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Sono arrivata alla conclusione che le feste di compleanno sono necessarie perché solo buttando in piedi una gran caciara si riesce vagamente a seppellire la tristezza fisiologica che ti assale quel giorno lì. Amici, parenti, congiunti, figuranti stipendiati o anche solo semplici anziani che osservano le celebrazioni in corso. Torte giganti. Canzoni. Bevande alcoliche. Doni, pacchetti, regali, roba nuova. Plateali dimostrazioni di gioia, parate, Frecce Tricolori. Beyoncé.
Io lo so che dovrei mettere in pratica questa strategia. Ci penso tutti gli anni – o, almeno da quando ho smesso di compierli volentieri. Ma poi non lo faccio mai. Ma no, ormai è tardi per invitare. Ma no, non c’è abbastanza spazio. Ma no, non ho preparato niente. Ma no, che con Cesare in mezzo alla confusione facciamo fatica. Ma no, mettono pioggia.

Quand’è che ho smesso di compiere gli anni volentieri, però?

Dopo i 25, credo.
Che per me è anche stato un po’ il momento in cui mi è sembrato di non avere più di fronte un futuro fatto ancora di potenzialità vaste e assolute, ma una sorta di destino già parzialmente scritto. Ma non perché ci sia, chissà dove, una qualche divinità che trascorre le sue giornate a tessere il fato di ogni singolo essere umano del pianeta. Ma perché col passare del tempo accumuliamo scelte e decisioni che, a cascata, producono delle conseguenze più o meno ragionevoli, auspicabili o prevedibili. E che ci fanno avanzare in una certa direzione, sbarrandoci altre strade.

Cresci – se sei fortunata e magari già un po’ propensa a fottertene dei ruoli che l’universo potrebbe appiccicarti addosso – con l’idea di poter fare quel che ti pare, di poter diventare tutto. E, visto che nel TUTTO c’è tutto, c’è anche quello che vorresti essere, ci sono i tuoi desideri. Per forza. Magari non ti sono ancora chiari, questi desideri, ma sai di avere a disposizione un ventaglio di aspirazioni. E il cosa sei, prima o poi, ti apparirà. E sarà lì a portata di mano.

Ecco.

Il tempo che passa, però, fa cambiare forma al tuo ventaglio. Lo modifica.
Magari diventi più capace di distinguere i tuoi talenti dalla roba che ti riesce malissimo. E ripieghi uno spicchio, accantonando qualcosa. Magari sai già che una certa facoltà universitaria sarebbe favolosa per te, ma poi tuo cugino ti ride in faccia alla cena di Natale e ti viene da cambiare idea. E ti iscrivi da un’altra parte, perché è una facoltà “utile”. Nessuno ride più, questa volta, ma ripieghi un altro spicchio. Magari ci metti un qualche anno a identificare le tue aspirazioni. Ed esplori qualche spicchio per accertarti della sua solidità o per accantonarlo con più sicurezza. Ti piace un tizio e state molto bene insieme. Ma lui è lontano e non si può spostare. E tu hai appena iniziato un nuovo lavoro e nemmeno a te pare di poter cambiare città. E salutiamo un altro spicchio.

Mamma mia, leggere 4321. Che toccasana.
Comunque.

Non è detto che ripiegare spicchi sia un male. Di tante cose è meglio liberarsi. Ed è anche molto complicato trascorrere la vita dribblando decisioni, per la paura di ritrovarsi con un ventaglio chiuso in mano. Ma accorgersi, a un certo punto, che fare retromarcia è difficoltoso e che la quantità di spicchi che possiamo giocarci è diventata un pochino meno fantasmagorica non è rassicurantissimo. Ti viene in mente che forse hai sbagliato. Che era troppo presto o troppo tardi. Che hai sprecato delle opportunità. Che non sei mai dove dovresti essere. Che sei troppo grande per cambiare idea. E il futuro comincia a somigliare a un puntino, invece che a un vasto orizzonte illuminato da un sole sfavillante. E l’unica differenza che percepisci è che hai un anno in più, ma di miracoli non ne hai combinati. E non sei molto fiduciosa sulla possibilità di combinarne in futuro, visto l’andazzo.

Perché, SI SA, è il futuro a fare ansia.
E il passato? Quello è il magazzino per la roba di cui ci rimproveriamo.
E il presente serve a pensare alle stronzate del passato e ad attendere che il futuro ci riservi dei miglioramenti.

Credo di aver preso una nuova decisione: mi sono rotta le balle di questo schema. Sarà che, per quanto malvolentieri io compia gli anni, gli ultimi anni che ho compiuto mi hanno dato ben poche occasioni di rimpianto, recriminazione e ripensamento. Sarà che ho imparato molto più di quello che ho perso per strada, per quanto faticosi siano stati alcuni momenti. Sarà che mi sento immancabilmente sostenuta dagli abitanti grandi e piccoli di questa casa – e anche da chi, superando filtri più o meno accentuati, riesce comunque a farmi arrivare numerosi buffettini di incoraggiamento.
Forse il nocciolo della questione non è tanto il tempo che passa, ma un po’ come lo misuri e come scegli di percepirlo.
Perché è pacifico che in un anno ci siano 365 giorni, ma quello che mi viene da prendere in considerazione – quando ripenso a quello che ho combinato – è il dov’ero e il cosa facevo, o le persone che vedevo in un determinato periodo, o quanto mi sentissi saggia o scema. Preferisco pensarmi a capitoli, che per precise demarcazioni temporali. Preferisco misurare i traguardi o prendere atto delle battute d’arresto che sentirmi “vecchia” o “giovane”. E credo sia meglio investire le mie energie nel decidere qualcosa con il cuore e con la testa – accettando l’imponderabile ma provando a fare tutto il possibile per ottimizzare le risorse che abbiamo disposizione – che spaventarmi per i ventagli che si ripiegano.
Perché tutto è migliorabile, tutto potrebbe essere fatto “meglio” o andare meglio – ovviamente. Si può sempre ambire ad essere un po’ più felici. Ma se devo farmi schiacciare da questa sensazione di non essere ancora riuscita a fare abbastanza, se devo perennemente proiettarmi verso chissà che cosa, partirò sempre da più lontano. Perché non ci sarà mai un presente che sento di padroneggiare, un momento “vivo” in cui potrò decidere di iniziare a cambiare (in meglio) quello che penso di dover cambiare.
È un po’ una forma di auto-deresponsabilizzazione, forse, questo spostare sempre tutto sul futuro. Come se il trascorrere del tempo fosse una garanzia di successo. Il tempo non ci calcola. Non è buono. Non è malevolo. Fa il suo. E siamo noi a raccoglierne e a portarne i segni, nel bene e nel male. E temo tocchi un po’ a noi capire che nessuno farà il lavoro necessario al posto nostro. O che il bello che ci stiamo perdendo – nel nome di un “migliore” ipotetico che non è detto che apparirà mai – non tornerà a farci visita. Non con la meraviglia della prima volta, almeno.

E niente, ho 33 anni.
E non ho ancora trovato il modo di ricordarmi com’è che si compiono volentieri.
E ho un ventaglio che è quello che è, perché è lo specchio di un viaggio fatto di tante decisioni, felicità, cretinate, miracoli, sciatterie, scoperte e tentativi. È roba mia. Forse è pure a pois. Non so cosa ne sarà degli spicchi che posso ancora scegliere di esplorare – ma ho deciso di cominciare a usarlo strada facendo, proprio nel modo in cui un ventaglio andrebbe sensatamente utilizzato. Farò quello che posso e proverò ad avvicinarmi a quello che non posso fare. E, nel frattempo, col ventaglio mi ci voglio sventolare.

Tutte le volte che un nuovo serial-killer sconvolge il sereno tran tran della provincia italiana, la prima cosa che Studio Aperto sente la necessità di specificare è che l’assassino in questione era un solitario.

Salutava sempre, ma era uno che si faceva i fatti suoi.
No, non lo conoscevamo bene, non dava confidenza.
Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma chi può dirlo… non era tanto di compagnia.

Ma mica è solo Studio Aperto. La solitudine è quasi sempre motivo di sospetto o di inquietudine, ha quasi immancabilmente un’accezione negativa, almeno in parte.
Uno magari non si presenta con una teglia di lasagne alla porta di ogni condomino quando decide di traslocare in un palazzo nuovo, o non sta venti minuti a chiacchierare col portinaio ogni mattina, o non t’attacca bottone mentre butti la spazzatura… e allora è un solitario. Uno un po’ strano, pure.
Chissà.
Non è detto, però, che tutti i solitari siano dei potenziali maniaci omicidi. O degli stronzi che non hanno voglia di ricambiare le nostre esuberanti profferte di amicizia. C’è chi è propenso ad esternare con più semplicità i suoi sentimenti e chi, semplicemente, non ha troppa voglia di stazionare per ore sullo zerbino della signora Piera a farsi raccontare quotidianamente cosa c’era di buono al mercato.
Chi ha torto?
Chi ha ragione?
Nessuno. La gente funziona come vuole, per fortuna.

Sia nei rapporti interpersonali che nelle numerose opere di finzione cinematografico-letterarie in cui possiamo imbatterci, poi, quando qualcuno confessa di sentirsi solo si verifica sempre un certo cataclisma. Il “mi sento solo” è una specie di punto di svolta, o una giustificazione per tutti i comportamenti bizzarri ed estremi che abbiamo potuto osservare in passato. E il grido d’aiuto, per noi che guardiamo o per noi che ci troviamo davanti un amico che ce lo dice, è una sorta di schiaffo. È quasi peggio che sentirsi dire “sono triste”. Perché un “mi sento solo” ti consegna quasi una responsabilità – siamo qui insieme, ci conosciamo… e quindi anche tu hai contribuito, con la tua assenza o la tua noncuranza nei miei confronti, a questa situazione di solitudine che mi sta facendo patire.

Lasciando però perdere le solitudini “estreme” – quelle che ci scegliamo da soli (vedi eremo sui monti) o quelle che, in qualche modo, il resto del mondo ci impone – e rinunciando in partenza a tracciare una soglia di accettabilità della solitudine – perché che ne so, insomma, di qual è il grado di tolleranza altrui? – credo che una specie di “solitudine di fondo” non possa non esistere. Forse non è neanche una solitudine, è più una condizione che non possiamo scacciare perché ci appartiene e connota la nostra esistenza come esseri singoli – per quanto sociali.
È più un rimanere da soli con noi stessi – che sembra facile, visto che siamo le persone che conosciamo da più tempo, ma mica va sempre tutto bene.

Quanto ci vuole per imparare a sopportarsi? Un bel po’, forse.
Il procedimento è piacevole? Ma figuriamoci.
Sarà un successo assicurato? Macché.

Esempio concreto, che poi va a finire da qualche parte – prometto.

Quand’ero più piccola ero molto pessimista. Una specie di Giacomo Leopardi, ma senza nessun particolare talento letterario o guai fisici eccessivamente invalidanti, a parte un culo grosso come un camper – che non ero assolutamente pronta ad accettare e ancor meno sapevo amministrare. Comunque, le mie compagne di scuola trovavano assolutamente indispensabile avere SEMPRE un fidanzato. Ma anche se stavano con uno che le trattava di merda, per dire, loro dovevano per forza mollarlo solo quando erano certe di poter passare al successivo senza prendere una fregatura. Perché avere il fidanzato era comunque meglio.
Io ammiravo la loro abnegazione e, nonostante qualche ragazzo ce l’avessi avuto anch’io, mi sembrava comunque assurdo che non condividessero la mia tetrissima visione dell’universo: siamo soli, siamo tutti soli, la situazione standard è essere da soli, non avere il fidanzato. Il fidanzato è una specie di bonus, una parentesi temporale di lunghezza indefinita che si innesta come condizione “speciale” sulla normalità dell’essere soli.

Che allegria, eh?
Una gioia che neanche il Titanic che affonda.
Un raggio di sole in un mattino di maggio.
Secchielli di pulcini.

selina

Col passare del tempo mi sono un po’ ripigliata. E il “SIAMO SOLI SIAMO TUTTI SOLI” si è evoluto in qualcosa di meno drastico.
Continuo comunque a pensare che gli amori veri, le cose strabiliantissime della vita e i legami che ci cambiano per sempre siano roba distribuita tipo zucchero a velo sulla superficie del pianeta e che se ti va bene una spolverata te la prendi pure tu – ma non è detto che succeda e non è detto che ciascuno di noi finirà spolverato dalla gioia – ma, crescendo, mi è sembrato di aver ricevuto più spolverate nei momenti in cui me la sapevo cavare meglio anche per conto mio.
Quand’ero contenta ed ero capace di tollerarmi un po’ di più.
Quando facevo le cose pensando che l’importante era che funzionassero per me.
Quando non dovevo dimostrare niente perché per me era sufficiente così.
Le cose “giuste” succedevano quand’ero in pace. Quand’ero felice da sola, più o meno.

Potrebbe sembrare una strategia di abbassamento delle aspettative nei confronti dell’universo allo scopo di rimanerci meno male e di gestire le delusioni con un “massì, in fondo mica ci credevo davvero” – anche detto Teorema della Volpe e dell’Uva -, ma rimango convinta che la felicità non sia una responsabilità che possiamo appioppare a qualcun altro. Gli altri possono renderci più felici, possono farci scoprire modi diversi di essere felici, ma non sta a loro sobbarcarsi tutto il lavoro. Non è una faccenda delegabile, le fondamenta sono affar nostro.
È un po’ come mettersi a gridare “Nessuno mi capisce!”, quando non capisci neanche tu cos’è di preciso che gli altri dovrebbero capire.
E il capirsi, secondo me, è anche una questione di solitudine. Non esclusivamente – perché è anche grazie agli altri esseri umani che riusciamo a inquadrarci un po’ meglio e a vedere che ci succede quando ci accadono le cose più disparate -, ma molto di quello che impariamo deriva da come digeriamo quello che ci capita. Da quello che ci viene in mente quando ripensiamo a una scelta, a una sfiga, a un momento felice. Da come un problema o una soluzione diventa parte di noi. Perché, nonostante il sostegno che possiamo ricevere dagli altri se proprio siamo già stati molto fortunati o bravi a tenerci strette le persone che ci migliorano l’esistenza, la testa che appoggiamo sul cuscino, quando finisce la giornata, è comunque la nostra, indipendentemente da chi abbiamo di fianco – sempre che di fianco ci sia qualcuno. E i pensieri che ronzano quando chiudiamo gli occhi non sono gestibili da nessun altro. Sono nostri, siamo noi che ce la dobbiamo sbrigare.
Da soli.
E più siamo abituati a gestirci, a conoscerci, a non farci troppo schifo, a starci un po’ simpatici, a chiarire i nostri limiti, ad autocensurarci quando serve, a darci occasionalmente degli imbecilli e a riconoscerci dei meriti quando ci vuole, ecco, più siamo capaci di gestire questa roba – che è lo stare in compagnia di noi stessi, una forma inevitabile di solitudine – meglio ce la caveremo, credo.
E non è che non avremo mai più bisogno degli altri, ma ne avremo bisogno perché ci fanno più felici, non perché aspettiamo che ci definiscano o che ci mettano in mano una bussola per capire da che parte dobbiamo andare. Perché non è a loro che spetta deciderlo. Non sono loro che devono dirci come funzioniamo o come possiamo funzionare meglio.

E dopo tutto questo lavoraccio infame riceveremo necessariamente la nostra spolverata?
Non è detto, per niente.
Ma, anche se da soli e privi di zucchero a velo, rimarremo comunque in compagnia di qualcuno che abbiamo imparato – più o meno faticosamente – ad apprezzare. E non è una conquista da poco.

Non so se si capirà, ma proviamo.
Il tempo è una gran fregatura, ma ha anche un valore inestimabile. E, a ben 32 anni, faccio molta fatica a ricordare un momento in cui ho effettivamente avuto del tempo.
Di certo sto esagerando, ma mi è sempre sembrato di avere, più che altro, dei pezzi di giornata da amministrare. Dei ritagli un po’ approssimativi da rimediare in mezzo a tutto quello che ci si aspettava che facessi, studiassi o producessi.
È da quando sono piccolissima che mi dicono che non ho costanza, che non sono abbastanza tenace, che non mi impegno a sufficienza. La verità è che l’impegno massimo l’ho sempre buttato tutto nel creare del tempo che mi regalasse la possibilità di scegliere. E di capire che cos’ero, in qualche modo. Che cosa potevo diventare, coltivando quello che pensavo potesse darmi un significato, un posto.
In pratica, però, non ho mai smesso di fare, studiare o produrre quello che ci si aspettava da me.
Molto di quello che mi sembrava importante, molto di me come mi conosco adesso, cominciava semplicemente dopo – quando il tempo “normale” esauriva il suo spazio sull’agenda. Io c’ero, prima o poi. Ma nei margini di quello che bisognava fare. Per parecchio sono riuscita a definirmi solo per differenza. Questo non mi appartiene. Questo non mi piace. Questo non c’entra niente. Questo no. L’epoca dell’università è stata quella dei più o meno. Poi ho respirato. E sono stata fortunata, nei limiti della fortuna che può aspettarsi una persona che comincia a lavorare nel 2009.
Non credo che mi sia successo niente di particolarmente speciale o rivoluzionario. Tutta questa roba si chiama crescere, alla fin fine. E l’aspetto più bello è scoprire che esiste un margine di manovra. Che le cose che detesti o quelle che ti azzoppano si possono modificare. Che gli unici timori che devi prendere in considerazione sono i tuoi. Che il tempo può smettere di procedere su due linee parallele, perché controllarlo diventa più plausibile.

Ho fatto, per anni, un lavoro che mi rendeva orgogliosissima. Poi è arrivato il momento di cambiare e ne ho fatto un altro che mi ha insegnato moltissimo, ma che mi ha quasi rimbambita. E poi è nato Cesare, evento che ha introdotto un paradosso piuttosto interessante. Perché l’epoca che – per eccellenza – determina la fine inevitabile del tuo tempo, per me ha rappresentato una specie di espansione delle possibilità. E un ripensamento della mia concezione di “cos’è importante”. Ma non perché ODDIO I FIGLI CI DANNO UNA RAGIONE PER VIVERE, perché io avevo trovato il modo di sentirmi molto felice e realizzata anche da nullipara, vi dirò – ma perché quando qualcuno dipende completamente da te devi diventare molto coraggiosa. E tutto quello che mi intimoriva ha smesso di farmi paura.

Ho sempre detestato la prospettiva di deludere il prossimo. Di dimostrarmi un cattivo investimento. Di non essere all’altezza delle aspettative.
Ma non sempre.
Perché, sebbene questi dubbi fossero una costante nel mio tempo “normale”, erano anche zavorre che sparivano quando arrivavo finalmente a occupare il mio tempo. Ma non per malriposti deliri di onnipotenza – tutta questa struttura ha una sua patologica razionalità, mi pare -, ma perché chi sa che cosa è meglio per noi siamo noi, ad un certo punto. E a volte ci scopriamo capaci di cose che non avremmo mai immaginato di poter fare.
Con Cesare ho tirato fuori risorse che non credevo di possedere. E non perché abbiamo deciso di riprodurci con la convinzione che la nostra vita non sarebbe cambiata – però, si va meno al cinema e non si va più a ballare. MA VA? -, ma perché capitano gioie, accidenti, disastri e luminosi momenti di felicità che, semplicemente, non è possibile immaginare prima. Non è una scoperta da ridurre all’argomentazione imbecille del TU CHE NON HAI FIGLI NON PUOI CAPIRE. È più una questione di superamento, da parte di una realtà piuttosto enorme e ramificata, delle tue capacità di previsione e di gestione dell’imponderabile.
Puoi sentire quello che ti raccontano gli altri e puoi costruirti accurati scenari, ma è difficile sapere con certezza com’è che la prenderai per davvero. Così come non si immagina bene la fatica. O da dove provenga l’energia che torna a soccorrerti quando pensavi di non starci più dentro. O la fonte misteriosa della pazienza che persevera nel sostenerti anche al quarto cucchiaino di cremina alla tapioca che finisce in terra, in microparticelle vaporizzate.

Non ho idea di come sia capitato, insomma, ma sono diventata molto più forte. E molto meno incline a pensare che il tempo che ho a disposizione possa continuare a dipendere dalle decisioni o dalle influenze di qualcun altro. Perché non tutte le cose hanno la stessa importanza. Non tutte le relazioni riescono a farci somigliare un pochino di più a quello che vorremmo essere. Non tutti i lavori ci rendono fieri di quello che stiamo facendo, o ci garantiscono uno scambio dignitoso tra quello che diamo e quello che riceviamo. Non tutto quello a cui ci dedichiamo o tutti i rapporti che coltiviamo sono tempo nostro.
Non voglio più avere bisogno di distinguerli, i due tempi.
Voglio che rimanga solo il mio.
Non voglio provare quella stanchezza devastante – mista a voglia di mettermi a letto e di rimanerci per cent’anni – che ti schiaccia quando fai malvolentieri e con grande macchinosità qualcosa che non ti appartiene e che, alla fin fine, neanche ti interessa. Voglio avere la possibilità di esserci – senza dover chiedere il permesso a nessuno – se ci sarà bisogno di me. Voglio che Cesare cresca sapendo che ci ha spalancato un vasto e inesploratissimo orizzonte di felicità – e che questa lucina molto brillante mi ha fatto venire voglia di migliorare anche il resto. Mi ha fatto vedere quello che c’era già, forse, ma che avevo paura di fare. Perché cambiare è difficile, è rischioso, ci espone al fallimento e alle cantonate. Ma, certe volte, ci salva. E trasforma tutto il nostro tempo in una specie di regalo, in un contenitore da riempire con quello che conta davvero. 
Andrà bene?
Chissà.
Ma ci proviamo.
Perché il coraggio non manca più.

 

Siete giunti fin qui con la certezza di trovare grandiosi annunci e cambiamenti radicali? Il felice completamento di progetti millenari? Vite che svoltano e poderosi capitoli che si chiudono? Costanza, caparbietà e il raggiungimento di obiettivi ambiziosi?

Bride Kill Bill

Peccato.
Là fuori ci sarà sicuramente qualcuno che saprà darvi la soddisfazione che meritate. Gente che si allena per due anni per poter scalare l’Annapurna senza bombole. Giovani che comprano un pezzo di terra e ci costruiscono sopra una casa con le loro mani. Storie INSPIRESCIONAL di imprenditrici coraggiose che dopo anni a pane e cipolle sono riuscite a trovare il modo di campare vendendo braccialetti di canapa intrecciata.
Qua no, desolata. Niente.
Ma procediamo con ordine.

Elle Driver walk

Ci sono lingue interessanti che riescono ad esprimere con un’unica parola un concetto complesso e articolato. Per dire, se vi comprate sempre tantissimi libri ma poi finisce che non li leggete ma vi piace comunque accumularne delle tonnellate e vi viene un po’ d’ansia ma non riuscite lo stesso a farne a meno e molto presto sarete costretti a traslocare perché in casa non ci state più però insomma siete felici ed è questo quello che conta, ECCO, in giapponese c’è un preciso termine che descrive sinteticamente il fenomeno. Anche le lingue scandinave riescono a fare magie di questo genere – specializzandosi, di solito, in concetti teneri. La felicità che si prova bevendo una cioccolata calda dopo una camminata di tre ore sotto a una bufera di neve >>> vocabolo norvegese precisissimo. L’odore di buono che i neonati lasciano sulle copertine che li avvolgono >>> vocabolo danese super sintetico. La tipologia molto caratteristica di sonno tombale ma piacevole che ti assale dopo un pranzo festivo >>> vocabolo finlandese di rara efficacia.
Bene.

Elle Driver pretty cool

L’italiano ha tante belle qualità, ma non la gloriosa capacità di conglomerare vasti ragionamenti, concentrandoli in una sola parola. Io, ad esempio, oggi vorrei parlare della grande soddisfazione che ricavo dal finire un flacone di bagnoschiuma, ma ho delle difficoltà a dirlo in maniera rapida. E comincio a pensare che si tratti di una sorta di fissazione patologica che riguarda solo me, perché se ci trovassimo alle prese con un concetto universale come il rancore, l’allegria, l’invidia o la gioia, probabilmente esisterebbe anche una parola ben definita per descriverlo.

Bride vedi tu

Ma che cos’è che succede, alla fin fine.
L’inconcludenza ci circonda. Viviamo immersi in un perenne vortice monsonico di stimoli eterogenei e di entità differenti – più o meno corporate – che tentano di pungolare la nostra curiosità proponendo di continuo cose da fare, da vedere, da leggere, da comprare, da collezionare e da ascoltare. Uno non è in pace neanche quando lavora, perché per ogni mail a cui rispondi te ne arrivano 12 e, mentre tenti di stabilire un nuovo record di slide create consecutivamente senza nessuno che ti telefoni, arrivano in sei e ti trascinano in riunione – e te sei ancora lì che provi a centrare il titolo.
C’è chi sostiene di riuscire a fare tutto, di avere il tempo e le capacità organizzative necessarie a gestire il binge-watching di intere serie televisive nel giorno esatto dell’uscita, c’è chi torna a casa dall’ufficio alle dieci di sera e in due mesi scrive un romanzo, c’è chi va ai concerti, vede gli amici, dipinge Cappelle Sistine senza vacillare e riesce a fare la spesa andando oltre il minuscolo orizzonte della cena di quella sera lì. C’è chi, in sintesi, va a letto con la consapevolezza di aver fatto, ogni giorno, tutto quello che doveva fare. Di aver chiuso il cerchio. Di non essersi perso niente.
E poi ci sono io, che osservo i cestoni del bucato e mi rendo conto che mai e poi mai ne vedrò il fondo. E se mi pare di non poter governare il cestone del bucato, vi lascio immaginare il resto.

Oren silly rabbit

Ecco perché sono così contenta quando finisco il bagnoschiuma. O lo SCIAMPO. O la crema idratante per la faccia. O il mascara. O una confezione di Saccottini all’albicocca. O lo scatolotto delle pastiglie per la lavastoviglie. O il sale grosso. Il sale grosso non finisce mai. Quando riusciamo a finire il sale grosso mi sento come Cristoforo Colombo che mette piede a terra dopo sedici anni di navigazione. Mi sembra di aver portato a termine una grande impresa. Lo zucchero. Lo zucchero che finisce è una specie di miracolo. Un’autentica testimonianza di abnegazione e incrollabile costanza. Se sono riuscita a finire un pacco di zucchero, un cucchiaino alla volta, un caffè alla volta, non ho nulla da temere. Io le torte non le faccio, finire lo zucchero è un evento epocale. Un traguardo nobilissimo. Se riesco a finire lo zucchero, allora posso sperare di finire anche qualcosa di più significativo – prima o poi. Se lo zucchero finisce, anche le altre cose possono finire – almeno in teoria.

pai mei

In un universo dove la lista delle cose da fare non finisce mai è assolutamente necessario scegliere con cura le proprie battaglie – e rendersi conto dei propri limiti, con garbo e razionalità. Il grande romanzo americano. La visione completa delle stagioni “nuove” del Doctor Who – quelle coi dottori fighi. Il lavaggio puntuale dei maglioni invernali a fine stagione. La costruzione di un guardaroba coerente e funzionale. Imparare il giapponese. Capire qualcosa di vino. Una galleria Instagram cromaticamente coerente. Una casa Pinterest. Nulla di tutto questo è possibile. MA ARRIVARE IN FONDO ALLA CONFEZIONE DEL PRIL SÌ. E IO CI GODO TANTISSIMO.

oren happy

Che hai fatto quest’anno, Tegamini?
Bé, dunque…
Io ho seguito una campagna che ha vinto l’oro a Cannes, ho completato il ciclo di epilazione definitiva di gambe, braccia, baffi, inguine (patata inclusa), ho ristrutturato una casa, ho raccolto centomila euro per gli orfani del Korbenienstan, ho letto la quadrilogia della Ferrante in due sere e non mi sono persa una lezione del corso di meditazione. Tu?
…io? Sono arrivata in fondo a un ombretto glitterato di Sephora – ci lavoro dal 2005, su quell’ombretto. Che altro? Ah, già. HO FINITO SEI PACCHI DI TAMPAX VERDI. QUELLI PIÙ GROSSI. E SCUSAMI SE È POCO.

Bride bloody satisfaction