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Cenni rapidissimi per una lettura altrettanto guizzante e curiosa.
Cos’è Souvenir di Rolf Potts – in libreria per il Saggiatore con la traduzione di Camilla Pieretti? Un saggio agile sulla storia e le origini dei souvenir. 

Perché ci piace tornare dai posti che visitiamo con un ricordo tangibile?
Perché spesso non ci accontentiamo di rievocazioni “mentali” e di tutte le foto che scattiamo ma ci imbarchiamo in vere e proprie imprese collezionistiche?
Per chi lo facciamo?
Per chi lo si faceva?

Dalle principesche wunderkammer al Grand Tour – passando per la paccottiglia fatta in serie che infesta ogni località anche vagamente lambita dal turismo -, Potts cerca di spiegarci la valenza narrativa del souvenir all’interno dei nostri disparatissimi percorsi esperienziali – dai primi pellegrinaggi in Terra Santa alla più moderna rincorsa al viaggio come proiezione individuale e performance, come casellina da spuntare o impresa che deve “rendere” e giammai deluderci – o smentire le nostre già ben radicate convinzioni, spesso lontanissime dalla realtà dei fatti e dei luoghi altri.
Insomma, si colleziona per fissare chi siamo stati in un determinato posto e tempo… e per illuderci di avere un punto fermo sulla mappa del mondo, forse. Si raccolgono “feticci” per ricordare – come suggerisce l’etimologia stessa del termine souvenir – e per misurare le distanze fisiche e interiori che abbiamo percorso. Chi finiamo per diventare, una volta fatto ritorno, non è semplicissimo da stabilire, ma è probabile che in valigia ci sia qualcosa che non siamo stati capaci di lasciare dov’era. Volevamo rimanere là anche noi? Può darsi… ma per esprimere quel sentimento abbiamo a disposizione una valanga di # già frequentatissimi.

Un libro che potrebbe fare amicizia con questo?
Fare i bagagli di Susan Harlan.
No, non è un manuale per sfuggire alle policy draconiane delle compagnie low-cost, ma buon viaggio lo stesso.

 

Forse salterà fuori che il nostro unico e autentico pregio è stato quello di aver tenuto i piedi in due epoche, di aver visto arrivare un orizzonte nuovo e di essere stati testimoni di un cambiamento mastodontico, incomparabilmente più grande delle nostre capacità di governarlo o di renderlo un fattore di indubbio e generalizzato progresso. Custodiamo i nostri ricordi con la tenerezza ossessiva e un po’ stucchevole di chi ha lasciato perdere, di chi ha decretato che quel che poteva andare male è già andato male e che mai ci si imbatterà di nuovo in un tempo “facile”, relativamente più prospero e privo di responsabilità come l’infanzia. Quei ricordi ce li teniamo volentieri, insomma, a costo di fare la figura degli stupidi e dei piagnucoloni. Ogni generazione sarà la barzelletta di quella successiva, ma è possibile che la mia – quella dei Millennial – sia l’unica che tende ad accanirsi più volentieri su sé stessa che sulle compagini anagrafiche limitrofe. Abbiamo combattuto strenuamente per il ritorno del Winner Taco e, quando ce lo siamo finalmente potuto ricomprare, ci siamo accorti che era piccolissimo. Ecco, Doveva essere il nostro momento di Eleonora C. Caruso – in libreria per Mondadori – esplora quello spazio di delusione lì, quell’operazione sistematica di ridimensionamento delle aspettative che si scontra col “rimanerci male” lo stesso. Non possiamo farne a meno, perché barcolliamo da sempre su una sabbia mobile fatta di pupazzoni, benesseri promessi e perentori “sforzati, l’impegno verrà ripagato”. Ma quel che c’era a disposizione è rimasto dov’era e noi non abbiamo capito come prendercelo, come farci valere, come farci vedere. E ci incazziamo per il Winner Taco, perché incazzarci a livello “macro” è difficile, se alla coscienza collettiva siamo stati abituati a preferire rarissime punte di straordinarietà individuale che la realtà spazza puntualmente via.

Caruso si appoggia alla struttura “classica” del viaggio per produrre un’avventura ideale che, qua e là, si trasforma con grande naturalezza in una specie di atlantone sociologico che riesce a tenere insieme il confronto generazionale, l’impatto del web su ogni sfera delle nostre relazioni e quella condizione di incertezza traballante e precaria – nel lavoro, nei sentimenti, nel legame con la famiglia d’origine, nella costruzione del futuro, nelle condizioni “materiali” di vita – che ha cessato di scomparire all’affacciarsi dell’età “adulta”. Caruso prende tutto questo magma ribollente di menate, maldestre rivendicazioni, riflessioni sul “ma che abbiamo che non va” e lo colloca in un luogo narrativo capace di trasformarlo in un impianto teorico dotato di coerenza interna, regole e principi. Insomma, fonda una “setta” e la usa come laboratorio.

La setta romanzesca di Caruso dimora in un baglio – una masseria – in rovina nelle campagne del catanese. Ospita una gioventù (più o meno fresca) usurata dal mondo esterno e spremuta o ormai rifiutata dal mondi virtuali. È una capsula del tempo di raro potere evocativo, perché l’idea di base è che il mondo in cui valeva la pena soggiornare è finito nel 2001 e che tutto quello che è arrivato dopo sia maceria, rovina, tabù innominabile. Insomma, gli adepti di Zan – fondatore e responsabile dell’impresa – vivono negli anni Novanta. La moneta corrente delle comunità sono i ciucci di plastica, si guardano i Duck Tales in videocassetta, Cesare Cremonini sgasa sui colli bolognesi, i Tamagotchi pigolano con insistenza per essere nutriti e Pippo Baudo salva un aspirante suicida dalla balconata del teatro Ariston. Chi ha effettivamente vissuto gli anni Novanta è un Ritornato, chi mai ne ha fatto esperienza diretta è un Non Nato – e viene educato di conseguenza. Non sono ammessi smartphone, si comunica con l’esterno per lettera e non ci si connette a un bel niente.
La storia comincia quando Leo, trentaquattrenne che vive a Milano su un divano-letto in una casa che condivide con un numero imprecisato di coinquilini antipatici come la sabbia nelle mutande, parte alla volta della comunità di Zan per recuperare il suo amico Simone, che era andato a visitare quella sorta di utopia anni Novanta con l’intento di tirarci fuori un articolo succoso e auspicabilmente sarcastico. Ma passano i mesi e Simone non torna. Leo si presenta lì con l’intento di fermarsi giusto il tempo necessario a “salvare” il suo amico, ma anche lui finisce per trattenersi e per partecipare alla vita di quel microcosmo disancorato dal presente con un trasporto del tutto inaspettato.
Il libro si biforca qui – da una parte seguiremo quel che succede quando Leo fa effettivamente i bagagli e, dall’altra, scopriremo come è stato il suo soggiorno al baglio. Caruso dosa con grande abilità il racconto del viaggio verso nord e i flashback della “setta”, che si mescolano a tutto quello che è funzionale a farci conoscere meglio i personaggi. Simone un po’ ce lo possiamo dimenticare – è stato un utile pretesto -, perché il suo posto in macchina verrà occupato in maniera inattesa ma fatidica da Clorofrilla – o Cloro, per follower e conoscenti -, celeberrima youtuber dalla chioma rosa caduta quasi irrimediabilmente in disgrazia dopo un pionieristico passato da bambina prodigio. Cloro e Leo appartengono a due generazioni diverse, non si sono quasi mai parlati al baglio e hanno all’apparenza molto poco in comune, a parte un legame più “intenso” della media con Zan. Arriveranno indenni a Milano? Cosa scopriranno lungo la strada? Cosa scopriremo di noi durante il loro accidentato percorso?

Questo romanzo mi ha suscitato una calorosa ammirazione e spero verrà letto tanto e in tutte le sue matte stratificazioni. Lo si può leggere perché ci interessano gli ingarbugli fra i personaggi, lo si può leggere da incattiviti o da romantici, con l’occhio clinico di chi vuole capire il presente e con l’occhio pesto di chi pensa al presente con un disincanto che rasenta il disgusto. Mi sono sentita – a livello “anagrafico” – ritratta con una lucidità rara e trattata al contempo con una severità complessa e ben radicata in una visione consapevole. Diamine, Caruso sa di che parla e rivolta i nostri Pisoloni infeltriti – sempre che qualcuno ce l’abbia mai comprato PERCHÉ IO A SANTA LUCIA L’HO SEMPRE CHIESTO MA NON È ARRIVATO – per fotografare quel che resta di noi e cosa cerchiamo di mascherare con la nostalgia. Il riflesso che inseguiamo è molteplice, perché tantissime sono diventate le superfici riflettenti e le piazze di auto-rappresentazione in cui ci cimentiamo, sperando ci restituiscano rassicurazioni e validazione. È una storia che prova a riedificare i confini di tante identità prive di centro ma disperatamente in cerca di uno scopo, di una promessa in cui credere davvero, su cui ci sentiremo capaci di costruire finalmente qualcosa. 

L’ho tirata in lungo, ma quel che vi serve sapere è che è proprio un bel libro e Caruso scrive come se Zan, Leo e Cloro fossero persone con cui ha appena finito di parlare al telefono. Di tatuaggi brutti, probabilmente. O di chi ha appena sbroccato su Instagram. O di quanto è diventato piccolo il Winner Taco, porca miseria.

 

La saggistica è un universo multiforme in cui torno a intermittenza a rifugiarmi. È un invito ad esercitare la curiosità e un felice calderone sfaccettatissimo in cui ogni più che legittima fissazione può trovare espressione, dimora e spazio per afferrarci. È con questo spirito – e con la solita disposizione avventurosa – che ho accettato ben volentieri l’invito a compilare questa piccola guida di lettura che spero possa ispirarvi a scandagliare il catalogo Aboca, meravigliandovene quanto me – e pure di più, se vi va. Data la deformazione paleontologica della nostra famiglia, il primo incontro con questo editore va fatto risalire a Donald H. Prothero e ai suoi Fossili fantastici, ma non solo di giganti preistorici rocambolescamente riportati alla luce avremo modo di parlare.
Le edizioni Aboca nascono nel 2012 come una sorta di spin-off filosofico rispetto all’impegno produttivo dell’azienda-madre. Nel tempo, oltre a chiarire un preciso posizionamento valoriale, hanno saputo ospitare illustri punti di vista, divulgatori assai autorevoli e voci di spicco che animano con rigore il dibattito scientifico, ambientale e zoologico. Insomma, vocazione divulgativa e ricerca eclettica, pensandoci sempre come partecipanti attivi – e responsabili – alla vita del pianeta che ci ospita.

Cosa troverete qua?
Suggerimenti tematici per approcciarvi al catalogo Aboca e farlo entrare in pianta stabile nei vostri radar.
Procedo!


Animalini

Josef H. Reichholf 
Scoiattoli & Co. – Viaggio nel mondo del roditore più simpatico, veloce e parsimonioso

Vispi abitanti della natura più selvaggia ma anche degli spazi “addomesticati” delle nostre città, gli scoiattoli sono ottimi ambasciatori: li possiamo osservare con relativa frequenza e sono ormai diventati validi rappresentanti della commistione tra ambienti diversi. Oltre a presentarci i roditori che per vari incroci del destino si è trovato ad accudire, Reichholf ci offre, in questo libro, una panoramica accurata (e pure affettuosa) del “funzionamento” e del comportamento dello scoiattolo. Perché sì, sono innegabilmente carini, ma non solo di codine poffose vale la pena occuparsi.

 

Wendy Williams
La vita e i segreti delle farfalle – Scienziati, ladri e collezionisti che hanno inseguito e raccontato l’insetto più bello del mondo

Dall’epica migrazione delle monarca al lavoro pionieristico di Maria Sybilla Merian nel XVII secolo, dall’ossessione per la bellezza ai delicati equilibri dei nostri ecosistemi, Wendy Williams ci introduce al variopinto mondo delle farfalle servendosi efficacemente di una doppia chiave tematica: all’indagine entomologica (cos’è una farfalla, insomma?) si unisce una prospettiva storica fatta di scoperte, collezionisti maniacali, rivalità e titanici scontri teorici. Lepidotteri alla riscossa!

 

Rachel Carson
La vita che brilla sulla riva del mare – Le piante e gli animali che popolano i litorali rocciosi, le spiagge sabbiose e le barriere coralline

Biologa marina e antesignana della riflessione pubblica sull’ambiente, Rachel Carson ci accompagna alla scoperta di un luogo liminale: la costa. Frangia ibrida tra mare e terra, la riva ospita una varietà sorprendente di creature e vegetali che hanno sviluppato strategie uniche di adattamento e sopravvivono spesso in condizioni fragilissime. Quest’edizione – la prima per l’Italia – ospita anche la preziosa introduzione di Margaret Atwood.

 

Susanne Foitzik & Olaf Fritsche
Minimi giganti – La vita segreta delle formiche

Dovendo rispondere ai quesiti incalzantissimi dell’entomologo di casa – che ha cinque anni ma è comunque molto intransigente – non è il primo libro sulle formiche che leggo… ma si è senza dubbio rivelato il più curioso e piacevole. Oltre a renderci partecipi del come si studiano le formiche – tema per niente scontato -, Foitzik e Fritsche ce le presentano innanzitutto come abilissime costruttrici di reti “sociali”: non esiste formica senza una colonia e non esiste colonia che non assegni a ogni insetto un ruolo preciso, vitale al funzionamento complessivo della comunità. Come fanno a comunicare? Coma fanno a sapere, individualmente, cosa ci si aspetta da loro? Perché alcune specie hanno addirittura sviluppato la capacità di coltivare funghi? Ecco qua un buon posto per scoprirlo.


Ragazze sapienti

Due titoli per riavvicinarci al regno dell’umano, entrambi curati da Erika Maderna – che per Aboca si è occupata diffusamente di mitologia botanica e di storia “curativa”, mettendo in primo piano gli antichi saperi custoditi dalle donne in contesti più o meno accoglienti (o propensi a carbonizzarle al rogo).
Per virtù d’erbe e d’incanti e Medichesse riflettono sul ruolo delle donne in medicina, esplorando quel territorio ibrido tra conoscenza erboristica e ritualità, tra consapevolezza profonda delle proprietà “utili” della natura e dominio del magico.
Passando in rassegna piante emblematiche, strutture sociali, pregiudizi pervasivi e figure di spicco – immancabilmente bollate come indemoniate, soggetti devianti o temibili streghe da neutralizzare o ridurre al silenzio -, Maderna restituisce dignità e visibilità a uno spazio di autonomia femminile che per secoli ci ha viste protagoniste, spesso a carissimo prezzo.


Esplorazioni

Telmo Pievani & Mauro Varotto
Viaggio nell’Italia dell’antropocene – La geografia visionaria del nostro futuro

Corredato da mappe meticolosissime che tentano di descrivere un territorio che ancora non c’è – ma che promette di manifestarsi in maniera fin troppo solida -, Viaggio nell’Italia dell’antropocene è un dettagliato what if geografico: che aspetto avrà l’Italia del 2786 (mille anni dopo l’emblematico viaggio di Goethe nel nostro paese), se non faremo nulla per contenere gli effetti dell’attività umana sul clima del pianeta? Tra nuovi deserti, innalzamento delle acque e “zone climatiche” del tutto inedite, Pievani e Varotto immaginano una grande cartolina del nostro avvenire, sperando da un lato che esista ancora una casa dove poterla recapitare e, dall’altro, che ci sia ancora margine per mitigare il panorama ben poco incoraggiante che ci restituisce.

 

Jemma Wadham
Il mondo dove è bianco – Viaggio nelle terre dei ghiacciai tra allarme e stupore

Venticinque anni di ricerca sul campo – in condizioni a dir poco estreme – condensati in un volume che fotografa l’involuzione di una delle risorse più fragili e preziose del pianeta: il ghiaccio. Dalle calotte polari alle vette andine, Wadham sfata la percezione comune del ghiacciaio come massa inerte e “morta” per svelarci le meraviglie di questi ecosistemi impervi ma delicatissimi, vitali per la nostra sopravvivenza e più che mai da capire e, in ultima ma urgente istanza, da preservare.

 

Donald R. Prothero
La storia della vita in 25 fossili – Le meraviglie dell’evoluzione e i suoi intrepidi ricercatori

Siamo propensi a considerare l’evoluzione come un processo efficiente ed esatto, fatto di miglioramenti incrementali che appaiono ordinatamente per garantire a piante e bestie l’efficacia operativa necessaria a sopravvivere. Anche la storia della scienza ci viene di solito dipinta come un susseguirsi di eroiche rivelazioni e intuizioni vincenti… ma come funziona davvero? Prothero – geologo e paleontologo, nonché splendido divulgatore – prova qui a far collidere i punti di svolta evolutivi più rilevanti nel lungo percorso della vita sulla terra con la parabola niente affatto lineare della scoperta. Come? Raccontandoci 25 fossili “esemplari” che hanno rappresentato un bivio fondamentale sia per il mondo naturale che per la nostra capacità di comprenderlo.

 


Verde

Stefano Mancuso
Botanica – Viaggio nell’universo vegetale

A Stefano Mancuso e al suo approccio accessibile e curioso devo molto del mio interesse recente per le piante. Questo volume è lo scheletro di uno spettacolo multimediale nato con lo scopo di raccontarci il mondo vegetale come un’insieme di organismi sorprendentemente consapevoli e “attivi” – uno dei cavalli di battaglia tematici di Mancuso. Le piante comunicano, collaborano, decifrano le condizioni ambientali che le ospitano e si adattano di conseguenza, facendo leva su risorse estrose e sofisticate: un altro tassello accessibilissimo per imparare a considerare il “verde” come creatura viva e come potenziale motore di innovazione.

 

Patrick Roberts
Giungle – Come le foreste tropicali hanno dato forma al mondo e a noi

Troppo intricate per viverci o autentiche protagoniste di ogni era del nostro pianeta? Dalla comparsa dei primi fiori all’influenza che esercitano sull’atmosfera terrestre, le giungle e le foreste della fascia tropicale non sono semplicemente un posto interessante e scenografico dove scovare pennuti variopinti da ammirare nei documentari. Fra storia, botanica e zoologia, Robert si addentra nel fitto della vegetazione per offrirci una visione più completa del ruolo che la fascia tropicale ha esercitato nella traiettoria evolutiva della Terra e del nostro rapporto – non sempre equilibrato e ponderato – con le risorse naturali.

 

Zora del Buono
Vite di alberi straordinari – Viaggio tra le piante più antiche del mondo

Io, degli alberi illustri catalogati qui da Zora del Buono, ho visto solo il Generale Sherman, una sequoia di 2200 anni che supera gli 80 metri d’altezza. Di alberi ragguardevoli, però, al mondo ce ne sono parecchi… e non primeggiano solo per dimensioni. Ci sono vegetali scampati alla bomba atomica, piante-colonia che ridefiniscono il concetto stesso di albero o fronde che persistono dopo aver offerto riparo a regnanti, poeti e pensatori. Questo libro è il risultato di un viaggio lungo un anno – che replicherei assai volentieri – alla scoperta di piante che hanno a loro modo fatto la storia, trasformandosi in simboli di resistenza al tempo e in monumenti al potere rigenerativo della natura.


Aboca Kids

Felice novità? Felice novità: il catalogo Aboca si è recentissimamente arricchito di una collana nuova dedicata ai piccoli lettori e alle piccole lettrici.
Dagli illustrati di grande formato che fungono efficacemente da portabandiera per la categoria degli “atlanti” – come La fantastica avventura dell’evoluzione – ai volumi con una componente di divulgazione più marcatamente narrativa, la natura resta al centro, nelle sue molteplici declinazioni. Che si tratti di capire da dove viene quello che mangiamo – come nella versione per ragazzi del Dilemma dell’onnivoro di Pollan – o come distinguere a colpo sicuro una megattera da un capodoglio, Aboca Kids promette di diventare un ottimo punto di riferimento per assecondare le curiosità zoologico-botaniche delle piccole persone di vostra conoscenza… ma anche un po’ dei grandi – perché i libri ben pensati non conoscono confini anagrafici e l’ecosistema di Aboca è di certo accogliente.

 


Come concludere?
Tenderei a non farlo, invitandovi a esplorare ulteriormente – e seguendo le vostre più spiccate inclinazioni – il catalogo Aboca. Spero che questa lista possa rappresentare un punto di partenza utile e il primo passo per la coltivazione di una biblioteca naturalistica molto vispa e rigogliosa.
🙂

 

Ebbene, quanto tempo è passato dal viaggio a Palermo? Sei mesi? Sei anni? Un’era geologica? Più o meno. Per nostra fortuna, però, non mi attende un compito difficile. Palermo non è una città che si dimentica facilmente e la memoria, quando sfrigola di bellezze raccolte lungo la strada, tende ad assisterci.
Ecco qua, dunque, un piccolo riassunto di quel che abbiamo visto, mangiato, visitato, bevuto.

Grande premessa. La nostra visita ha avuto il pregio di combaciare con il weekend delle Vie dei Tesori, un’iniziativa che ogni anno rende accessibili palazzi, dimore, musei e strutture che normalmente non sono aperti al pubblico – o lo sono con modalità diverse e/o più ridotte. Tanti luoghi di interesse ospitavano anche le installazioni artistiche di Manifesta, la biennale d’arte Europea che nel 2018 ha fatto tappa proprio a Palermo. Il consiglio generale, dunque, è di informarvi bene sulle aperture d’ordinaria amministrazione nel periodo dell’anno da voi prescelto. Si fa un po’ di fatica, lo so, ma si fa più fatica ad arrivare in un posto e trovare chiuso.
Altro consiglio: il ricco itinerario della Palermo arabo-normanna (e dei siti UNESCO) è un altro splendido gomitolo da seguire.

POSTI

Il rifugio antiaereo di Piazza Pretoria
Durante la Seconda Guerra Mondiale i bombardamenti non hanno risparmiato Palermo, anzi. Uno dei rifugi della città era in pieno centro, sotto alla splendida Piazza Pretoria, e si può ancora visitare. Si entra da una specie di anfratto minuscolo nella portineria del palazzo comunale – salutate gli addetti, mi raccomando – e si scende fino al nucleo di gallerie e corridoi, aperti per la prima volta al pubblico solo un paio di anni fa. La visita guidata è, in larga parte, un’operazione narrativa (di grande efficacia e suggestione). Per controllare la disponibilità delle visite, c’è il sito.
Capitan Ovvio vi sconsiglia di imbarcarvi nell’impresa se vi angosciano gli spazi sotterranei/angusti/sigillati.
Capitan Ovvio vi esorta anche a guardare il resto di Piazza Pretoria – anche detta Piazza della Vergogna – e la sua fontana di intricata beltà zoomorfa.

I Quattro Canti
Un incrocio che diventa piazza, tributo alle quattro sante protettrici della città e omaggio esuberante alle stagioni.

Chiesa di San Cataldo
Tre panettoncini rossi sul tetto e un interno dall’austero splendore.

Cattedrale
La magnificenza esterna surclassa il contenuto della Cattedrale (fenomeno che non si registra praticamente mai nel resto dei luoghi di culto palermitani), ma c’è di che consolarsi. Si possono visitare le cripte, l’area delle tombe (compreso il sarcofago di granito rosso di Federico II, STUPOR MUNDI), il tesoro e anche i tetti. Sui tetti andateci anche per noi, perché siamo capitati durante una specie di nubifragio e quel pezzo lì era  stato momentaneamente interdetto alla frequentazione del pubblico. Siamo fortunatissimi, sempre.

Palazzo dei Normanni
La Cappella Palatina è di una bellezza abbagliante. Ma non in senso metaforico, sul serio. Sembra proprio in grado di creare la luce dal niente del cosmo. È uno tripudio di mosaici meticolosissimi – che rivestono anche l’ultimo dei battiscopa – e una specie di forziere miracoloso che può contenerci.
La Cappella fa parte del complesso monumentale del Palazzo dei Normanni, che ospita anche mostre temporanee e un percorso permanente di visita – giardini compresi. Potete saggiamente munirvi di biglietto qua, senza aspettare per anni alla biglietteria di Piazza Parlamento.

Santa Maria dello Spasimo
Una delle tappe più fascinose del quartiere della Kalsa. In parole poverissime, è una chiesa scoperchiata. Il complesso – dalle ambizioni gotiche – doveva comprendere un convento e il santuario, rimasto però incompiuto. Oggi si può passeggiare lungo una navata titanica (con tanto di albero che cresce rigoglioso accanto a una delle pareti perimetrali) e osservare lo scheletro della chiesa, senza soffitto.

Palazzo Butera
Ci siamo aggregati a una visita guidata di Manifesta e abbiamo esplorato la parte già “riqualificata” del palazzo. Il complesso è mastodontico ed è stato acquistato un paio di anni fa da facoltosi privati (collezionisti d’arte, tra le altre cose) che hanno deciso di restaurarlo e di riaprirlo alla cittadinanza. I saloni e gli ambienti verranno rimessi in sesto e integrati con opere contemporanee, creando un avvincente incontro tra antica nobiltà isolana e modernità. Il maestoso terrazzo che affaccia sul mare – e sulla Passeggiata delle Cattive – è stupendo. Bonus track: valente sbirciatina dal piccolo belvedere sul tetto.

Palazzo Forcella De Seta
Il materiale d’ispirazione primigenia per Palazzo Forcella De Seta è l’Alhambra andalusa. E la cosa non può che farci piacere. Mosaici moreschi e pavimenti ipnotici, finestre complicate e belve esotiche che si rincorrono sui soffitti. Natura e geometria. E pure qualche ponteggio, nostro malgrado.

Chiesa del Gesù (AKA Casa Professa)
BAROCCO OVER 9000.
LA MORTE DEFINITIVA DEL MINIMALISMO.
UN TRIONFO ASSOLUTO.
PUTTI CHE ESCONO DALLE (BENEDETTE) PARETI.

Chiesa di Santa Caterina
IDEM COME SOPRA MA QUI CREDO DI AVER ANCHE PIANTO.
[Nota aggiuntiva: accanto alla chiesa c’è una porticina che vi condurrà sapientemente al chiostro del monastero. E alla leggendaria pasticceria].

Mercato di Ballarò
Pur alloggiando a venti metri dal mercato della Vucciria, siamo sempre capitati nel momento sbagliato. Niente. Zero. Deserto. Ci siamo però consolati con un’escursione al mercato di Ballarò… che non finisce mai. Vasto, incasinato, tentacolare e traboccante, pieno di ortaggi di dimensioni quasi preoccupanti, cartelli pazzi, secchiate di pesce, olive, ROBA, è un’esperienza sensoriale decisamente intensa e avventurosa. È tutto traballante, disordinato e vorticoso, c’è la gente che passa in motorino agitando dei pesce spada decapitati, ci sono BOSCHI di origano, merce che penzola da ogni escrescenza possibile, muri scassati, fili elettrici che sembrano delle liane. È una bellezza.

***

MANGIARE

Pasticceria Costa
Una pasticceria storica – che trovate opportunamente ubicata ai Quattro Canti – con dolci artigianali e cannoli degni di una parata celebrativa. Il locale è una bomboniera. Ah, il fascino retrò delle vetrinette!

Buatta
Un ristorante siciliano “moderno”. Ingredienti del territorio e piatti della tradizione, rielaborati in maniera vispa ma senza asfaltarne le origini. “Cucina popolana”, c’è scritto da tutte le parti. Ecco, me l’aspettavo un po’ più “popolano”, forse. Meno trattoria di Moscova. Abbiamo mangiato bene? Direi di sì. Sperticati applausi per l’antipasto misto. SFINCIONE, TI VOGLIO BENE.

Focacceria Testagrossa
Ci siamo passati dopo la visita a Palazzo dei Normanni – è a una decina di minuti a piedi da lì. CHE BENESSERE. È uno dei posti più ronci di sempre, credo, ma ci siamo appollaiati su uno sgabello in strada e ci siamo mangiati i nostri panini con panelle e crocché. Due panini grandi come il mio cranio più una bibita a testa: 5€ e rotti. Commozione vastissima.

Pasticceria Cappello
Torta Setteveli. Fatto!

Al Vecchio Club Rosanero
Le mie esperienze culinarie preferite sono anche le più surreali. Il Vecchio Club Rosanero è una trattoria assai alla buona, sobriamente decorata da ogni genere di cimelio del Palermo. Sciarpe, foto, magliette, palloni, GONFALONI, gagliardetti, tutto. La cucina è tipica e casereccia, si mangia un casino (pure bene), si spende pochissimo.

Friggitoria Chiluzzo
Anche in Piazza della Kalsa ci si può rifocillare a colpi di panini, frittazzi, panelle e altre prelibatezze. Ci sono un po’ di tavolini, l’atmosfera è piacevolmente scacciona e vi verrà anche voglia di rimanere lì solo per guardare la fervente attività che si scatena dietro al banco. Pure qua si mangia come tirannosauri con 6€ in due, tipo.

Bisso
Una libreria storica ai Quattro Canti che si è trasformata in ristorante/bar/bistrot, conservando vetrine e parte degli arredi originali. Dunque, ci siamo andati in una serata particolarmente infausta – quella del temporale più violento dell’anno, si è poi scoperto – e l’affollamento era quasi claustrofobico. Volevamo fermarci a cena, ma nonostante fossimo seduti non c’era lo spazio fisico per maneggiare una forchetta. Ci siamo limitati a un bicchiere di vino e abbiamo sfidato le intemperie per tentare la fortuna altrove. Bello assai a vedersi, ma da riprovare in circostanze meno iellate.

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BERE

St’orto
Ci siamo fermati a fare l’aperitivo la sera dell’approdo in Sicilia, seguendo il buon consiglio di un amico autoctono di Amore del Cuore (grazie, Max!). È un bar/pub/vineria piccolino, con tavoli fuori più o meno condivisibili con gli altri avventori e un’atmosfera ibrida. Perché il posto è curato, ma anche alla buona. Si beve bene – i cocktail costano 5€ e i taglieri di ciccionate d’accompagnamento sono valentissimi – ma con poche pretese e grande pace.

Via Paternostro
Immaginateci come api sui fiori, ma coi locali al posto dei fiori. È una via vispissima e brulicante, con bar dalla struttura incomprensibile che hanno “il fuori” ma pure dei “dentro” paralleli, che somigliano a dei garage ma sono pieni di poltroncine gattopardesche. Vagate, confusi e felici.
Menzione d’onore al Bar Garibaldi, che vanta anche un calendario di incontri letterario/culturali assai nutrito. Ci siamo tornati due sere di fila.

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NEGOZI (E UN SIGNORE)

Edizioni Precarie
Cartoleria creativa e quaderni stupefacenti. Viene tutto rilegato a mano usando la carta alimentare dei mercati di Palermo. Ne ho comprati due, con buona pace della cappelliera dell’aereo.

Magazzini Anita
Una boutique vintage in pieno centro. Selezione super creativa e prezzi (anche) molto accessibili.

La biblioteca di Pietro Tramonte
Non so bene come sia possibile, ma a Palermo c’è un signore che ha una biblioteca per strada e che regala i libri a chi lo va a trovare. Ci siamo passati tutti i santi giorni – perché il “suo” vicolo era vicino a casa nostra – ma la pioggia devastante deve aver persuaso il signor Tramonte e tenere chiuso e a coprire la nutrita esposizione con solidi teli di plastica. Insomma, ve ne segnalo la presenza. Andate a salutarlo calorosamente anche per me, se il sole splende – come di solito accade.

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ALLOGGIO
Ci siamo felicemente stabiliti da Indigo Rooms, a due passi dalla Vucciria. La formula è interessante. Indigo è uno studio di registrazione con foresteria, utilizzabile dagli artisti o dai turisti di passaggio. L’insonorizzazione è ottima e nessun gruppo heavy metal funesterà il vostro sonno, ci tengo a precisarlo. Il tutto è ospitato nella storica dimora del Principe di Lampedusa – Giuseppe Tomasi di, proprio lui. I ragazzi che gestiscono l’impresa sono ospitali, simpaticissimi e cuoroni veri.

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Il clima scalognato ha rallentato parecchio la visita e tante mete ci sono rimaste sul gozzo. Torneremo per completare l’opera? Spero tanto di sì. Per il momento, spero che queste poche indicazioni possano tornarvi utili per organizzare un degno giretto.
E che Santa Rosalia vi preservi.
😀

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CREDITS & RINGRAZIAMENTI TURISTICI
Se volete integrare, vi consiglio di fare quello che ho fatto anch’io prima della partenza: date un occhio alla guida palermitana di Elena. È ormai una veterana e mi sono affidata a lei con immensa fiducia.
Ringrazio anche tutte le volenterose e i volenterosi che mi hanno tempestato di messaggi su Instagram per suggerirmi posti e cose belle da fare. Citarvi è impensabile, ma il vostro contributo non è andato sprecato. Vi sono debitrice.

Gary Shteyngart ha un talento raro: ti fa ridere di cuore, ma ti mette anche addosso una gran voglia di sederti in terra a singhiozzare un po’. I suoi personaggi si ingarbugliano nel tentativo perenne di cambiare pelle e coltivano con caparbietà le speranze più varie, deformandole fino al paradosso dell’illusione. Si muovono in mondi sovrapponibili al nostro – come nel caso di Destinazione America, uscito per Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli – e contribuiscono a metterne in luce le storture, le ambizioni più malsane e le grandi occasioni perdute. Ho incontrato Shteyngart un mesetto fa a Torino, nel gran ribollire del Salone del Libro, e ho fatto del mio meglio per non lasciarmi annichilire dall’emozione. Sono una fan, che devo fare. Ed essere fan di un autore noto per la sua ironia e per la sua acutezza devastante è un problema ancora più grande, quando si tratta di sedersi lì e di non fare la figura della pianta da appartamento. In ogni caso, il buon Gary è stato di una gentilezza disarmante. Me lo immaginavo serafico, simpatico e brillante, avvolto in una nuvola di pessimismo divertito. E non mi sbagliavo. Spero davvero che abbia apprezzato quanto me il quarto d’ora che abbiamo passato a dirci delle cose in un cantuccio verdeggiante dell’NH Lingotto.

Due parole sul libro, prima di lasciarvi in pace a leggere l’intervista.

Destinazione America è un ritratto di Manhattan (e dell’America) alla vigilia dell’ascesa di Trump. Shteyngart ce la descrive utilizzando, in parallelo, due voci. Da un lato abbiamo Barry – “l’uomo più simpatico di Wall Street”, un finanziere che amministra hedge-fund in maniera non proprio eccezionale, ma che riesce più o meno sempre a cascare in piedi – e dall’altro c’è sua moglie Seema – figlia di immigrati indiani assai intransigenti, ha tutte le carte in regola per fare l’avvocato in uno studio prestigioso, ma ha sposato Barry e, ora, fa la signora ricca a tempo pieno. Vita idilliaca? Ovviamente no. Perché, al mondo, non tutto è in vendita. Barry e Seema partiranno ben presto per le rispettive tangenti, nel nome di una felicità che sentono di meritare ma che non sono ancora stati capaci di afferrare. Tra antichi rimpianti, Greyhound puzzolenti, autostrade che si snodano in un mondo fin troppo “reale” per gli standard di un milionario di New York, una meticolosa ossessione per gli orologi da collezione, ambizioni frustrate, scrittori boriosi, FBI e cantonate madornali, Shteyngart demolisce il sogno americano mettendo in mano il piccone proprio a due dei suoi “prodotti” di maggior successo. Che cosa resta? L’esigenza viscerale di scrollarsi di dosso le sovrastrutture e la vergogna per quello che siamo diventati, nel tentativo di riscoprirci – forse – un po’ più umani e predisposti, finalmente, all’imperfezione.

Di che abbiamo parlato? Un po’ di tutto, per mia fortuna.
Ecco qua le nostre chiacchiere.

Dobbiamo per forza partire dagli orologi, perché hanno un ruolo fondamentale all’interno del libro. E ho anche visto che le persone arrivano alle presentazioni cariche di orologi…

Oh, ma allora mi segui su Instagram! È vero. Spessissimo mi chiedono anche di autografare i cinturini! Forse pensano che la mia firma aumenti il valore dell’orologio. Credo sia vero il contrario, ma che ci dobbiamo fare.

In questo romanzo – e forse non solo lì – i soldi, insieme al tempo, sono un modo per misurare il valore di una persona.

Prima che iniziassi a scrivere questo libro, tutti i miei amici se ne stavano andando da Manhattan. I giornalisti, gli scrittori, gli artisti. Si stavano trasferendo tutti quanti perché non si potevano più permettere di vivere lì. Mi sono guardato un po’ attorno, allora. E mi sono chiesto: ma chi è rimasto? I banchieri, sono rimasti. Non c’è più nessun altro a Manhattan. Volevo parlare di loro, perché scrivo di New York e penso di dover raccontare la città così com’è… non posso creare una mia versione “inventata” di New York. Dopo qualche anno immerso in quel mondo ho cominciato a vedere tutto da una prospettiva basata sul valore. Ah, questa cosa vale TOT. Questa persona vale TOT. Vivere così è spaventoso. Poi ho fatto un passo indietro, per cercare di decomprimere. E mi sono spostato anch’io. Ora vivo a nord, per una metà dell’anno, in un piccolo centro a dure ore dalla città. E là posso concedermi di essere normale. Anche un sacco di miei amici che si sono trasferiti ormai vivono lassù, perché se lo possono permettere.

È un tema che abbiamo già incontrato, mi pare. In Storia d’amore vera e supertriste tutti hanno una specie di cartellino virtuale che fluttua sopra le loro teste e che mostra al mondo il loro valore.

Esattamente. Penso sia una conseguenza diretta dell’aver vissuto così a lungo a New York, quest’idea che ciascuno di noi abbia un numerino che lo qualifichi. Vale anche per Trump, che vuole continuare a farci credere che il suo numerino sia molto alto… anche se in realtà non lo è affatto.

C’è parecchio Trump, in questo libro. Quando hai iniziato a lavorarci?

L’ho scritto nel 2016, quando non era ancora diventato presidente. Credevamo che sarebbe rimasto un po’ in ballo nella corsa elettorale, ma nessuno pensava che potesse vincere. E poi, man mano che procedevo con il libro, mi sono ritrovato a dover aggiungere sempre più Trump… perché il 2016 stava andando in quella direzione.

Ecco, non mi ricordo a memoria il passaggio, ma a un certo punto c’è una frase che dice più o meno così: “Se sono così ricchi è impossibile che siano stupidi”. 

[Ride].

È uno dei grandi falsi-miti americani. Si pensa che la gente ricca sia anche incredibilmente intelligente. Barry, ovviamente, è molto ricco… ed è convinto di voler aiutare le persone. Ma le sue idee sono di un’idiozia assoluta. Vorrebbe istituire questo Urban Watch Fund per aiutare i ragazzini dei ghetti a comprarsi il loro primo Rolex. Eccomi qua, mi sto prendendo cura di voi!

Imprescindibile. In America è quasi obbligatorio che i “ricchi” diano l’impressione di voler aiutare la comunità con raccolte-fondi, iniziative benefiche, gran cene di gala. Ma vivono comunque in un universo completamente scollato da quello delle comunità che dovrebbero beneficiare della loro grande magnanimità. Che ne sanno?

Ma niente. Niente. Vivono in un mondo in cui esiste il loro club esclusivo di Midtown, il loro ufficio, la loro villa negli Hamptons. È un mondo veramente noioso. Io adoro mangiare… e in quei club il cibo è pessimo. Non so come facciano a campare così. Ho iniziato a portarli in giro per ristoranti. Ristoranti indiani, ristoranti veri. “Oh, santo cielo, che buono, ma pensa!”E hanno scoperto che si può mangiare qualcosa di incredibile per molto meno di 100 dollari a piatto.

In questo romanzo ci sono due punti di vista diversi. Abbiamo Barry, che parte per il suo viaggio – e chissà dove andrà a finire – e poi c’è Seema, sua moglie. Lei è una donna brillante, una che potrebbe farcela benissimo da sola, senza accalappiare un marito in mezzo agli hedgie di Wall Street. Che le è capitato?

La domanda non è solo cosa è capitato a lei, ma cosa è capitato a centinaia e migliaia di persone come lei. Incontravo di continuo mogli come Seema. Donne più intelligenti dei loro mariti, con un curriculum migliore di quello dei loro mariti. Quando si sposano, però, fanno due conti e cominciano a pensare che tutto sommato non valga più la pena lavorare. E si crea questo sistema sociale… futile. La moglie scorta i principini verso il futuro, punto e basta. È un sistema assolutamente misogino, che non aiuta nessuno. Ma immagina di essere il figlio di una queste mogli… che cosa fa la mamma? La mamma ha una laurea migliore di quello di papà ma passa tutto il suo tempo a escogitare un modo per far entrare il suo bambino ad Harvard. È davvero avvilente.

E le operazioni iniziano dall’asilo?

Iniziano dal nido, per certe scuole. Ho un bambino piccolo anch’io e quando abbiamo provato a iscriverlo – avrà avuto un anno, più o meno – ci hanno spiegato che no, la domanda va fatta pre-nascita. Insomma, se fai sesso e hai anche solo il sentore di aver concepito, la mattina dopo devi prendere il telefono e chiamare SUBITO. Salve, sì, abbiamo fatto l’amore proprio bene… potete tenerci un posto?

[COPIOSE RISATE NON TRASCRIVIBILI]

Uno dei veri problemi, in un contesto di questo tipo, è la gestione di quello che va storto. Ed è quello che capita a Barry e Seema. Loro figlio non è il bambino che si immaginavano, non sarà mai il principe che governerà il mondo. E non riescono ad accettarlo.

Esatto. Il loro bambino si colloca da qualche parte all’interno dello spettro autistico. La vita di Barry e Seema è strutturata per avanzare e convergere verso la perfezione – Barry per la sua infanzia tremenda, Seema per la severità dei genitori immigrati. Devono avere successo, ad ogni costo. E spunta una crepa, in mezzo a tutto questo. Per loro è così devastante da non poterlo nemmeno dire apertamente, Seema non può parlarne ai suoi. Devono far finta che vada tutto bene… ed è tragico, anche per il bambino.

Seema ha una cartella di foto sul telefono in cui Shiva sembra “normale”. E usa solo quelle foto, quando si tratta di far vedere suo figlio agli altri. All’inizio del libro vanno a cena dai loro vicini, che hanno questo bimbo perfetto che canta e recita filastrocche. E per loro è un’esperienza assolutamente mortificante.

Li distrugge. E Barry pensa, “ma com’è possibile? Io ho molti più soldi di loro! Mio figlio dovrebbe essere meglio del loro!”.

I soldi aiutano, ma a loro mancano proprio le basi di un rapporto umano significativo.

Non solo. Barry fa la spola da un’università all’altra distribuendo donazioni nella speranza che qualcuno smentisca la diagnosi di suo figlio.

E poi parte per il suo viaggio, che si trasforma in un’avventura comica e surreale. È come se vedesse il mondo per la prima volta. Oh, guarda, un Walmart!

Esatto! Ho un sacco di azioni di Walmart, ma non ne avevo mai visto uno! Incredibile!

Barry ha anche un’assistente che si occupa di ogni dettaglio della sua vita. Man mano che il viaggio procede, però, comincia a separarsi dalle sue carte di credito, dal telefono… che cosa rimane di Barry?

È proprio quello il domandone. Gli americani sono convinti che la loro vita sia composta da numerosi atti. Certo, si comincia col primo atto… ma puoi sempre diventare una persona diversa. È un paese grande, se vuoi trasferirti nel sud-ovest per allevare bestiame in un ranch o spostarti chissà dove per coltivare avocado lo puoi fare. In realtà, però, sei sempre la stessa persona. Quel che manca, a volte, nella mentalità americana, è la consapevolezza che dopo un po’ di tempo – quando ormai ha superato l’infanzia – non cambi più per davvero. Barry decide di partire per riscoprirsi, vuole ritrovare la sua fidanzata storica, fare questo, fare quello… ma alla fine è sempre lo stesso schmuck di prima.

Quando va a cena con i genitori della sua ex fidanzata si trova davanti a due persone paralizzate dall’imbarazzo, che cercano in tutti i modi di dirgli – invano – che il passato è passato.

Il passato è passato. La reazione di Barry? “Oggi posso comprarmi questo passato. Se solo avessi sposato la mia ragazza del college, tutto sarebbe andato in un’altra maniera”.

Verissimo. Sono tutti alle prese con un rimpianto antico o con un errore a cui cercano di porre rimedio. Forse è ormai un luogo comune… ma è possibile che nel sogno americano qualcosa sia andato storto?

Molto storto. Anzi, potremmo dire che è finito. Ma è stato bello, per un po’. Tutto finisce. E questa è un’altra cosa che gli americani non capiscono. Pensano di essere un paese eccezionale – non è mai esistito niente di così straordinario! – ma abbiamo avuto l’impero romano, il dominio spagnolo, l’impero mercantile olandese, l’impero cinese… è come un giro sulle montagne russe. E ora la parabola è decisamente discendente.

Forse è anche una conseguenza dell’economia che abbiamo costruito. Le cose vanno male ma non comprendiamo a pieno le cause… anche se siamo stati proprio noi a creare quel sistema.

Quando un sistema diventa ipercomplesso, com’è ora, è l’inizio della fine…

*

Grazie a Guanda per aver ritagliato un po’ di tempo anche per me nell’agenda massacrante del buon Gary. E grazie soprattutto a lui per le splendide chiacchiere. E per questo libro, che come sempre ci fa disperare per la spietata limpidezza di quel che ci restituisce… ma ci fa anche sguazzare con vero divertimento nell’arte nobilissima del paradosso.
🙂

*

Tra le cose più belle che possono capitarci in assoluto nella vita ci sono sicuramente i libri e i viaggi. Questi due indiscutibili doni del cielo possono di certo continuare ad esistere senza mai incontrarsi o, magari, trovare un punto d’intersezione in un bel pomeriggio estivo, quando vi piazzate a leggere sotto l’ombrellone. Si può fare di più, però. Si può viaggiare insieme ai libri. O sulle tracce dei libri. O seguendo le orme degli autori che quei libri li hanno scritti. Si possono costruire itinerari letterari per approfondire un determinato angolino del globo, partendo in compagnia e decidendo di condividere un po’ di strada con chi, come noi, viaggia ogni volta che apre un libro e, di tanto in tanto, ama anche viaggiare facendo concretamente i bagagli.
Marta Ciccolarila McMusa per tutti – è un personaggio dal multiforme e vasto talento. Giornalista, blogger, animatrice di esaurientissimi corsi di Letteratura Americana, Marta organizza dal 2014 dei MIRABILI viaggi on the road negli Stati Uniti, tutti caratterizzati da un preciso tema libresco. Visto che l’idea è nobilissima e variamente meravigliosa, ho deciso di farle qualche domanda. Qui trovate le nostre chiacchiere e, per approfondire (e magari prenotarvi un’avventura), ecco qua il campo-base dei suoi Book Riders.

Marta, premettendo che partirei domani per uno dei tuoi tour, come diamine sei finita a organizzare viaggi negli Stati Uniti per appassionati di letteratura americana? Ammetterai che non è unoccupazione in cui ci imbattiamo frequentemente… 

No, in effetti no! Ma a me piace così tanto, e sento che mi calza proprio a pennello! Ho avuto un’illuminazione dopo un lungo viaggio negli States nel 2013: sono stata ospite di diverse famiglie nel Central Illinois per uno scambio professionale e poi ho proseguito per il viaggio della vita, cinque settimane da sola sulla West Coast, da nord a sud, da Seattle a San Diego. Ero appassionata (e grande studiosa) di letteratura americana da anni, ma fu durante quel viaggio (ore e ore on the road) che realizzai: sì, ma le persone devono sapere, devono conoscere questa America! Remota, sorprendente, diversa da quello che noi pensiamo di sapere.

Ho iniziato aprendo il blog e mettendomi semplicemente a raccontare; poi ho proseguito con i corsi, viaggi immaginari stato per stato nella letteratura americana, rivolti a un pubblico di lettori curiosi. Poi ho conosciuto Xplore, tour operator torinese specializzato in viaggi americani. Li ho conosciuti, li ho sentiti affini e scatenati come me e ho detto: ragazzi, io voglio trasformare i miei viaggi letterari in viaggi veri. E così, a un tavolo di un bar assolato nel centro di Torino, sono nati i Book Riders! 

Arriva prima linnamoramento letterario per un preciso luogo geografico o è il fascino di un posto che ti fa venire voglia di approfondire e di leggere? 

Quando ero piccola mio padre mi portò a fare un viaggio in Svizzera, Austria e Germania sulle tracce dei suoi pensatori guida: Freud, Jung, Herman Hesse, Thomas Mann. Per una magia che oggi ricordo con estremo affetto riuscimmo a entrare a casa di Jung sul lago di Zurigo, conoscemmo la nipote, girammo per le quelle stanze circolari che mio padre aveva solo osato sognare durante i suoi studi. Ecco, io credo che sia nato tutto lì, in quella magia.

Ho iniziato a pensare alla letteratura come a un mondo in cui si può entrare e quando ho iniziato a viaggiare in America l’ho fatto tenendo sempre a mente i racconti che me l’avevano fatta amare sin dai tempi della scuola. Adesso che il progetto è avviato posso dirti, però, che arriva prima l’innamoramento letterario. Un innamoramento che può moltiplicarsi dopo che quel posto l’ho visitato per davvero. Il luogo può farmi venire voglia di approfondire, lo guardo con gli occhi della guida letteraria, cerco di capire quali storie potrebbero sorprendere i miei compagni di viaggio, quali dettagli potrebbero amare. Il viaggio in Texas, ad esempio, mi ha fatto venire una voglia di leggere matta e irrefrenabile, sia prima di andarci che dopo (credo si noti, non parlo d’altro da mesi!).

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Ogni destinazione ha un tema. La California del noir, il “wild wild Texas, la Louisiana magica. Come nascono gli itinerari? Ti armi di piletta di libri e di mappa dello stato e vai in cerca di tutti quei luoghi letterari che i tuoi Bookriders potranno vedere sul serio o si tratta di viaggi più “sentimentali?

La prima, condita di qualche tocco strategico. Ti faccio entrare proprio dentro il mio lavoro: penso a uno stato, mettiamo appunto il Texas. Faccio una lista di libri letti e non letti. Penso a cosa del Texas mi piacerebbe evidenziare e conoscere, sia attraverso quei libri che sul posto. Vado in Texas e faccio un viaggio di esplorazione (ecco, premessa fondamentale: non porto mai i Book Riders in posti che non abbia già esplorato da sola o con la mia fida compagna di viaggi, Valeria). In Texas aggiungo o tolgo da quella lista altri libri, scopro un sacco di cose nuove, leggo e ascolto e, sulla base delle mie intuizioni in loco e di quello che ritengo più efficace per far appassionare i Book Riders, raggruppo libri, scrittori, articoli, immagini in un unico tema. Ci sono stati americani, come ad esempio la California, in cui il tema diventa fondamentale: troppa letteratura, non avrebbe senso includere tutto incondizionatamente, è bene trovare un percorso che restituisca più di altri l’anima, l’essenza di quelle zone.

Se poi la domanda era: ma i luoghi letterari (magici, selvaggi, noir) esistono tutti per davvero? allora la risposta non può che essere: certo!

Ho letto il decalogo del Bookrider perfetto. E oltre a pensare che hai fatto benissimo a stilarlo, mi sono anche molto divertita. E vedendo i video dei vostri viaggi passati mi pare anche che funzioni. Cioè, i gruppi mi sono sembrati affiatatissimi! Quant’è importante il lavoro sulla “filosofia di viaggio, per un progetto come il tuo?

Mi fa un gran piacere che tu abbia notato questa cosa, sai? È la parte del progetto su cui lavoro di più ma è forse quella che risulta meno visibile. Sì, esatto, scegliere le letture, gli autori guida, le tappe del tour è un lavoro meno complesso rispetto alla cura dello spirito di gruppo. A me preme che i Book Riders facciano esperienza dell’America a tutto tondo, che riescano ad apprezzare l’autenticità di un desolato paesino di provincia così come di uno scintillante quartiere di Los Angeles, di un motel abitato dalla peggio gioventù così come della frontiera con il Messico. Se vengono meno la curiosità, lo spirito di adattamento, la flessibilità, l’apertura mentale allora viene a mancare tutto: il mio lavoro è quello di inserire ogni cosa (luoghi, parole, persone) in un unico racconto, di rendere ogni dettaglio sorprendente e interessante, di prepararli a quell’autenticità in modo che la possano apprezzare. Molte delle persone che vengono in viaggio con me hanno già frequentato i miei corsi in Italia, quindi sono già dentro lo “spirito McMusa”: profondo ma pop e informale. In viaggio si va ancora più a fondo, discutiamo, ridiamo, ci interroghiamo, leggiamo, parliamo con le persone del posto.. poi certo, più loro diventano curiosi, più è difficile gestire le loro domande.. ho una nota aperta sull’iPhone intitolata “Le domande dei Book Riders”: dovreste leggerle, alcune sono assurde! “Marta, perché ci sono così tanti pick-up rossi in questo parcheggio?” Ragazzi, NON LO SO.

So che non è riassumibile in due parole, ma proviamo. Com’è la giornata tipo di un Bookrider che viaggia con te?

Sveglia prestino, ritrovo verso le 9. Se l’hotel offre la colazione bene, altrimenti dedichiamo al breakfast la prima parte della giornata. E con breakfast intendo: bacon, uova, pancake, toast, patate, avocado e tutto quello che può servire per affrontare una giornata piena on the road. Partiamo, tutti dentro il nostro van personalizzato e via verso la prima tappa! Alcune giornate sono più rurali, altre più urbane. Ognuna prevede da uno a tre momenti letterari: i Book Riders si radunano intorno a me e io leggo o racconto una storia relativa al posto in cui ci troviamo. Possiamo essere seduti su un molo sul Rio Grande, nel giardino di casa di Wallace, in un’aula universitaria, sullo stesso van (in certe periferie di Chicago, ad esempio, è meglio non scendere, anche se è fondamentale vederle), nel museo del rock di Seattle. Gli spostamenti da un paesino all’altro portano via parecchie ore e in quelle ore il protagonista assoluto è il finestrino. E anche la musica! L’America vera si scopre on the road! Di solito si arriva a destinazione intorno alle 18, breve momento di riposo e poi cena molto presto, intorno alle 19 (e in tantissimi posti è già tardi, le cucine chiudono alle 20). Chi ce la fa va a bere qualcosa più tardi, chi è stanco rientra in hotel. Per fortuna i dettagli tecnici (la guida del van, la scelta dei ristoranti, la relazione con gli alberghi, la prenotazione dei voli) è a cura di Claudio e Federico di Xplore: il primo accompagna i Book Riders in tutti i viaggi nuovi, il secondo li coordina tutti da Torino. 

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Un episodio particolarmente favoloso che ti ha fatto pensare “mamma mia, voglio continuare a fare questi tour per leternità”.

Lo penso spesso, sai? Mi emoziono moltissimo in viaggio e quell’emozione è un gran motore. Però l’episodio con la E maiuscola è stato l’incontro con Tess Gallagher, la moglie di Raymond Carver, sulla tomba del marito il giorno del compleanno di lui. 25 maggio 2016. È stato un regalo del destino! Noi avevamo in programma una giornata emotivamente niente male: visita mattutina ad Aberdeeen, paese natale di Kurt Cobain, e poi su verso Port Angeles, casa di Tess e Ray durante i loro ultimi dieci anni felici insieme nonché avamposto magnifico sul Pacifico dove il grande scrittore è sepolto. Quel mattino mi sveglio, guardo Facebook e scopro che è il compleanno di Carver! Mi viene un colpo, penso “va a finire che ci imbattiamo in qualche commemorazione”. E così succede, con tempi e modalità che solo un raffinato deus ex machina poteva aver messo in atto: arriviamo al cimitero dopo soste impreviste, ritardi e deviazioni; vediamo un gruppo di persone radunate vicino a una panca e una lapide nere; io faccio la maestrina e dico ai Book Riders di comportarsi bene perché quelli probabilmente stanno facendo un funerale ma non finisco neanche la frase perché vedo lei e mi pietrifico. “Cazzo, ragazzi. Ma quella è Tess Gallagher!” E da lì comincia un’ora di abbracci, lacrime, poesie lette nel vento del Pacifico, torte cucinate e mangiate in suo onore, batticuore e incredulità. C’è un video anche, che testimonia la mia e la nostra emozione: mi chiesero di leggere una poesia in italiano, e io lessi Per Tess. Lì ho proprio pensato: voglio continuare a inseguire questi momenti per sempre. Me lo sta dicendo il fato.

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E una disavventura assurda, invece?

Chicago. Primo tour, prima sera. Per iniziare col botto! Andiamo a mangiare in un ristorante vicino al locale di Al Capone direttamente dopo l’arrivo. Parcheggiamo il furgone in un parking lot abbastanza vuoto e trascorriamo spensierati un’oretta a tavola. Quando torniamo nel parcheggio il furgone non c’è più! Sparito, andato. Panico. L’avevano rimosso. Tutt’altro tipo di incredulità questa! Poi l’abbiamo ritrovato e il viaggio non ha più subito sparizioni misteriose, ma ci siamo detti che non saremmo mai più andati a mangiare fuori la sera dell’arrivo: il jet-lag non ci aveva fatto vedere il cartello NO PARKING.

So che sei al lavoro sulla prossima tappa. Quale sarà e come sei messa con i preparativi?

Nei canonici periodi di vacanza ripropongo i vecchi viaggi in versione mini: stesso tour, gruppo più piccolo, solo io come unica accompagnatrice. Quest’estate porterò due gruppi di mini Book Riders nel Pacific Northwest, l’angolo di America tra Seattle e Portland, sotto il Canada. Ma la vera novità che annuncio a te e ai tuoi lettori in esclusiva è che, visto che quest’anno ricorre il decennale della morte di David Foster Wallace, a metà settembre vorrei portare un gruppo di appassionati a conoscere i suoi luoghi dell’Illinois e i suoi amici dell’università di Bloomington, dove lui insegnò per dieci felici anni. È una notizia fresca fresca!

Visto che i pazientissimi lettori di Tegamini sono abituati a ricevere consigli libreschi – più o meno riusciti -, cosa stai leggendo ora?

Leggo sempre tanti libri insieme quindi no panic: La straordinaria famiglia Telemachus, un romanzo di Daryl Gregory con nonni nipoti e genitori di Chicago affetti da poteri magici a cui le cose a un certo punto cominciano ad andare male; Lospite donore di Joy Williams, sono 46 racconti, me ne gusto uno ogni tanto; Loitering di Charles D’Ambrosio, raccolta di non fiction utile per il viaggio di quest’estate e, tra lavoro e passione, In a Narrow Grave, saggi sul Texas scritti dal più grande scrittore texano vivente, Larry McMurtry.

E i tuoi pilastri irrinunciabili, sempre rimanendo sulla narrativa americana?

Cormac McCarthy e Don DeLillo, i maestri a cui mi inchino. Joan Didion e Bret Easton Ellis, i californiani del mio cuore. Raymond Carver, lo scrittore che tutti amano per i racconti ma che a me ha fatto scoprire la poesia. Patti Smith e Sam Shepard, mi emoziono solo a scrivere i loro nomi.

Concluderò con una domanda di raro spessore. Quanti libri trasporta in valigia il Bookrider medio?

Macché, loro ne porteranno uno o due al massimo! Poi hanno gli ebook sul tablet e il libro di viaggio che gli faccio io (una raccolta di articoli, racconti, foto e approfondimenti vari in pdf). Quella che ha un lato di valigia sempre pieno di libri sono io! Ma del resto, le foto con il Kindle in mano mica sarebbero la stessa cosa!

*

[Foto di Elena Datrino]

Per addentrarvi meglio nel McMusa-mondo, ecco qua il suo sito.