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Ci sono tantissimi problemi geopolitici e macroeconomici di cui potremmo discutere in maniera proficua e costruttiva – ma perché affrontare questioni di spessore, quando si può parlare di piedi? Perché tendere al progresso e all’elevazione intellettuale, quando possiamo invece rimanere saldamente ancorati al terreno e soffermarci sulle nostre estremità?
C’è tutto un mondo, alla fine delle nostre gambe.
I piedi sono importanti.
I piedi ci permettono di spostarci da un luogo all’altro.
I piedi ci offrono indirettamente una possibilità di felicità.
Perché, avendo dei piedi, ci servono necessariamente delle scarpe.
E le scarpe, da che mondo è mondo, sono il bene.
A meno di particolari impulsi feticistici o di un impiego nel settore calzaturiero, ai piedi non è che si pensi poi un granché. D’inverno si tende a combattere strenuamente contro pozzanghere e geloni – cercando, al contempo, un paio di stivali in grado di non soffocarci i polpacci -, ma lo sforzo di mantenimento è oggettivamente piuttosto contenuto. Bene, ho dei piedi. Li terrò al caldo, mi taglierò le unghie e prenderò in giro gli stivali UGG. Per tutto il resto, se ne riparla a giugno.
Giugno.
Quando comincia a fare caldo.
Quando, all’improvviso, ti viene in mente di tirare fuori i sandali.
L’inizio dell’estate è il fatidico momento in cui, rivolgendo lo sguardo al suolo, ci rendiamo conto della gravità della situazione. 
Magari voi avete dei piedi bellissimi. Ma io no, purtroppo. Non solo i miei piedi somigliano a delle sciagurate spatole da cucina, ma sono pure assai delicati. Magari voi vi cacciate su il primo paio di scarpe aperte che trovate e riuscite a deambulare dignitosamente per la città. Ma io no, purtroppo.
Io sembro Gesù sul Golgota.

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Ma soffermiamoci un attimo sulle tipiche fasi dell’approccio al sandalo estivo.

Che il sandalo sia vecchio o nuovo, poco cambia. Certo, la situazione si aggrava leggermente in presenza di calzature sconosciute alla mia fragile anatomia, ma una ciabatta dell’anno scorso non risolve il dramma – ve lo assicuro.
Ma che succede.
Apri la finestra e t’accorgi che fa caldo. Travolta dal tipico entusiasmo da clima mite che rinnegherai puntualmente appena le temperature supereranno i 23 gradi – la prima volta che esci senza maglione sei felice come una crostata e inneggi alla meraviglia della bella stagione (SUCA, JON SNOW! L’INVERNO QUA È PASSATO!) una settimana dopo sudi come un cinghiale e vuoi solo arruolarti come mozzo su una rompighiaccio -, MA DICEVAMO. Galvanizzata dal tepore, deciderai di buttare sottosopra la scarpiera e di ripescare i tuoi sandali preferiti. Dopo aver constatato che i tuoi piedi sono brutti come te li ricordavi (faccenda sulla quale, tuo malgrado, non puoi intervenire tempestivamente) e che, tutto sommato, non hai degli artigli da velociraptor, decidi di indossare i maledetti sandali e di affrontare baldanzosamente la giornata.
Nel tragitto tra casa tua e la fermata del tram inizierai a percepire un leggero fastidio. Come un presagio di sventura.
Arrivata in ufficio, un po’ claudicante, raggiungerai la tua sedia e ti ci abbandonerai con gratitudine – accogliendo di buon grado la prospettiva di rimanerci per le successive otto ore (centordici ore per chi lavora in un’agenzia pubblicitaria).
In pausa pranzo, però, costretta a uscire dall’edificio per procurarti del cibo, ti renderai inesorabilmente conto che qualcosa di molto grave sta accadendo.
Percepisci dell’attrito.
Percepisci del calore appiccicaticcio.
Percepisci l’incubazione di un dolore lancinante.
Ma non guardi. Perché se guardi nell’abisso anche l’abisso guarderà dentro di te.
Durante il pomeriggio, dopo aver constatato che la sedia è dotata di tre rotelle girevoli, valuterai l’opportunità di farti spingere al cesso da una collega particolarmente comprensiva. Ma andrai a fare la pipì autonomamente, come una bambina grande. E non perché sia la soluzione più dignitosa. Ti alzerai e camminerai solo perché la tua collega è in riunione da un cliente.
Tornata a casa – strisciando sulla pancia come un pinguino imperiale -, cercherai di levarti i sandali. Ma non ci riuscirai.
I listelli, infatti, dopo aver generato una molteplicità di bolle e averne salutato l’inesorabile esplosione con sadico compiacimento, sono riusciti a superare gli strati più superficiali di epidermide e derma per raggiungere, finalmente, la carne viva. O l’osso… lì dipende da quant’era brava la commessa che v’ha venduto le scarpe. Signorina, questa pelle qua… mi sembra un po’ dura. MA SI FIGURI. DIVENTANO UN GUANTO. SI AMMORBIDISCONO SUBITO. IL PELLAME È DI OTTIMA QUALITÀ, LE PARE. MEIDINITALY. CI FA IL CAMMINO DI SANTIAGO SUONANDO L’ORGANETTO. CI FA ROCCIA, COME UNO YAK. NON SI PREOCCUPI, LE SFRUTTERÀ TUTTA L’ESTATE!
E voi là. Monche. In una pozza di sangue.
Dopo aver separato – con l’intervento di un’équipe chirurgica dell’ospedale San Raffaele – il sandalo dal vostro piede, avrete tutto il tempo per contemplare il mesto spettacolo. Vi troverete di fronte a un panorama di tagli trasversali, talloni sanguinanti, bozzi, aree inspiegabilmente variopinte (in base al colore della vostra calzatura), sudorini calcificati, vesciche in vari gradi di deterioramento, impronte da cinturino mordace, dita affettate.
Uno schifo di merda. Che vi fa pure un male senza senso.
Zoppe ma furibonde, vi recherete scalze in farmacia e acquisterete una fornitura di cerotti, Compeed, garze e protesi di ultima generazione – carbonio ultraleggero, microchip, sensori di parcheggio -, nella speranza di poter in qualche modo gestire il problema. Prevenire è meglio che curare, certo, ma che ne sapevate. Scarpe vecchie? Pensavate di esservi abituate. Scarpe nuove? Non c’è modo di stabilire con sufficiente certezza dove il sandalo deciderà di colpire. E poi quando te le provi in negozio sono sempre così comode. È una cazzo di congiura – sicuramente ordita dai tedeschi per farsi finalmente dire MA CERTO, AVETE RAGIONE VOI A METTERVI LE CIABATTE COI CALZETTONI BIANCHI DI SPUGNA.
Comunque.
Nonostante i rattoppi, il vostro supplizio sarà destinato a continuare. Perché le scarpe del delitto mica potete rimettervele subito, ma manco con gli alluci foderati di cuscinetti al silicone. Per consentire alle ferite fresche di rimarginarsi più o meno correttamente, frugherete nella scarpiera alla ricerca di un altro paio di sandali da utilizzare.
E il ciclo si ripeterà.
Scarpa dopo scarpa, bolla dopo bolla, settimana dopo settimana, sandalo dopo sandalo, i vostri piedi si trasformeranno in un abominio epidermico non dissimile dalla faccia di Freddy Krueger. E, quando le vostre piastrine – ormai esauste, sfinite e disilluse – saranno riuscite ad assicurarvi un livello gestibile di resistenza plantare (generando una specie di tessuto cicatriziale in grado di sopportare ogni scarpa aperta in vostro possesso), riaprirete la finestra e scoprirete che è settembre.
L’estate è finita.
E ogni sforzo è stato vano.
Ancora una volta.