrettante nuove strutture dello “stare insieme” in un contesto più o meno dominato dalla tecnologia. Coppia, figli, dating, eredità e memoria… cosa ci riserverà il futuro nel vasto calderone del legame sentimentale, dell’ordine sociale e della relazione umana? Grandi nomi della speculative fiction e della fantascienza cercano di immaginare una risposta – e no, non è detto che sia catastrofica.

Per approfondire, ecco qua.

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Anna Maria Ortese
Il mare non bagna Napoli
(Adelphi)

Qua c’è un racconto che chissà in quale maniera sconclusionata avevamo letto a scuola. È il racconto della bambina che non ci vede e finalmente riceve un paio d’occhiali, per poi scoprire che tutto sommato stava meglio prima, in una realtà ovattata e nebulosa che le risparmiava l’orrore di una messa a fuoco precisa dell’esistente. E quel che esiste attorno a lei è Napoli, una vertigine urbana che sobbolle e digerisce a ciclo continuo ogni possibile configurazione dell’umano. Non rammento una lezione su Anna Maria Ortese, a scuola, ma il racconto della bambina mezza orba sì. Gli altri quattro movimenti di questa sinfonia dissonante e magnifica sono un tardivo recupero e, credo, anche una prova di coraggio – non tanto per me che leggo, ma più per Ortese che scrive senza pentimenti. Il tempo per pentirsi e limare sarebbe poi arrivato, ma quel che resta è una capacità magnetica di creare una distanza, il distacco necessario ad esercitare la libertà dello sguardo, a inforcare quegli stramaledetti occhiali per esercitare una soggettività unica, inclemente, poetica, mostruosa e viva.

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Madeline Miller
Circe
(Marsilio)

Traduzione di Marinella Magrì

No, non so ancora dirvi nulla sulla Canzone di Achille. Dopo aver così apprezzato Circe, però, sono certa che lo affronterò presto e con una certa fiducia. Figlia del Sole e della ninfa Perseide, Circe cresce fra i Titani imparando a schivare le folgori delle nuove divinità olimpiche. Da sempre poco malleabile e incomparabilmente meno luminosa dei suoi fratelli, compatisce Prometeo e crea mostri, cercando un luogo dove potersi sentire davvero a casa. Paradossalmente, la vita di Circe sembra germogliare davvero da quella che per dei e mortali potrebbe somigliare alla peggiore delle condanne: l’esilio eterno sull’isola di Eea. Tra animali e piante, Circe asseconda la magia e diventa il cuore pulsante di un universo di prodigi, incontri, lotte secolari e sorti illustri. Una rivisitazione godibilissima e colta che espande il mito e trasforma in protagonista indimenticabile una figura in cui siamo abituati a imbatterci quasi di sfuggita: la comparsa infida ed egoista nella grande epopea dell’astuto e nobile Odisseo assume qui rotondità, mente, cuore e potere. Non solo equipaggi trasformati in maiali, insomma, ma una maga che pur andando ben poco a spasso contiene moltitudini. Viva Circe. E occhio a Scilla.

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Paolo Cognetti
La felicità del lupo
(Einaudi)

Allora, io a Fontana Fredda non ci vivrei in pianta stabile, ma mi fa piacere soggiornarci per qualche tempo per andare a trovare i personaggi di Cognetti. Forse no, non ho ancora finito la mia decrescita cittadina e non sono ancora pronta a confrontarmi con l’immensità glaciale delle vette montane, ma anche questa volta il sortilegio d’alta quota si è ripetuto. È un romanzo che rallenta il ritmo del quotidiano e lascia intravedere un’alternativa che ha poco della negazione e del rifiuto e molto della ricostruzione ragionata. Pur restando dove sono, è un libro che mi ha fatto bene.

Per qualche impressione un po’ più articolata, vi indirizzo volentieri qui.

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Concluderei con un ringraziamento un po’ ridicolo. Vorrei ringraziare i libri che sono riuscita a leggere quest’anno – pure quelli brutti o deludenti – per avermi accompagnata per un pezzo di strada. Neanche il 2021 è stato un anno semplice o particolarmente ricco di speranze provenienti dal mondo esterno e poter costruire, leggendo, un rifugio o un’oasi di sano svago ha rappresentato per me un buon punto fermo. Pochi o tanti che siano, i libri che ho letto o ascoltato – e qua nei preferiti ce ne sono diversi che ho ascoltato, da Circe a Il mare non bagna Napoli, ma anche Giulia Caminito – sono stati un puntello e un posto diverso dove far lavorare il cervello. Pochi o tanti che siano, è andata bene così.

Ulteriori rotte per la navigazione:
– siete in ritardo coi regali ma volete fare dei regali “letterari”? Vi lascio un memo per Storytel. Ci sono un casino di gift card e qua c’è sempre il mese gratis che vi donano perché siamo amici.
– a parte Instagram, anche qua nella vetrina Amazon cerco sempre di tenere traccia di quello che leggo man mano.
la lista di Natale “generale”.
la lista di Natale per i piccoli e le piccole.

Tanti libri ci arrivano come oggetti compiuti, stabili e “chiusi”, altri sono deliberatamente costruiti per mostrarci cosa succede quando si cambia idea strada facendo, per motivi che spesso sfuggono alla volontà e andrebbero classificati come cause di forza maggiore. Certo, anche renderci partecipi dei movimenti che il burattinaio compie per mettere in scena la sua versione della realtà inseriscono un indubbio livello d’artificio, ma prendiamo per buone le premesse. Nel caso specifico di Carrère, poi, al filtro che la scrittura impone inevitabilmente a qualsiasi fatto che si scelga di trasportare sulla pagine (anche il più assodato e inequivocabile) si aggiunge un ulteriore domandone: ma fino a che punto sarà vero? Ma è poi così importante che lo sia?

[Per approfondire un po’ di traversie personali che sconfinano nel romanzesco – o in quello che viene dichiarato come romanzesco ma poi chissà – vi rimando a questo articolo].

La veridicità e l’aderenza autobiografica, secondo me, in Carrère riescono ad essere allo stesso tempo questioni centrali e del tutto marginali. Credo capiti perché sono balle eccellenti – se propendiamo in toto per il partito delle balle – o perché anche lui, scrivendo, si inserisce nell’artificio e ne parla con quel candore tra il misterioso e il reticente di chi ti sta fregando perché, forse, anche lui ha bisogno di rifugiarsi in quella versione lì della storia. Insomma, ce la racconta… ma probabilmente se la racconta anche. E ci ritroviamo sulla stessa barca.
Si ritorna anche un po’ all’idea di partenza: i fatti saranno anche fatti, ma il mero atto di raccontarli ne restituirà inevitabilmente una versione che passa per il ricordo, per uno stato emotivo che comprende chi eravamo quando una cosa ci è successa e chi siamo diventati mentre la rievochiamo. Se c’è un posto dove saremo sempre candidamente disonesti, deliberatamente infedeli o un misto dei due estremi forse è proprio quello della memoria.

Ma insomma, di che parla Yoga?
Parla di uno scrittore che pratica yoga, meditazione e tai chi da tanti anni e che si accinge a partecipare a un ritiro “intensivo”, durante un periodo felice della sua vita. Gli sembra di essersi avvicinato a quello stato di “meraviglia e serenità” che tiene a bada sia gli autosabotaggi che l’impulso a dubitare che la pace raggiunta sia fragile e transitoria. A coronamento di questo cammino, vorrebbe scrivere un libro sullo yoga per condividere la bellezza di quest’armonia tra corpo e mente anche con il lettore più svagato, a cui di solito toccano solo manuali raffazzonati di self-help che tendono a buttarla in ginnastica pura o in scemenze pseudospirituali da guru del supermercato.
Quel libro lì, quello rassicurante e luminoso sullo yoga, non è questo libro.

Yoga parla di yoga, ma parla soprattutto del perché Carrère non sia riuscito a rispettare gli intenti iniziali. Si passa da Charlie Hebdo e una diagnosi psichiatrica, transitando anche per un campo che “ospita” rifugiati, spesso giovanissimi, su un’isola greca. Si parla di una mente che si disgrega all’apice di un momento che pareva felice e sicuro e del pantano buio che ne consegue. È soprattutto un libro che parla di lacune, perché tanti sono i vuoti che ci separano da quello che vorremmo essere. È come se anche questo resoconto – dichiaramente non accurato – abbia subito una lunga sequela di elettroshock.

Insomma, a parte quello che “succede” nella testa del Carrère che incontriamo sulla pagina – un viaggio che già si rivela ricchissimo e terribile -, quel che ci rimane davvero è una forma di meditazione. È il riflesso deformato di un lungo e lentissimo movimento verso l’unico obiettivo che forse tutti quanti condividiamo: stare un po’ meglio di come stiamo, pian piano. Sbagliando. Sprecando calma, demolendo involontariamente porti sicuri. E raccontandoci le palle che servono.

saluto al sole

MADRE è una donna all’avanguardia. Quando le altre insegnanti di educazione fisica si sentivano super avanti a invitare a scuola gli istruttori di rugby, MADRE aveva il corso pomeridiano di yoga. Negli anni Novanta. Negli anni Novanta a fare yoga c’erano solo le alunne di MADRE, Wes Anderson e Linda Evangelista. Nemmeno quella scopa platinata di Gwyneth Paltrow c’era già arrivata, altroché Goop e vaporizzatori vaginali agli ioni d’argilla salata.
Comunque.
Ho fatto la mia prima lezione di yoga nella gloriosa palestra del liceo Colombini, da infiltrata. Facevo le medie, ma MADRE amava utilizzarmi come piccola cavia. Fare yoga in compagnia di venticinque adolescenti ridacchianti non fu semplice e, in tutta franchezza, dell’esperienza non ho quasi memoria. Mi ricordo che c’era dell’imbarazzo e che le tizie badavano di più a come si mettevano le vicine che a quello che dovevano fare loro. Vedendo, poi, che ero una bambina troppo irruenta per salutare il sole e stiracchiarmi su un tappetino, la famiglia decise che conveniva farmi continuare a ricorrere pallette e spedirmi in montagna a sciare tutti i weekend. Che almeno mi stancavo e la sera dormivo.
Qualche tempo fa, però, le ragazze dell’ufficio hanno deciso di buttare in piedi un corso di yoga. C’è l’insegnante che viene al mattino, ci mettiamo giù in sala CONFERENCE e facciamo quello che dobbiamo fare. Più comodo di così. Travolta da un’ondata di sconsiderato entusiasmo, ho aderito all’esperimento.
La mia amica Flavia – dopo aver specificato che lavoro in un posto bellissimo e che, da lei, nessuno si sognerebbe mai di organizzare delle lezioni di yoga – mi ha subito chiesto come intendevo risolvere il problema della doccia a fine lezione.
La doccia?
Ma che è.
Si suda a fare yoga?
Si suda a giocare due ore a tennis, mica a fare yoga.
Flavia, di che stai parlando.
Fottendomene allegramente della doccia, ho srotolato un discutibile tappetino rosa acquistato al Decathlon a due euro e settantanove dalla Manuela in un momento di generosità e mi sono apprestata ad obbedire ciecamente alle istruzioni dell’insegnante.
Ho scoperto che lo yoga è assai piacevole.
Ho imparato a rilassare pezzi di me che manco sapevo di avere.
Ho salutato il sole.
Ho fatto il mini-cobra.
Ho amato molto la posizione del bambino, che la maestra ci ha esortato ad utilizzare in caso di bisogno in qualsiasi momento della giornata. E ho immaginato quanto sarebbe bello distendere le braccia e appoggiare la fronte sul pavimento ogni volta che suona il telefono. Ma così, in tranquillità. In mezzo alla vita che scorre.
Ho capito che conviene vestirsi un po’ pesanti, che quando passi un quarto d’ora in terra a trasformarti gradualmente in un sacco di patate del tutto inerte ma completamente pacifico ti viene un freddo boia.
Mi sono resa conto che due euro e settantanove sono troppo pochi per un tappetino come si deve. Devi puntare le mani e tirare su il sedere, puntellandoti coi piedi? Il tappetino sguiscerà via in ogni direzione. I tuoi arti perderanno aderenza. E tu, se non t’impegni un casino, perderai i denti davanti.
E niente.
La mia incapacità di abbracciare con sufficiente spontaneità filosofie di qualunque genere non mi ha impedito di difendermi dignitosamente. C’è chi combatte per un sano equilibrio tra corpo e mente ma, per due lezioni, si può anche viaggiare su uno 0% di spiritualità e su un 100% di articolazioni, arrivando addirittura a sperimentare la breve ma corroborante illusione di essere più tonica e saggia.
Poi, però, mi sono resa conto che nulla di veramente benefico può accaderti prima delle 10 della mattina.
Lo yoga dovrebbe restituirti la pace, insegnarti ad ascoltare il tuo corpo e il tuo respiro e a controllare la tua mente con la serafica tranquillità di un albero santo di ginkgo biloba.
Il problema è che la mia mente e il mio corpo si sono già fatti sentire. Il mio corpo e la mia mente, alle otto del mattino, non vogliono salutare proprio nessuno, figuriamoci il sole. Il mio corpo e la mia mente, alle otto del mattino, sono già pienamente in contatto con la serenità dell’universo. E riescono a farlo grazie a un antichissimo metodo di rilassamento: il sonno.
Le cose dovrebbero funzionare così.

BENESSERE CORPO/MENTE ALLE ORE 8.00 = 5/10
*LEZIONE DI YOGA (GINKGO BILOBA, VIENI A ME!)*
BENESSERE MATTUTINO ALLE ORE 9.30 = 10/10

Peccato che, a me, il suono della sveglia prima delle 8.30 generi un trauma pari ad almeno -100 Punti Benessere. E, con -100 Punti Benessere, precipito immancabilmente in una fossa di Agonia da cui difficilmente sarà possibile riemergere grazie al volenteroso +5 che una lezione di yoga potrà ragionevolmente sprigionare.
Ma non solo.
Il crepaccio dell’Agonia ha effetti estesissimi. Nel mio caso, il crepaccio dell’Agonia riesce addirittura a danneggiare la florida muscolatura e la travolgente elasticità dei legamenti di cui normalmente dispongo, trasformandomi a tutti gli effetti in una specie di GOLEM narcolettico che traballa su un tappetino rosa con un ciuffo a forma di ananas in testa.
E tra un GOLEM e il sacro ginkgo biloba c’è una differenza a dir poco poderosa. La distanza golem-gingko, per quanto mi sia sforzata di raccontarmi delle confortanti menzogne, non potrà mai essere colmata nelle fascia oraria 8.00-9.30 antimeridiane. A me piace fare yoga. Lo trovo meraviglioso. Ma di sera, magari. Al tramonto. Al crepuscolo. All’imbrunire. Dopo aver finalmente smaltito le difficoltà della giornata e aver ritrovato fiducia nell’avvenire.
Ho fatto solo due lezioni mattutine, ma credo di aver cominciato ad ascoltare il mio corpo e la mia mente in maniera assai proficua.
E sapete che cosa mi hanno detto?

MA ANCHE NO.

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