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Venezia

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Orbene, Dentro la vita di Luciana Boccardi riparte da dove eravamo collettivamente approdati con La signorina Crovato, confermandone il gradevolissimo e avventuroso andazzo.
Per inquadrare meglio, l’inizio-inizio ci colloca a Venezia nel 1936, a casa di una famiglia di musicisti – di illustre per quanto rovinosa discendenza – che sprofondano in una dignitosissima e alacre miseria dopo una disgrazia capitata al vulcanico padre clarinettista, Raoul. Cercando di sbarcare il lunario, la madre decide suo malgrado di allontanare temporaneamente Luciana. La bambina, crescendo, verrà chiamata a dare una solida mano per sostenere l’economia domestica, tra peripezie di ogni genere, la malaugurata ascesa del fascismo e impieghi assai variegati. Piena di risorse e di una forza d’animo invidiabile, date le grame circostanze, Luciana si industria per studiare e per trovare un impiego alla Biennale, polo culturale dell’arte, della musica, del teatro e del bel mondo dell’epoca. Ed è qua alla sua scrivania, non ancora diciottenne e fiera del grembiulino nero che porterà per quasi tutta la sua permanenza in Biennale, che la ritroviamo all’inizio del secondo volume della sua epopea personale.

Dentro la vita : Boccardi, Luciana: Amazon.it: Libri

Vera e romanzesca insieme, la parabola di Luciana Boccardi è uno spaccato di storia (e di storia del costume) che dai padiglioni in perenne fermento del Lido ci porta fino alle passerelle della moda parigina, tra macchine da scrivere, matrimoni non convenzionali ma funzionanti, grandi nomi e scorci lagunari. Una modernissima donna d’altri tempi, che ripercorre con orgoglio le tappe fondamentali di un’esistenza che forse poche e pochi – disponendo di una differente predisposizione d’animo – sarebbero riusciti ad affrontare con la medesima grazia divertita e con quella singolare capacità salvifica di cambiare pelle al momento giusto, riuscendo comunque a non tradirsi mai.

[Luciana Boccardi, firma storica del Gazzettino di Venezia, è scomparsa poco tempo fa, ma per darvi un’idea del piglio narrativo – che ben ritroviamo anche nei primi due capitoli della sua storia – ecco qua la sua ultima intervista. Era stato annunciato anche un terzo volume a concludere il ciclo, ma vediamo che accadrà…]

venezia tegamini

A Venezia c’ero stata con MADRE e il mio papà quando avevo 7 anni. Visto che, come tutti i bambini regolamentari, la mia statura si aggirava attorno al metro e quaranta, di Venezia mi erano rimasti ben impressi solo i culoni degli altri turisti, un casino di scale e il Ponte di Rialto. E un ciondolo bellissimo che mi aveva comprato MADRE. Era un sacchettino di vetro con dentro un pesce rosso… che, per carità, va bene, ma è un po’ poco: c’è gente che scrive libri su Venezia da secoli, e nella mia memoria c’erano soltanto dei culi, dei sandali brutti e MADRE che si scandalizza per il prezzo dei giri in gondola. Avevo anche il marsupio, adesso che mi ci fate pensare.
Quando mi hanno chiesto se volevo andare a Venezia per la giornatona Bombay Sapphire – che se avete voglia c’è anche un post, allora, mi sono subito emozionata molto. Finalmente ci tornerò, da grande! E ho anche tutti questi consigli su dove andare a mangiare delle cose nei posti frequentati da AUTOCTONI-col-Pedigree che mi ha scritto @martinaemme, dedicandomi ore della sua vita. E solo perché è una persona gentile! E niente, sono partita con grande gioia. Il Carnevale! L’acqua! Un giorno di ferie! Assassin’s Creed!

Solo che io non ho il senso dell’orientamento.
E le folle oceaniche un po’ mi agitano.
E mi sentivo un po’ in colpa a vedere tutta quella bellezza senza potermi girare e dire delle cose ad Amore del Cuore.

Ma poi ho trovato il modo di prenderla bene.
Volevo andare alla famigerata libreria Acqua Alta – libri usati, umidità devastante e gatti da tutte le parti – ma non ci sono mai arrivata. Secondo le mappe di Google era da qualche parte lungo il muro di cinta dell’Ospedale, quello a picco sulla laguna. Tutti palombari, i frequentatori della libreria Acqua Alta. Una persona perbene ci sarebbe arrivata, però, con o senza indicazioni fuorvianti e 3G che funziona a intermittenza. Io no, sembravo un cincillà gigante che fa la spesa al supermercato. Ad un certo punto, un anziano cittadino – visibilmente impietosito – mi ha pure aiutata a capire vagamente dov’ero, ma poi s’è accorto che manco lui si ricordava più tanto bene dove abitava e mi ha abbandonata, farfugliando qualcosa sulla distribuzione dei numeri civici veneziani. I numeri civici veneziani sono esagerati e messi giù a caso. 5436, 2344, 1798. Che è. L’anziano cittadino mi ha detto che lì le cose funzionano diversamente: non c’è la strada coi suoi numeri che cominciano dall’1 e arrivano dove devono arrivare. Lì sono progressivi, per “quartiere”, tipo. Io mi sono immaginata Casanova con un jetpack che sorvola la città tirando i bussolotti della tombola sui tetti, gridando OSTREGHETTA di tanto in tanto. E niente, mi sono rassegnata. Visto che non sarei mai stata capace di raggiungere una meta qualsiasi, ho cominciato ad andare dove mi portavano i piedi e tante care gondole a tutti. Trattandosi di Venezia, è stato un successo.

Ma vi mostro le diapositive commentate delle ferie, che facciamo prima. È un misto del primo giorno (è per quello che il pranzo è così sfarzoso) e del secondo giorno (è per quello che non c’è roba da mangiare… ero così atterrita dalla possibilità di perdermi per sempre che mi sono scordata di alimentarmi. C’era il sole, però).

Ho scoperto che Venezia è una città interamente composta da scorci memorabili. Giri un angolo e c’è sempre qualcosa che cade a pezzi con una grazia struggente. Cammini, ti guardi attorno e non ti spieghi come sia possibile che esista un posto del genere. Non ci sono nemmeno i negozi che vendono cibo. I veneziani vivono di intonaco fradicio, probabilmente. Mangiano le persiane. Hanno le radici aeree.

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I fabbricanti di costumi sfarzosi mi hanno fatto venire in mente che, con la mia corporatura, ho proprio scelto il secolo sbagliato per nascere. Diciamo basta agli hipsterici vestitini rettangolari, io voglio un corsetto che sembra una Viennetta.

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Questa calle è una tappa obbligata per ogni turista disorientato. Dopo averla invocata ad ogni svolta sbagliata, ad ogni ponte che non è dove te lo immaginavi, ad ogni incomprensibile deviazione, la Madonna appare a modo suo.

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Per fare questa foto ho tagliato la gola a undici cinesi (tutti con il gilet da pesca, quello con tantissime tasche), sei romani che pensavano che il ponte fosse il loro e quattro ragazzine che avevano riciclato i costumi di Halloween. I gondolieri, nel frattempo, sembrano in coda al casello.

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Uno ormai associa i cigni a Natalie Portman che danza sulle punte con un tutù di Rodarte.  Poi ti ritrovi a passeggio lungo un ameno canale e ti imbatti in una persona di 120 chili vestita da cigno, con tanto di scarpetta-zampetta e piume. Dalla foto non si capisce bene, ma la gonna bianca (diametro metri 3) era tempestata di cignetti neonati. E il cigno-copricapo sfiorava le finestre delle abitazioni del primo piano.
I veneziani che vanno in maschera devono avere delle case molto grandi. Un costume del genere ha bisogno di un armadio solo per lui, non può convivere con gli altri indumenti, è troppo grosso, troppo piumato, troppo voluminoso. Veneziani in maschera, come diavolo li riponete i vostri costumi?

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Pausa-pranzo

Quello che posso dirvi è che non è lontano da Piazza San Marco. Ma è meglio se provate ad arrivarci da soli. Ristorante Al Covo, l’unico posto al mondo dove ti portano uno sgabellino imbottito dove appoggiare la borsetta e continuano a ripeterti di stare attenta ai gradini perché c’è chi è cascato in terra rischiando seriamente la vita. Dislivelli letali a parte, c’erano numerose porcellanine adorabili e ho mangiato delle bontà. Visto che nessuno si vergognava di fare le foto al cibo, è stato tutto rigorosamente documentato. La polpa di granchio dentro a un vero guscio di granchio placcato in argento, però, non ho fatto in tempo a immortalarla perché era troppo buona ed è scomparsa all’istante.

tegamini baccalà al covo veneziaL’Unesco dovrebbe proteggere il baccalà mantecato con ogni mezzo.

Questo qua non è un Gesù in croce ma è una coda di rospo. Ogni volta che pulisco un pesce mi viene in mente che ho delle mani d’oro e che dovevo fare il cardiochirurgo.

Questo qua, invece, è uno di quei gloriosi tortini con il cioccolato caldo dentro. Poi ci hanno anche portato gli sgonfiottini zuccherosi di carnevale, che erano ancora più buoni e magicamente leggeri. Ho cercato di calcolare quanti sgonfiottini sarebbero serviti per riempire una stanza, ma ho fallito. E ne ho inghiottiti altri tre, per sentirmi meno inadeguata.

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Guai a te se ormeggi. Ti percuoteranno a colpi di remo, ma di taglio.
Cioè, non è manco un cartello: è un blocco di granito con un’iscrizione viabilistica… per delle imbarcazioni che non esistono in nessun altro posto al mondo. Ci dovevano scolpire sopra un divieto di sosta, col cerchio sbarrato. E delle pietruzze colorate per il rosso e il blu. Basta, Venezia è una città assolutamente strabiliante e inverosimile.

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Una volpe rossa che truffa una signora, ipnotizzandola coi merletti.

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canale tegamini supersegreto

Per fare questa foto ho rischiato di annegare. C’era un vicolino piccolino, con in fondo un portone bellissimo e tutta questa magica luce coi riflessini da piscina. E andiamoci a vedere. Il vicolino finiva nell’acqua, in questo canale silenziosissimo e proprio meraviglioso. Non c’era un’anima, e io volevo vedere bene di qua e di là. Solo che avevo paura a sporgermi, visto che non c’era niente a cui attaccarsi. Allora mi sono appiattita al muro come una bavosa di scoglio e ho allungato un braccio e ho fatto una foto tutta storta, perché anche il resto del mondo doveva scoprire che esiste un posto del genere. Non rende la magia della LOCHESCION, ma ancora non deambulo sull’acqua.

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L’uomo-pavone in pausa sigaretta. Perché anche le maschere si affaticano e sudano sotto al primo sole di primavera.
…è anche vero che te la sei andata a cercare, uomo-pavone.

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Comuni cittadini che vanno in giro sulla loro barchetta, superando senza fare una piega anche gli angoli più disagevoli. Bisognerebbe tornare a Venezia per vedere come funzionano le scuole guida. Ci sono solo quelle che distribuiscono patenti nautiche? E se uno vuole guidare una macchina vera dove va? A Mestre? Le donne veneziane le prendono in giro perché non sanno ormeggiare, o anche lì esistono le battutone sul parcheggio?

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i am in the nonsolovino

Ma giustamente. E spero che abbiano già pensato a una qualche forma di convenzione turistica: compra un’ampolla di vetro di Murano e usala per berci dentro uno spritz all’enoteca, col 50% di sconto.

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Intanto che siamo in tema affissioni, vorrei anche segnalare la bellicosa presenza degli stencil, dei posteroni e degli appiccichini di Venezia Land. Da quel che ho capito, è un movimento-streetartistico di DENUNZIA contro il degrado prodotto dal turismo becero e incontrollato. Venezia non è un Luna Park! Per dirlo (e accrescere grandemente l’avvenenza della laguna), tempesteremo i palazzi di ciccione in pantaloncini!

venezia land tegamini

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I gondolieri sono molto vanitosi. Alcuni cantano anche. E fanno il limbo per passare sotto ai ponti più bassi.

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E qua ci sono io con un tricorno in testa. Per attenuare la sensazione di smarrimento e labirintite, mista a nostalgia per Amore del Cuore e mal di piedi, ho acquistato un tricorno fatto a mano da un vero artigiano/mascheraio veneziano. Si sa, i tricorni fanno bene all’anima. E si sa anche che smarrirsi con in testa un tricorno è comunque meglio che smarrirsi a capo scoperto. Erano anni che volevo un tricorno. Chiederò al futuro istruttore di equitazione se posso usare il tricorno invece del cap. Non che il cap sia brutto o inutile, chiaro, ma ci vuole anche un po’ di senso del teatro. “Guarda il lampo che laggiù attraversa il cielo blu”, quelle robe lì. Pirati, pugnali, nobiltà e rondate sui cornicioni. E la missione dei prossimi mesi sarà trasformare il tricorno in un copricapo accettabile per l’uso quotidiano in una città come Milano.
Tié.

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E adesso sono rimasta fregata. Perché la foto più bella l’ho usata all’inizio. E tutte quelle che ho di Piazza San Marco sono piene di gente che mi smanaccia nell’inquadratura. O di bambini seduti su sgabellini pericolanti che si fanno impiastricciare la faccia da scoordinatissimi truccatori di strada. Poltiglie di coriandoli da tutte le parti. Momenti di acutissima misantropia e sciabordio di onde. Nonostante il delirio carnevalesco e i vaporetti con la gente abbarbicata alle ringhiere, però, sono molto contenta che esista Venezia. Mi sono smarrita in ogni modo possibile, ho fatto tantissime scale e mi sentivo un po’ sola, ma quel che avevo attorno – chissà dove, poi – era sempre una specie di meraviglia fluttuante. Venezia è proprio la città degli stuporoni… e ci voglio tornare con qualcuno che amo. E che non si perde.

bombay sapphire ultimate gin e tonic experience

Ho deciso che sulle meraviglie di Venezia farò ben due post due. Uno sulla mirabile avventura a bordo di una bottiglia di Bombay Sapphire (con tanto di lezione di gin-tonic e performance artistiche a due centimetri dai miei alluci), e l’altro su Venezia come posto fascinoso e terrificante. Perché quando non hai il senso dell’orientamento, Venezia può anche ucciderti. Soprattutto quando c’è il Carnevale.
Inizierei dall’argomento gin-tonic, se non vi dispiace… che si sa, ne parlo già tantissimo di mio (intanto che ci siamo: grazie a tutti i prodi che, periodicamente, mi ricordano di mettere i ghiaccetti in freezer), figurati cosa posso tirare fuori quando mi capita una roba che si chiama The ULTIMATE Gin&Tonic Experience. ULTIMATE, come il mostro definitivo di fine livello.
Come reagire, dunque?

A. Prendere un valigino. Riempire il valigino di lustrini.

B. Balzare su un treno in direzione Venezia S. Lucia.

Sul treno ero un po’ intimorita perché tutti gli altri che venivano a fare festa al Bombay Sapphire erano giornalisti. E io, no. Io ho un blog che si chiama Tegamini. Ah-ah-ah, no, non parla di cucina, tutto tranne quello. Piacere, piacere. Tranquilli, non fate caso a me. Sto qui nel mio cantuccio. Però scusate, perché avete tutti dei valigini più piccoli del mio?
I giornalisti liofilizzano gli abiti e le scarpe. Non so come facciano, ma è così.
Poi, però, abbiamo fatto amicizia. Ci siamo anche scambiati delle maschere piene di piume. Non sono affatto minacciosi, i giornalisti, dopo un paio di bicchieri. O dopo che un taxista veneziano super spiccio ti ingiunge di salire sulla sua barchetta, te e tutti i tuoi valigini. Nessuno è salito con grazia, perché la laguna incute rispetto.

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Comunque. Mi sono messa tutta bella composta vicino a un bancone pieno zeppo di bottiglie color zaffiro (pietra amatissima dalla regina Vittoria che, meraviglia delle meraviglie, appare in tutto il suo arcigno e corpulento splendore anche sull’etichetta del benamato Bombay) e ho degustato, ascoltato e gioito dell’altrui capacità di produrre robe buone da bere.
Ho imparato moltissime cose. E la mia naturale predisposizione al gin-tonic ha finalmente trovato una valvola di sfogo piena di immaginazione. Perché uno pensa che il gin sia una roba relativamente poco complicata, ma non è vero niente. I bicchieracci dei posti dove andiamo noi mica si chiamano bicchieri-Swimming-Pool. E non c’è da inorridire, quando ti mettono tanto ghiaccio, anzi. Non è perché sono tirchi, taccagni, braccini corti e spilorcioni: un cocktail fatto bene ha bisogno di un sacco di ghiaccio, perché se ce n’è parecchio non si verificano squagliamenti e quello che ti bevi rimane uguale dall’inizio alla fine. E segnatevelo, se dovete fare una festa chic: in una serata con della gente allegra che si beve 2-3 cocktail a testa, serve un chilo di ghiaccio a persona. E noi lì, coi sacchettini di plastica. Prendete un piccone e trascinatevi in casa un iceberg.

A parte i rudimenti dell’arte COCTEILISTICA, ho anche appreso innumerevoli utili nozioni sulla composizione del vivace Bombay Sapphire, che è il gin che ti vai a comprare quando non vuoi fare la figura dei cavapietre e che ti fa anche un po’ gridare perché io valgo! quando te lo passano alla cassa. Perché è più buono, ma anche da prima che mi facessero sedere al bar del Bauer di Venezia. Tutta la bontà accade – con nostra grande soddisfazione – perché nel Bombay prosperano aromi e ingredienti di impareggiabile stranezza. Io ho i miei colleghi tra loro maritati, in ufficio, che ogni tanto saltano su con affermazioni tipo “Cielo, è finito il sale rosa dell’Himalaya! Periremo!” oppure “L’altra sera abbiamo messo sulla pasta questa varietà di cardamomo biforcuto che cresce solo tra gli zoccoli pelosi di un particolare ruminante sputacchione della cordigliera andina, il fafnirpal”. Ecco, ora so come vendicarmi. Perché il Bombay Sapphire, senti un po’, contiene i seguenti dieci aromi (gli aromi, in Bombayese, si chiamano botanicals… e io li ho visti con questi occhi, dopo aver controllato sull’atlante illustrato dove li vanno a prendere): mandorle amare e limoni dalla Spagna, liquirizia dalla remota Cina, bacche di ginepro e radice di iris dall’Italia, radici di angelica dalla Sassonia, coriandolo dal Marocco, corteccia di cassia indocinese, grani di pepe Cubebe dell’isola di Giava e Grandi del Paradiso dell’Africa Occidentale.
Cheers e tanti saluti al fafnirpal.

tegamini bombay sapphire bancone

Visto che ho la faccia di tolla tipica dei bambini molto piccoli, poi, mi sono offerta volontaria per un esperimento da vera barlady. Con la supervisione del pazientissimo mastro-Bombay, ho preparato il gin-tonic preferito della regina Vittoria con una perizia da neurochirurgo. Faccio un gin-tonic, ma sembro una che si sta laureando in ingegneria biomedica. Ridete pure, ma bisogna mescolarlo da sotto in su, con un bel movimento rotondo, vigoroso ma delicato. C’è anche un video, che esiste solo perché ho assaggiato tutti e venti i cocktail della degustazione…

[tentblogger-youtube bu54QPIHfmo]

Per chi volesse farsi una cultura e per i vostri amici che ancora ritengono che il gin-tonic sia noioso e del tutto privo di IMAGINATION – tema della goduriosa serata – qua ci sono i cocktail che si sono inventati per noi con gli ingredientini e i nomi belli, così potete prepararveli anche per i fatti vostri e innalzare di una tacca la felicità media del mondo. E’ un agile PDF, che fa anche un casino arredamento. E non ci crederete mai, ma il gin-tonic alla camomilla ha un suo perché.

E poi?
No, perché mica è finita.
Dopo aver presidiato il bancone in dorata solitudine e tranquillità, il bar si è riempito di variopinti personaggi che volevano vedere della seria live-arte. C’era un pianoforte con Giovanni Guidi – che è un giovane prodigio galattico del nu-jazz – che suonava, improvvisando per delle mezz’ore… il cielo solo sa come. Giovanni Guidi deve avere un cervello grosso il doppio del nostro, o ce l’ha uguale a noi ma la densità dei suoi neuroni è dieci volte maggiore. E c’era una grossa lavagnona nera con Letman – che è un calligrafo olandese che mi ha pure tollerata per tutta la cena mentre mi facevo i fatti suoi, tipo “ma i muri di casa tua, poi, hai deciso di dipingerli da solo o li lasci così?” – che disegnava, scriveva e artistava a ritmo di piano. Tre sonate improvvisate e tre lavagnate, son venute fuori. E io ero molto emozionata, perché dev’essere di una difficoltà estrema farsi venire in mente il modo di riempire una roba di tre metri per due con della gente piena di piume di carnevale che ti fissa con immensa curiosità.

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Una gioia.
Alla fine, ancora discretamente salda sulle gambe, sono tornata nella mia stanza e ho preso una gran paura perché c’era la televisione che andava e le lampade accese in una maniera molto coreografica. E mi avevano anche scostato l’angolo del lenzuolo e risistemato tutti i vestiti. E avevo le pantofole messe su un tappetino vicino al letto. LA CAMERIERA PETRA ESISTE VERAMENTE. E chi lo sospettava. Visto che Amore del Cuore non aveva mie notizie dalle ore 17, poi, mi sono baldanzosamente diretta nello spazioso bagno marmoreo per inviargli una testimonianza della mia buona salute, maschera da giullare e tutto.

 

Indipendentemente dalla maschera, mi sento sempre Batman. #bombayandtonic

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

La risposta di Amore del Cuore è stata “METTI VIA QUELLE TETTE”.
E io le ho messe nel pigiama.
E ho messo il resto di me nel letto, sempre dentro al pigiama.
Buonanotte a Venezia. Buonanotte e molte grazie a Bombay Sapphire, che ha assecondato con impareggiabile gentilezza la grossa principessa curiosa che e in me. Buonanotte anche a Giovanni Guidi e a Letman, che spero abbiano fatto sognoni d’oro, dopo tutta quella performance complicata. E buonanotte ai giornalisti, che prendevano tutto con estrema naturalezza e tranquillità… mentre io sembravo un’orfanella di Dickens entusiasta dell’acqua calda che esce dal rubinetto.

E’ stato avventurosissimo, allegro e immensamente spassoso.
Grazie per l’accoglienza, le materne premure, le sorprese e le scoperte.
Se mi abituo è un casino, anche questa volta.

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Dunque, il mio ultimo blog-giro è finito con un corso accelerato di falconeria e una poiana di Harris che mi passeggiava fieramente sull’avambraccio mentre branchi di lemuri estremamente mobili saltellavano da tutte le parti. L’altro giorno, invece, mi sono data all’arte. E al caffé. Ciao Tegamini, vuoi venire a Verona a visitare in magica anteprima la mostra sul paesaggio dal Seicento al Novecento che si chiama Verso Monet? Apre il 26 ottobre e finisce il 9 febbraio, al Palazzo della Gran Guardia. Ma a te e a un piccolo gregge di altri BLOGGHER facciamo vedere tutto prima, con lo spiegone del curatore, le coccolette nostre e la possibilità di fare le foto. Gli altri mica potranno farle, le foto, spezzeremo mani e frantumeremo aggeggi elettronici. Insomma, vieni? Ci farebbe un sacco piacere. Ciao Segafredo, a che ora si comincia?

Ho preso ferie – che a quanto pare, nel blog-mondo, solo io ho un lavoro col cartellino da timbrare. Timbro QUATTRO volte al giorno e sempre, quando mi avvicino alla bollatrice, è come ammirare la baia di San Francisco… dall’isola di Alcatraz -, sono salita su un treno alle 7 e 35 – scoprendo che i sedili dei Frecciabianca sono tipo delle assi da stiro – e sono approdata nella pacifica Verona, con tanto di truc sulla testa e iPad di riserva, per gentile concessione di Amore del Cuore. Per quelli con preoccupazioni da spostamento, dirò che dalla stazione di Verona Porta Nuova al Palazzo della Gran Guardia – perbacco, che luogo incantevole e maestoso – c’è da deambulare per dieci minuti scarsi. E c’è l’Arena proprio lì davanti, presidiata da manipoli di valorosi centurioni coi leggings.

Verso Monet TegaminiMonsieur Monet ci insegna che le ruches donano anche a chi ha un ventre esuberante. 

Ma facciamo le cosone per bene.
La mostra è un viaggio nella storia della rappresentazione del paesaggio. Inizia con il Seicento e finisce con i salici del giardino di Monet, ai primi del Novecento. Un centinaio di opere esposte (quadri, quadri, quadri  e una decina di splendidi disegni, tutti quanti illustrissimi prestiti dai museoni più importanti del mondo) e un percorso fatto così:

1.    Il Seicento. Il vero e il falso della natura
2.    Il Settecento. L’età della veduta
3.    Romanticismi e realismi
4.    L’impressionismo e il paesaggio
5.    Monet e la natura nuova

Una delle molte cose mirabili della mostra è che il Verso Monet del titolo non è una superfuffa. Ah, figuriamoci, ci saranno due Monet in croce, incastrati in un angolo alla fine, ma l’hanno chiamata così perché la gente corre e si spintona appena sente un vago odore di impressionismo. Ecco, proprio no. Non solo c’è una super narrazione, ma la mostra è imbottita di capolavori – compresi i miracoli che avevate sul libro di storia dell’arte. C’è Van Gogh, c’è Cézanne, c’è Renoir, ci sono i fiamminghi, Canaletto, Gustave Courbet, Sisley… e un intero stagno di dipinti di Monet.

verso monet tegamini venezia

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Ma che abbiamo fatto, alla fine? Per una mezz’oretta, liberi e ignoranti come caproni, ci siamo messi a vagare per la mostra. Poi siamo tornati al campo-base ed è iniziato il giro serio, con Marco Goldin – il curatore – a farci da guida. Che non so voi, ma non capita proprio spesso di avere il personaggio che ha messo insieme una mostra a spiegarti che cosa sta succedendo. Sono anche momenti di tragica auto-consapevolezza. Tegamini, te da sola questo collegamento artistico-concettual-metodologico non l’avresti mai colto. Ed è vero, che carine sono tutte le personcine che si affollano sui ponticelli delle vedute del Canaletto, ma perché mai il Canaletto ha sentito il bisogno di mettercele? Diamine, da dove arriva tutta questa smania di precisione fotografica? E perché cinque minuti prima la natura o il paesaggio erano solo un fondale, l’ambientazione per ben altre storie? E la linea dell’orizzonte? E la forma delle nuvole? E’ un casino.

Mini-marinai, che cosa volete dirci?

Foto 24-10-13 10 22 56Turner, ma dov’è andato a finire tutto quanto?

Foto 24-10-13 10 32 13Cézanne, perché dipingere di continuo questa benedetta montagna?

Foto 24-10-13 22 36 22Questo è messer Goldin, pronto a illuminarci (con grande pazienza).

Comunque. Il viaggio del paesaggio e della natura nell’arte è molto avventuroso. Si comincia nel Seicento, epoca di grandi scene con un sacco di gente e di alberi. Nei dipinti si raccontano storie, allegorie ed episodi più o meno mitologici… e tutti questi accadimenti non possono capitare nel vuoto. Grazie al buon Tintoretto – che un giorno si svegliò e decise che i personaggi dovevano stare in mezzo al mondo naturale e non davanti -, la natura diventa ambientazione, un palcoscenico idealizzato, che non ha bisogno di essere realistico. Gli olandesi, però, sono gente pratica. Vivono in un territorio in trasformazione, costruiscono in mezzo all’acqua, modificano il loro mondo, osservano la natura come dei piccoli scienziati coi pennelli. Gaspar van Wittel arriva a Roma per documentare la deviazione del Tevere e, magimagia, si inventa la veduta: precisione fiamminga, illuminismo dilagante e meraviglia dell’architettura italiana. Finire a Venezia, che era un posto di gran transito e importanza geopolitica, era inevitabile. E allora ciao a Canaletto e Bellotto.

Foto 24-10-13 22 36 23Questa è la signorina che ha aggiunto a mano tutti i puntini sulle i che vedrete sui muri della mostra.
Abbracci alla maestra indiscussa del puntinismo didascalico-testuale.

Una cosa mirabile che ho scoperto è che, nel Settecento, le vedute venivano utilizzate come cartoline dai baldi viaggiatori impegnati nel Grand Tour. Un’altra cosa che ho scoperto è che, non troppo tempo dopo, i pittori “romantici” si mettono a spennellare gigantesche cartoline dell’anima. Eruttano vulcani, la luna illumina pianure desolate e i fenomeni della meteorologia diventano fenomeni del cuore. Ah, lo spazio infinito! Ah, le tempeste! Nell’Ottocento il paesaggio diventa stato d’animo. Anzi, visione dell’anima. A chi non ne ha una viene sconsigliato di dipingere. E poi? E poi, in giro per le foreste francesi, si comincia a pensare che “vedere” la natura, osservarla e rappresentare la “verità delle cose” in un preciso istante sia il prossimo grande passo dell’arte pittorica. Questi signori sono – circa – i realisti, la scuola di Barbizon – che è un villaggetto appena fuori dalla foresta di Fontainebleau. Nel 1838, poi, arriva un gentiluomo di nome Daguerre con un’invenzione nuova nuova: il dagherrotipo, un aggeggio che “consiste nella riproduzione spontanea delle immagini della natura, ricevute nella camera oscura”. Ah è così, monsieur Daguerre? Bene, tutti in giro per i prati col cavalletto! Impressionisti, all’attacco!

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Monet, che lì per lì aveva deciso di dipingere tutta la verità e nient’altro che la verità, con la pioggia e col vento, lavorando a una tela diversa per ogni ora del giorno – per catturare LIVE i cambiamenti dell’atmosfera e della sua luminescenza avvincentissima – ad un certo punto decide che la luce che filtra leggiadra tra le foglie di una foresta assolutamente perfetta non è poi così fondamentale. “Se le mie Cattedrali, le mie Londra e altre tele siano state fatte dal vero oppure no, non riguarda nessuno e non ha alcuna importanza. Conosco tanti pittori che dipingono dal vero e fanno solo cose orribili. Il risultato è tutto”. Monet si compra un paio di occhiali da sole veramente spacconi e, insieme a Cézanne, si carica l’impressionismo sulle spalle per portarlo a prendere un po’ d’aria fresca… non necessariamente all’aperto, anzi.

Ninfee, farò di voi delle rockstarZ! Vi dipingerò in un milione di modi, mi inventerò l’idea di “serie” e vi farò quasi scomparire in una meraviglia di rosini azzurrati e di verdini, vi osserverò così da vicino che non sembrerete nemmeno più delle ninfee, ma luminosi spiriti di vegetazione galleggiante. Tié.

Foto 24-10-13 12 28 53Questa è la mia parete preferita di tutta la mostra. Diamine, è la parete definitiva.

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Temo di aver fatto un casino, col ricapitolone artistico… ma ho comunque un asso nella manica, un ultimo Pikachu da far saltare fuori dalla sfera Poké, un megazord di ninfee e salici acquatici. Perché già arrivate super felici nell’ultima sala, quella col festival mondiale di Monet, ma quando siete sulla porta vi accorgete anche che in fondo c’è una gloriosa nicchia davvero teatrale. Che uno ci rimarrebbe di sasso anche se il quadro fosse una roba scialba come la minestrina, figurati poi con quello che c’è dentro.

Foto 24-10-13 12 36 54 (1)Foto sghemba con tanto di stipite, al solo scopo di creare inutile SUSPANS.

Foto 24-10-13 12 34 13 copiaTADAAA!

La gioiosa giornata – resa ancora più gioiosa dall’impagabile compagnia di Stailuan (l’uomo che disegnò il logo di Tegamini e che ora, se lo incontrate per strada, vi risponderà solo se gli gridate CATZAPPROVED) e Nadia di Gazduna (l’unica donna, dopo Charlize Theron, che sta davvero bene coi capelli corti) – è proseguita con un ruzzolone collettivo all’Aquila Nera, dove siamo stati abbondantemente nutriti e rifocillati e dove tutti quanti si sono pubblicamente presentati tranne me. Nadia ha esordito con Ciao, sono Nadia di Gazduna, fantastico sito che, di tanto in tanto, pubblica anche delle cose scritte da Francesca… e niente, ci hanno considerate un’unica entità e sono stata dispensata dalla presentazione ufficiale. Il che è positivo, che descrivere Tegamini è sempre un casino. Lo faccio adesso, magari. Ciao a tutti e grazie di cuore per l’invito. La mostra è splendida ed è stato un onore ascoltare Marco Goldin. Mi chiamo Francesca, lavoro al marketing in una casa editrice e la sera traduco dei libri. Tegamini è un blog buffo dove parlo di quel che mi piace e mi fa contenta. Credo di essere una propagatrice di entusiasmi. E spero proprio che questo mio superpotere possa essere utile a far venire una quantità vergognosa di gente alla mostra, di solito funziona. Bene, grazie a tutti. Dov’è che posso avere un altro po’ di prosecco?

tegamini nadia stailuanUno specchio, uno specchio! Presto, foto-bimbominkia! Eccoci. C’è Nadia, poi c’è Stailuan – che regge con coraggio l’oca Luisa, l’oggetto meno ergonomico di sempre – e ci sono io, che mi contorco per non finire risucchiata dall’imponente vaso di fiori.

E niente, non mi hanno fatto tenere il braccio una poiana di Harris ma direi che non è andata male. Prima di vantarmi di tutte le donerie elargite da Segafredo – che dopo la mostra, lì in dieci con Gesù in persona a farci da guida, io ero anche già contenta così – vi rimando al sitino di Verso Monet e al trailer del nostro blog-giro (che ci riprendevano come le star, con una specie di accecante raggio alieno). Nei prossimi giorni dovrebbe emergere dell’altro, tra foto e imbarazzanti scene filmate, quindi buttate un occhio sulle altre web-propaggini di Tegamini per ridere tantissimo di me.

Foto 24-10-13 22 57 35Non mi avevano ancora donato una tovaglietta. Per dire, ho ricevuto dei frisbee, una canzone scritta apposta per me da una boyband e una poltrona-canotto arancione, ma una tovaglietta non ancora.

Foto 24-10-13 23 04 50 (1)Generi di prima necessità! Grazie!

Foto 26-10-13 17 50 43Anche il libro-catalogo è da considerare un genere di prima necessità.

Orbene. Credo di aver finito. Spero di avervi messo addosso un minimo dell’entusiasmo che questa mostra merita. Diciamo che i quadri sono così belloni che vi faranno del bene anche senza la spiegazione del curatore, ma vi consiglio di lasciarvi raccontare la storia dalla guida. Che quando si scopre da dove viene una collina, o un mare con le ondine o uno stagno di ninfee, ecco, è un po’ come galleggiarci sopra, spalancando gli occhioni.

Cuccioli della gratitudine a Segafredo per invito, l’ospitalità e i dononi. E buona mostra a chi ci vorrà andare.

🙂