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Sei la bambina più bella, brava e intelligente del mondo, Sabrina Mannucci. Il tuo sarà un avvenire luminoso. L’universo intero ti deve ammirazione e ti sarà devoto, perché ogni qualità umana e ogni talento confluiscono nella tua personcina. Fama e fortuna, gloria e felicità ti apparterranno di diritto e, di riflesso, eleveranno la tua famiglia, che ti ha amata, “vista” e sostenuta come meriti. È il 1977, Sabrina è pronta per salire sul palco dello Zecchino d’Oro e tutto questo sembra ancora plausibile. Ma i poteri del Mago Zurlì basteranno?

Figlia di un funzionario RAI di caratura irrilevante – ma certo di contare moltissimo -, Sabrina cresce con la ferrea convinzione di essere speciale per davvero. Riccardo, suo padre, la porta in palmo di mano e sembra puntare su di lei – il cavallo migliore tra i figli – per iniziare un’ascesa in piena regola. Da famiglia piccolo borghese – con tutte le grettezze del caso – i Mannucci possono fare di meglio, possono seriamente tentare di insinuarsi nei giri che contano. Sabrina è uno strumento d’interposta ambizione e il prodotto mostruoso delle illusioni e delle frustrazioni altrui. La televisione è sempre accesa, pronta a istruire il pubblico su cosa sia legittimo sognare e a fornire un traguardo sempre visibile da tagliare: se arrivi qua dentro sei a posto, tutto cambierà.
Nel 2007, ritroviamo i Mannucci al capezzale di Riccardo e scopriremo gradualmente che ne è stato di loro. Sabrina sarà riuscita ad agguantare l’avvenire promettente tanto agognato? Sarà riuscita a trovare qualcuno capace d’amarla quanto l’ha amata suo padre? La famiglia sarà finalmente stata accolta nella cerchia dei ricchi e dei potenti? Son davvero tutti stupidi, brutti, grassi, ignoranti e grezzi a parte Sabrina o, nemmeno troppo in profondità, c’è sempre stato qualcosa di tragicamente sbagliato? E per noi che leggiamo, sarà così mostruoso tifare per il fallimento di Sabrina?

Sabrina è un personaggio ciabattesco da manuale. Contiene illusioni, vanagloria, megalomania e tutte le spiacevolezze e le robe orrende che vorrei tanto poter dire di non aver mai sentito crescendo, ma nel credersela così tanto si smaschera da sola e ci offre anche la possibilità di trovarla patetica e vittima di un contesto altrettanto “piccolo”. È l’eterna lotta tra pezzenti e ricchi, ultime ruote del carro e blasonati dirigenti, umili ingranaggi e macchinari pesanti. Nel rifiutarsi di restare al proprio posto possono emergere virtù e meraviglie che migliorano l’universo, ma non è il caso dei Mannucci. In loro si riassume molto di quello che non va nella “catena alimentare”, ma fanno parte del problema. Sperare non è peccato, ma è l’assoluta ineleganza con cui falliscono a risultare ripugnante. Anche quella, però, è una pura questione d’apparenza. Volete leggere qualcosa di malvagio? Sabrina è qua per voi.

[Vi va di ascoltarlo come ho fatto io? Trovate I giorni felici di Teresa Ciabatti su Storytel. Vi ricordo che passando per di qua vi donano un periodo di prova gratuito “prolungato” – 30 giorni invece di due settimane.]

Cora Seaborne entra a far parte a pieno titolo della schiera di signore rispettabili che iniziano a campare meglio all’indomani della dipartita dei loro coniugi. Lo sforzo vero, per la protagonista del Serpente dell’Essex così come per le vedove sue colleghe di fine Ottocento, consiste nel continuare proiettare per un tempo ritenuto decoroso quel dolore e quella contrizione che il lutto richiede, industriandosi però clandestinamente per trovare un nuovo scopo e un modo per impiegare al meglio la libertà fortuitamente conquistata.
Per Cora – che ha perso l’uomo rivelatosi crudelissimo che ha sposato sull’onda di una fisiologica inconsapevolezza giovanile -, questa libertà consiste nel recupero di una sua personalità più antica, “selvatica” e rozza, almeno per gli standard londinesi.
Per ritrovarsi, cambiare finalmente aria e ricominciare, Cora inizia col trasferirsi con figlio e bambinaia-confidente a Colchester, nell’Essex, con l’unica ambizione di rivoltare pietre in cerca di reperti preistorici e di infangarsi il più possibile gli scarponi.

Il punto di riferimento di Cora è Mary Anning, pioniera della paleontologia del Regno Unito (e del mondo intero) e scopritrice di fossili che hanno fatto la storia. Anning, armata di cestino, martello e scopettini, setacciò la costa di Lyme Regis – poi ribattezzata Jurassic Coast – rinvenendo scheletri di ittiosauri, plesiosauri e rettili marini.
In un’epoca in cui le scienze naturali potevano godere di diffusione accademica ma anche dell’apporto di un nutrito movimento “dilettantistico”, Anning rimase una sorta di felice eccezione in un panorama irrimediabilmente dominatissimo da studiosi maschi, ma di certo rappresentò un esempio di caparbia intraprendenza, reale autorevolezza e disinteresse per le convenzioni. Il valore del suo lavoro e delle sue scoperte furono riconosciuti – un traguardo non scontato, data l’agguerrita competizione – e i suoi reperti più significativi sono ancora esposti al British Museum.

Già, credo che il canetto di Mary Anning stia cercando di fare la cacca. Su un fossile di plesiosauro, probabilmente.

Ma rimettiamoci in carreggiata.
Che succede a Colchester e nel contiguo bacino del Blackwater? Si direbbe poco, perché son posti pittoreschi e ameni ma di certo molto diversi dal frenetico ribollire della grande città. Cora, però, riceve una provvidenziale soffiata: annegamenti sospetti, villici che perdono il senno e pecore disperse si moltiplicano… che sia tornata la bestia leggendaria che infesta il fiume? Cora decide di vestire i panni della studiosa razionale e di cominciare a indagare con oggettività sul fenomeno. Psicosi collettiva, antiche superstizioni riemerse in un momento di scalogna o autentica opportunità per rivenire un fossile vivente?
Pur con intenti diversi – placare una congregazione sempre più inquieta e riportare la serenità nel villaggio – anche il reverendo Ransome sta cercando di far luce sul caso del presunto mostro del fiume. La sua traiettoria e quella di Cora sono destinate a incrociarsi e a generare ripercussioni insospettabilmente vaste, tra status quo turbati e massimi sistemi che precipitano, condensandosi, nel rapporto tra due persone che sperano di scovare un litorale clemente su cui approdare.

Se amate i romanzi storici – con tanto di scambi epistolari -, il moto inesorabile delle maree e le narrazioni che nelle tribolazioni minute provano a mettere in scena i grandi dilemmi – dal conflitto tra fede e ragione a quello tra classi sociali, dalla rettitudine del buon padre di famiglia agli albori delle rivendicazioni di indipendenza delle donne, dalla superstizione al senso di colpa, dalla purezza dell’anima che lotta per non farsi “contaminare” dalle pulsioni del corpo -, Il serpente dell’Essex è un bel posto dove sguazzare: scrittura ricca (e ben tradotta da Chiara Brovelli per Neri Pozza), ricostruzione accurata e colpi di scena gestiti con elegante aplomb, per quanto i drammi e le inquietudini non manchino. Che siate più inclini a soccombere a mistiche atmosfere minacciose o a tifare per “poligoni” affettivi variamente ingarbugliati, è di certo un bel congegno romanzesco. Ma ci sarà davvero, questo serpente? Tutto dipende dalla rete che vi andrà di gettare in acqua…


Segnalazioni televisivo-cinematografiche

Dal romanzo di Sarah Perry è stata recentissimamente tratta una serie TV con Tom Hiddleston – SCARSA FANDOM QUI – e Claire Danes.
Ho scoperto che esiste anche un film su Mary Anning. Si chiama Ammonite e Kate Winslet interpreta la nostra indefessa paleontologa.
Ho già visto qualcosa? Figuriamoci, ma segnalo comunque volentieri. E allungo la mia lista delle cose da recuperare.

 

Nella vita è inevitabile raccontarsi un po’ di menzogne.

No, davvero – non ho più fame.
Vuoi andare a farti un weekend a Cracovia coi tuoi amici? Ma certo, non c’è problema.
Guarda, cinque minuti e sono lì.
I baffi? Non li ho mica, figuriamoci.
Non ti alzare, faccio io.

Alle palle che sfoderiamo nel quotidiano (e che ci aiutano a risultare meno insopportabili al resto del mondo) si accompagnano anche le baggianate programmatiche che sforniamo per le faccende più importanti – tipo l’educazione e la crescita di una prole garbata, vergognosamente intelligente e profondamente empatica.
E la cosa interessante è che finiamo per crederci veramente.

Ah, io a Cesare farò vedere solo i documentari della BBC, Rai Storia, Ian McKellen che recita Shakespeare e film polacchi d’autore. E per non più di dodici minuti al giorno – che si sa, la tv è il male e Mozart mica ce l’aveva… e non si può certo dire che fosse un bambino imbecille.
Ecco.

Il problema, però, è vasto e ramificato. E ad un certo punto, mentre intrattieni tuo figlio sul tappeto con giocattoli in legno dal dirompente potere pedagogico, ti accorgi che devi fare la cacca. O che hai il bucato da stendere. Il lavandino pieno di piatti da scagliare in lavastoviglie. Il gatto da nutrire. Il letto da rifare. Dei panni da piegare. Ventisette mail a cui rispondere. I capelli da lavare. Delle verdure da bollire.
Potresti sbrigare tutte queste utilissime faccende ancorandoti addosso un infante di undici chili per mezzo di un marsupio o di una fascia (magari la doccia no, ecco), va bene, ma ormai hai la schiena rotta e le clavicole incrinate e, in tutta sincerità, non ti va. E il tuo infante neanche ci vuole stare addosso a te mentre carichi una lavastoviglie.
Che fare, dunque?

Box. Giochi. Planet Earth su Netflix – nello specifico, la puntata con il giovane guerriero della Mongolia meridionale che si arrampica su uno sperone roccioso per procurarsi un pulcino d’aquila reale direttamente da nido, sfuggendo ai ripetuti attacchi (assolutamente legittimi) di aquile adulte con artigli lunghi una spanna e gli occhi animati da un furore omicida.
E per dieci minuti sono a posto, pensi.
Posso precipitarmi a fare la lavatrice.
Posso pelare tre carote e buttarle in una pentola.
Posso, perché è li che gioca in un luogo sicuro, con uno speaker assai rassicurante che, in un italiano forbito e correttissimo, narra le eroiche gesta di un giovane guerriero martoriato dalle aquile. Se proprio vorrà guardare, poi, non vedrà altro che favolose carrellate di steppe innevate, nuvole che si rincorrono e possenti ali che fendono il vento.

Favola.

E invece un cazzo.

Perché tuo figlio se ne frega delle aquile della Mongolia. Così come dei tuoi nobili progetti educativi e/o delle goffe strategie d’intrattenimento intermittente che metti in campo quando devi andargli a tagliare la frutta per la merenda.
Tuo figlio non li vuole i documentari, i monologhi teatrali e la musica sinfonica.
Tuo figlio vuole una cosa sola.

PEPPA PIG.

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Peppa Pig è un mistero, per me.
Come la trinità di nostro Signore.
Come il teorema di Ruffini.
Come la Cappella Sistina.
Peppa Pig può tutto. Ed è in grado di placare ALL’ISTANTE ogni malumore. Non ci ho mai provato, ma sono sicura che se lasciassi Minicuore per sedici ore davanti a Peppa Pig potrei anche uscire per andare dal parrucchiere e, una volta rincasata con la piega fatta, lo ritroverei nella stessa posizione, come un monaco che medita su un cocuzzolo innevato.
È incredibile.
Ed è un fenomeno assolutamente inspiegabile.

Nel mondo di Peppa Pig sono tutti animali. Ma questi animali hanno anche degli animali domestici. E la veterinaria è la Dottoressa Criceto – che, nell’universo che abitiamo, è a sua volta un animale da compagnia. E gli animali domestici non parlano, mentre tutti gli altri sì. Non parlano i rettili e non parlano i volatili, ma i maiali, i cani, le volpi, i conigli e le zebre dicono moltissime cose. Gli adulti, salvo rare eccezioni, sono definiti unicamente dal loro grado di parentela con Peppa o con i compagni d’asilo di Peppa. Nessuno sa come si chiami davvero Mamma Pecora, mentre Susy Pecora è una Susy, ha un nome suo. Come diavolo si chiamava Mamma Pecora da ragazza? Nella versione originale, poi, l’intero serraglio ha nomi e cognomi con la medesima iniziale. Freddy Fox. Danny Dog. Zoe Zebra. Rebecca Rabbit. In italiano diventano, inevitabilmente, Freddy Volpe, Danny Cane, Zoe Zebra (che culo!) e Rebecca Coniglio. L’unico animale non tradotto è il maiale. Quindi Peppa Pig rimane Peppa Pig. E questa discrepanza mi tormenta. Va bene perdere l’assonanza tra le iniziali, ma che Pig non diventi almeno Maiale mi distrugge. Ma mi rendo anche conto che PEPPA PORCA fosse un po’ troppo, per il traduttore. E George? Già lo odiano, è palese, ma chiamarlo pure con un nome che inizia per G invece che per P è una palese dichiarazione di guerra.

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Ma parliamo anche delle abitazioni. Perché tutti vivono sulla cima di ripidissime colline? E perché sono così felici di fare la raccolta differenziata? Perché non riescono a ridere in posizione eretta, ma finiscono regolarmente a gambe all’aria, sbellicandosi sul pavimento come dei piccioni stecchiti dal freddo? E com’è possibile che l’intrattenitore televisivo più celebre sia una gigantesca patata senziente? Perché il Signor Patata cammina e parla mentre le patate che compongono il 1000% della dieta della famiglia Pig sono inesorabilmente inanimate? Da dove viene il Signor Patata? E perché TUTTI i nonni hanno una barca? Quali droghe assume l’intera comunità degli animali per accogliere una coda infinita dovuta ai lavori stradali del Signor Toro con una tale esuberanza? Ma soprattutto, che cos’è quest’ossessione collettiva per le pozzanghere di fango? Adulti, bambini. Tutti adorano saltare nelle pozzanghere di fango – una roba che, se la vedessi fare a Minicuore, mi verrebbe un infarto. Che lavatrice hai, Mamma Pig? E come fai, Papà Pig, ad andare a ripescare dei preziosi documenti di lavoro che Peppa ti ha tirato nel laghetto delle papere – devastandoli irrimediabilmente – con quell’incredibile serenità? Perché Susy Pecora va sempre in giro vestita da infermiera? Com’è possibile che l’intera economia del luogo si regga sulle capacità di multitasking della Signorina Coniglio? Non può fare tutto lei. Gli altri non hanno bisogno di lavorare? QUANTI ANNI HA ESATTAMENTE MADAME GAZZELLA? Papà Pig non ha dei genitori? Perché dobbiamo sucarci solo i nonni materni? I nonni paterni sono diventati prosciutti? Come si fa ad appassionarsi così tanto al compostaggio? Fa schifo. Puzza. I vermi. Ma perché! Con che coraggio si decide di affidare un gruppo di dodici bambini a Nonno Pig, che si addormenta regolarmente al timone della sua bagnarola? Perché l’asilo cade continuamente a pezzi ed è necessario organizzare raccolte di beneficienza ogni quindici minuti? Di che cos’è fatto quell’asilo, di mollica di pane? Perché il Signor Toro è scapolo? Affiancargli una Signora Vacca sarebbe stato contrario alla pubblica decenza? E potrei continuare, ve lo giuro. Le domande sono potenzialmente infinite.

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Ma, per quanto io non capisca e abbia passato anni a prendermi gioco di Peppa Pig, c’è evidentemente qualcosa che non riesco a captare… ma che per Minicuore è palese. Ed è in questo mistero che si annida l’amore degli infanti per Peppa. Saranno le musichine allegre? Saranno le forme tondeggianti, gli improvvisi versi che ogni animale fa tra una battuta e l’altra? Oggi è una splendida giornata *GRUGNITO*! Oh, adoro carro attrezzi di Nonno Cane, *BAU BAU*! Saranno i colorini? La chitarrina ipnotica di Madame Gazzella? L’irresistibile bikini di Mamma Pig? L’esasperante cortesia di tutti quanti? Buongiorno di qua. Buonanotte di là. Non ho mai visto un cartone animato con così tanti convenevoli, santo il cielo.
Ma forse tutto questo non è importante. 
Perché c’è una sola cosa che conta: Peppa Pig FUNZIONA.
Grazie, dunque, Peppa. Sei una maialina di una saccenza insopportabile – e tratti sempre malissimo tuo fratello -, ma grazie a te posso fare la cacca per conto mio, senza dovermi imbragare addosso un bambino assolutamente incontenibile. E, per quanto mi ripugni ammetterlo, ti sarò per sempre debitrice.
Maledizione.

P.S. Egregio Netflix, ma un po’ di episodi nuovi non li vogliamo caricare, PERBACCO?

Direi di cominciare subito con l’oggetto più inspiegabile della wishlist di questa settimana. Perché nemmeno io so bene da dove provenga questo irrefrenabile bisogno di piazzare sulla mensola dei DVD il cofanetto completo delle sette gloriose e indimenticabili stagioni di Buffy l’Ammazzavampiri, il telefilm che rimarrà – temo – il mio preferito di sempre. Me lo voglio riguardare tutto, dalla prima all’ultima puntata. Voglio continuare a detestare Angel e a tifare tantissimo per Spike. Ci sono mille cose che non mi ricordo più – le prime stagioni le avrò viste quand’ero ancora alle elementari, fra un po’ – e lo trovo intollerabile. VOGLIO QUESTI BENEDETTI DVD PERCHÉ NON C’É UNO STRACCIO DI COSO ONLINE TIPO NETFLIX DOVE POSSO VEDERE BUFFY. E VA BENE CHE È COMINCIATO NEL 1997, MA MI PARE ASSURDO CHE NON ESISTA UN BLU-RAY RESTAURATO! È UNO SCANDALO, NON CI MERITIAMO LE PETTINATURE FAVOLA DI SARAH MICHELLE GELLAR! DOVEVI LASCIARCI SPROFONDARE ALL’INFERNO, BUFFY! GUARDA CHE ROBA, FA SCHIFO PURE L’IMMAGINE DEL COFANETTO. TUTTO QUESTO È UN SACRILEGIO BELLO E BUONO!

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Bene.
Sono calma.
Riprendiamo.

Nonostante La bella e la bestia con Emma Watson e il buon Matthew di Downton Abbey mi abbia fatto sbadigliare come nulla al mondo – seriamente, la noia che ho provato era solo parzialmente mitigata dalla continua necessità di domandarmi perché mai la povera Belle dovesse andare in giro con la gonna mezza tirata su da una parte -, comunque, il film non mi è piaciuto, ma ho scoperto che la Disney ha incaricato Christopher Kane di sfornare una costosissima capsule collection tematica, assai tamarra. E mi sono immediatamente invaghita della felpa col faccione pietrificato della Bestia. Il vero amore è orbo, no?

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È da poco uscita per Fandango una graphic-novel politicamente scorrettissima e molto ben documentata dal punto di vista storico, sociologico e scientifico dedicata all’organo sessuale femminile e alla storia della rappresentazione del corpo della donna. Si chiama Il frutto della conoscenza ed è opera di un’autrice svedese di nome Liv Strömquist che, con un grande senso dell’umorismo e una sacrosanta voglia di mandare tutti a quel paese, si è incaricata di demolire secoli di teorie strampalate e assurdi pregiudizi. Grande curiosità.

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La fashion week milanese è passata e su Instagram ho visto parecchie cose belle. Diverse tra le mie donne preferite sono andate felicemente in giro con le 289 by Saragiunti, delle borsine dall’aspetto assai coccoso e piene di trovate utili. Per dire, dentro c’è una fila di piccoli LED che si accendono per non farvi frugare invano alla ricerca dei vostri effetti personali (problema che continua ad angosciarmi non poco) e di un gioioso collegamento Bluetooth che vi farà vibrare fortissimo la borsa quando vi telefonano o vi arrivano notifiche assortite – io mi spavento con le suonerie e non mi accorgo mai della vibrazione, quindi UTILITÀ. Mi piace tanto la Cecile (qua sotto), ma approvo assai anche la Gaelle. I colori pastellosi della collezione estiva erano la vita, ma anche i neutri della nuova stagione, con la stampa con i ventaglietti d’ordinanza, mi garbano parecchio.

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E concluderei con un’altra eterna ambizione: una faccia normale. Ho provato con successo e discreta commozione la BB Cream dell’Erborian (una delle rare BB e/o fondotinta che non mi facciano diventare gialla come un omino del Lego, sgradevole faccenda che capita regolarmente con qualsiasi prodotto abbia un qualche tipo di colore) e mi piacerebbe collaudare anche la CC alla centella asiatica. Promette di illuminare e rianimare la pelle, idratando e pigmentando in maniera non troppo invasiva. Skincare koreano, soccorrimi.

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Ci sono gli spoiler della quinta stagione. Regolatevi, che ormai siete grandi.

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Dopo aver visto tutte e dieci le puntate, mi sono resa conto che la sensatezza della quinta stagione di Game of Thrones è inversamente proporzionale al grado di ubriachezza di Tyrion Lannister. Più Tyrion è sbronzo, meglio vanno le cose. Se Tyrion sfiora il coma etilico, la trama di Game of Thrones ci guadagna in struttura, sana complessità, mistero e solidità narrativa. Per dire, i primi episodi, con Tyrion che si regge a malapena in piedi e vomita a spruzzo sul tappeto, mi hanno fatto ben sperare. Pensa un po’, mi dicevo, tutti i personaggi sembrano aver raggiunto un nuovo punto di partenza! Chissà quante vicende super intriganti ci attendono! Che combineranno, cosa scopriranno, chi diventeranno! Quali mirabolanti incontri ci riserverà il destino? Non vedo l’ora di scoprirlo, sono presa troppo bene! Sarà un successo!
E invece.
Col passare del tempo – e con la diminuzione del tasso alcolemico del buon Tyrion -, è andato tutto a farsi fottere.
Non solo non è successo quasi niente, ma quel poco che è successo era quasi sempre sbagliato. Capisco che Martin, gli sceneggiatori e il Dio dell’Antico Testamento vogliano inculcarci l’idea che la vita è ingiusta, crudele, spietata e per nulla meritocratica, ma non riesco veramente ad accettare che ogni avvenimento si trasformi in uno sputo in faccia alle più basilari norme karmiche dell’universo.

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La quinta stagione di Game of Thrones, riassunta in una sola espressione facciale.

Stannis, quella scema di sua moglie e quella vacca piromane coi capelli rossi han dato fuoco a una bambina adorabile.
Sansa Stark è riuscita, non si sa come, a sposarsi con l’ennesimo squilibrato. Joffrey, in confronto a Ramsay Bolton, era Jigglypuff. E lei? Lei zero. È di un’inerzia esasperante. Incassa, soffre, piange. La maltrattano, la violentano, la chiudono in camera sua. E lei niente. La risolve buttandosi giù delle mura del castello. E tanti saluti. Sarà morta davvero? Spero di no. Se è viva, possiamo ancora prenderla a schiaffi.
Brienne conferma la sua intrinseca inutilità. Non solo ha portato una sfiga nera a tutti i malcapitati che ha servito, ma si è anche assentata nell’unico istante in cui poteva far del bene a qualcuno. Certo, mi rallegro del fatto che Stannis Baratheon sia stato squalificato dal più grande gioco dell’oca dei Sette Regni, ma avrei preferito che morisse per i cavoli suoi, senza far perdere tempo a un personaggio che, finalmente, aveva qualcosa di sensato da fare. Anche qua, furia e tormento.
Arya Stark, in tutta franchezza, non si capisce che cosa stia facendo. Sono felice che i suoi piccoli propositi di vendetta stiano procedendo, ma il Dio Multifaccia ha sonoramente rotto le palle. Mezza stagione a sorbirci Arya che spugna cadaveri, spazza il pavimento e vende ostriche a gente di cui non potrebbe importarci di meno. Fa una roba un po’ interessante – piantare coltelli negli occhi a un essere spregevole – e a smenarci è lei. Mai una gioia.
Il povero Jaime Lannister – uno che nella vita ha già la sfortuna di essersi innamorato della donna più astiosa di Westeros – la prende in quel posto nel momento più felice della sua complicata esistenza. Lo so che sei mio padre… e ti voglio bene, non preoccuparti! Ognuno ha i suoi problemi, ma io sono cresciuta a Dorne e sono una persona comprensiva. Papà! Papà, abbracciami, sono contenta! E niente, anche quella sventurata di Myrcella ci abbandona senza un lamento. Mi dispiace per lei e pure per quel suo meraviglioso abito rosa mega-vaporoso e svolazzante. E craniate nel muro per Jaime.
La sventatissima regina Cersei, invece, ha preso bene il matrimonio di quel tontolone di Tommen. Tua moglie è un po’ troppo carina, astuta e frizzante per non indispormi profondamente, figlio adorato. La neutralizzerò grazie a un gruppo di fanatici religiosi che finiranno per imprigionarmi, umiliarmi oltre il limite dell’umano e raparmi a zero. Per concludere l’opera, mi spoglieranno nuda e mi costringeranno a tornare scalza al castello con una monaca sadica che grida SHAME a ogni mio passo e una folla inferocita che mi tira la cacca in faccia. Un capolavoro di strategia.
DENERIS, dopo aver percorso miliardi di chilometri, ha deciso di fermarsi in una città di rilevanza geopolitica assolutamente nulla. Mereen. Ma chi ti caga, Mereen. Una stagione dedicata alle imprescindibili lotte di classe che tormentano il popolo di questo luogo lontano e sconosciuto. Una stagione con due draghi in cantina e un Drogon in piena fase VAFFANCULO MADRE che va a farsi i giretti dove gli pare, senza un’anima che gli insegni come si sta al mondo. E come finisce? Finisce con un drago che russa e DENERIS che va a spasso per un prato in un luogo ancor più remoto e irrilevante di Mereen. Un luogo così impervio e inutile che non ha nemmeno un nome. Così impariamo a lamentarci.
In un universo dove Ramsay prospera e Jorah viene scacciato con disonore ogni volta che apre bocca – e grazie al cielo è un tipo taciturno -, il fatto che Jon Snow venga pugnalato a morte da un ragazzino rancorosissimo mi sembra il minore dei problemi. Vi dirò, la morte di Jon Snow mi ha scioccata – cribbio, sono una persona anch’io -, ma non mi ha particolarmente rattristata. Più che altro perché tifo per l’avanzamento della storia… e Jon Snow non mi è mai sembrato un personaggio capace di inserirsi in qualche modo nel pentolone delle ostilità generali per la conquista del mondo. Da questo punto di vista, sono contenta che Tyrion e Varys – si scriverà così? – abbiano raggiunto DENERIS, sono contenta che Lord Baelish sia sopravvissuto e che Cersei sia uscita di galera. E sono colpitissima dall’esercito dei ghiaccioloni-zombie – capitanato dal Darth Maul dei frigoriferi -, ma la sfiducia comincia ad attanagliarmi. Sono di nuovo tutti sparpagliati. Non c’è giustizia. Non c’è nulla che mi faccia intravedere un remoto senso logico, una fine, qualcosa in cui sperare. Sarò poco lungimirante io, ma mi metto davanti a Game of Thrones ed è come guardare una comitiva di studenti universitari sconvolti dall’LSD che giocano a Risiko su una zattera in fiamme. La cosa che mi preoccupa di più, comunque, è che non mi sognerei mai di abbandonarli al loro fosco destino e, nonostante tutto, continuerò a guardare il maledetto Trono di Spade, dovessero ammazzare pure me. Perché, in fondo, ce lo meritiamo.

Ma chi ce lo fa fare?
Perché ci infliggiamo volontariamente questa sofferenza?
Che cosa abbiamo che non va?
Ci pagassero, almeno.
Vieni, Tegamini, questa sera ti diamo 20 euro per guardare una serie tv. Si patisce, l’ingiustizia regna sovrana e i personaggi crepano malamente ogni venti minuti. Non ti affezionare a nessuno. Non credere a niente. Non t’invasare coi costumi: vivi in un mondo dove esistono i leggings fiorati e il vajazzle, non te li puoi  mettere i vestiti delle signore di Westeros. E non pensare di vedere i draghi a ogni puntata, che farli in CGI costa un botto e i soldi bisogna spenderli per il parrucchiere di Daenerys, che quando una è Nata dalla Tempesta ha sempre i nodi nei capelli.
E invece no. Il Trono di Spade lo guardiamo. A gratis. Con una costanza e una dolentissima empatia che non riusciamo a sprigionare in nessun altro ambito della nostra esistenza. E senza manco un rimborso per lo psicanalista. Siamo qui, a farci maltrattare da un vecchio ciccione irsuto, uno che si nutre dei nostri singhiozzi e gode come un cinghiale maremmano a sminuzzare, tritare e castrare i suoi personaggi. Orfani che vagano per i Sette Regni, mani mozzate, famiglie disgregate, pecore carbonizzate, zombie ghiacciati, vendette che non funzionano e nerissima disperazione. E noi qua, tutti contenti.
Abbiamo dei problemi, altroché.
Io adesso mi metterò a parlare dei miei traumi personali legati alla quarta stagione del Trono di Spade. Dopo il Keep Calm & Valar Morghulis. Quindi se non avete ancora visto tutto, non andate avanti che se no vi spoilero.

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Devo ammetterlo. La dipartita di quel piccolo bastardo sadico di Joffrey mi ha profondamente destabilizzata. Va bene, ero contenta… voglio dire, chi non lo sarebbe? Il mondo senza Joffrey è automaticamente un posto migliore. Ma è rimasto un vuoto. Chi odierò forsennatamente, adesso che Joffrey è morto? Ma soprattutto, perché sposarsi è così incredibilmente pericoloso? Non mi è neanche piaciuto com’è crepato. Per un tipo così spregevole ci voleva la combo pubblica umiliazione+spettacolare spargimento di sangue. Una roba tipo corona sciolta in testa. Quella sì che è stata una morte seria, da brutta persona che finalmente la paga per le sue immonde malefatte. E invece no. Nessuno ha avuto l’occasione di insultarlo platealmente di fronte a una folla oceanica. Nessuno ha potuto sputazzargli in faccia, scucirgli la giubba ricamata o prenderlo a pedate nel sedere. Nemmeno il prolungato primo piano sul suo volto cianotico e agonizzante è servito a rallegrarmi. È stato un bel colpo di scena, niente da dire (e centomila punti a nonna Tyrell, megera intrigante) ma Joffrey meritava di peggio. In realtà è tutta colpa di Batman. Doveva lasciarlo in mezzo ai fuggiaschi del manicomio di Arkham o consegnarlo alla Setta delle Ombre. Loro sì che sanno pigliarti a calci in culo.

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Sei un cretino, Batman.
‘fanculo.

Continuando sul filone “Mai una gioia”, poi, sono assolutamente e irrimediabilmente devastata dalla truculenta dipartita di Oberyn Martell. Cioè, ero CERTA che avrebbe sbudellato la Montagna con quella sua ridicola lancia da majorette anoressica. Ero felice. Speravo nella giustizia, nel trionfo del bene. Tyrion salvo, regine rancorose che non rompono più i coglioni, buonsenso, arcobaleni e amore spensierato. Errore madornale. Ho detto, che diamine, Inigo Montoya ce la fa, alla fine, a vincere il duello del millennio contro l’uomo con sei dita, che ha Oberyn di meno? È anche vestito meglio.

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Che brutta roba. Ho proprio gridato. E Amore del Cuore ha buttato giù un bicchierone di vino, ma così al colpo, tipo Cersei in fase alcolismo-pesante. Ho cercato di gettarmi a terra, ma non ce l’ho fatta. Mi sono accasciata sul divano, in pigiama, balbettando una cosa tipo “basta,  io questa serie non la voglio più vedere. Non ci riesco, non si può. Lasciatemi qui, come un cavallo zoppo”.
Oberyn era una meraviglia. Oberyn Martell era lo Zlatan Ibrahimović dei Sette Regni… magari Oberyn con Piqué ci sarebbe andato giù un po’ più deciso, ma è comunque un validissimo paragone. Oberyn ha portato un po’ di festa ad Approdo del Re. Bei dialoghi, spocchia, odio sacrosanto per i Lannister, giubbe di ottimo taglio. Mi piaceva un casino, Oberyn Martell. E sono ancora incazzata come una biscia. Con tutti gli inutili che ancora respirano, ma proprio lui doveva morire? E quei pollicioni giganti, non me li dimenticherò mai. Pollicioni giganti che guizzano e spiaccicano occhi. Non ci meritavamo nulla del genere. La vita è dolore. Le tenebre hanno vinto.
‘fanculo.

OBERYN MARTELL: THE RED VIPER VERSUS GREGOR CLEGANE: THE MOUNTAI

A furia di parlare di morti – E DI CHE ALTRO DOVREMMO PARLARE, È IL TRONO DI SPADE, SANTISSIMA LA POLENTA -, mi è venuto in mente che sono molto triste anche per Ygritte. Ygritte è scomparsa da tutte le serie che guardo. In Downton Abbey è andata a fare la segretaria, mentre qua nel Trono di Spade è andata a scagliare frecce nelle verdi praterie del Paradiso dei Bruti, senza aver mai imparato a battere a macchina. La morte di Ygritte mi fa fare un passo indietro sul fronte Jon-babbacchione-Snow. Ora che non c’è più lei, tornerò a fregarmene altamente di lui. Finché c’era Ygritte, potevo sperare in una riconciliazione romantica. Mi piacevano, insieme. Ma adesso? Chi se lo piglia su, uno così? Che ce ne facciamo del suo musone corrucciato? Lo spogliassero un po’, almeno. Macché, è il più vestito dell’universo. Ha su dodici strati di pellame e lanine. Ma soprattutto, Sam Bombolone non poteva farsi gli affaracci suoi? Piccolo manovratore dell’ascensore della barriera, proprio tu, adorabile frugoletto. Lo so che non hai mai preso in mano un arco in vita tua, ma è il momento di farsi valere. Fai come me, sono imballato come un pitone che digerisce, ma ho tanto buon cuore. Lo so che hai le mutande piene, ma fai come me e impegnati al massimo, dobbiamo scacciarli questi Bruti, o sbudelleranno la ragazza che mi piace. Non ha il mento e ha fatto un figlio con suo padre, ma io la trovo celestiale. E che fa, quel piccolo derelitto? Trafigge la nostra indomita Ygritte, ma al primo colpo. Uno di sette anni che passa le giornate a far funzionare un ascensore ghiacciato nel singolo posto più triste del mondo. Come dovremmo reagire? Non sono impazzita solo perché ero anestetizzata dalla noia mortale della puntata della Battaglia della Barriera, ma c’era da prendere a ciabattate la tv. Anzi, altroché ciabatta, serviva un bello scarpone da sci.
‘fanculo.

Jon-SnowYgritte è morta.
Ma forse Ghost è una femmina!

Proseguendo nella veglia funebre, direi che i tempi in cui Tywin Lannister irrompeva nella sala del trono in groppa a un cavallo cagone sono ormai lontani. E pure lui, di cacca non ne farà più. È morto in un luogo inglorioso, va bene, ma se l’è anche un po’ andata a cercare. Il momento Apocalypse Now di Tyrion mi ha lasciata un po’ perplessa, ma con la dipartita di Nonno Lannister si aprono scenari caotici e potenzialmente molto interessanti. Coso, lì, Tommen, l’amico dei gattini, sarà un re vagamente normale? Come farà a cavarsela senza i malvagi consigli del nonno meno affabile dei Sette Regni? La sempre astuta Marjorie – Natalie Dormer, un’attrice condannata a interpretare per sempre Anna Bolena -, riuscirà a tenersi un marito? Io avrei paura a fidanzarmici, che diamine, porta una sfiga nera. E nel caso Tommen riesca a raccogliere il coraggio, le permetteranno di riciclare quella meravigliona di abito da sposa tutto rose e spine?

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Sono anche un attimo agitata per la regina della friendzone, Daenerys Cento Epiteti Targaryen. Daenerys ha messo al mondo tre draghi. I tre draghi, finalmente raggiunta l’età dell’adolescenza, sono diventati tre spaventosi e stronzissimi mostri apocalittici. Divorano quadrupedi, inceneriscono bambine, non le danno retta manco per sbaglio e, in generale, le fanno fare pessime figure. Uno è pure scappato di casa perché voleva il motorino. Io non so come funzionino i draghi, come si faccia ad addomesticarli, dove si possano tenere, se è saggio rinchiuderli in una catacomba. Io non lo so, ma Khaleesi ha un bel problemone. A Daenerys piacerebbe diventare una sovrana saggia e amata dal suo popolo di ex-schiavi sgobboni, solo che non è capace. Crocifigge gente a caso, corre ai ripari invece di dedicarsi a solide riforme strutturali, pesta una merda al giorno, parla parla e non conclude niente e, in sintesi, sta lì piantata senza sapere troppo bene il perché. Sembra il Movimento Cinque Stelle. Qualcuno deve aiutare questa benedetta ragazza. Lei s’impegna, ma la vedo assai male. E non ha nemmeno più Jorah-Casaleggio! Guarda che tristezza, non è neanche più capace di sedersi su una roccia.

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Persa ogni fiducia nella Madre dei Draghi – anche se si continua a parteggiare per la storia d’amore piuttosto difficoltosa (a livello di hardware, temo) tra Fighissima Ancella Poliglotta e Verme Grigio Immacolato -, fermamente decisa a fottermene con sportività di quello che succede ai piccoli Stark superstiti e prontissima a rimanere salda nel mio odio per Stannis e per la sua maga piromane, non mi resta che parteggiare per un unico e strabiliante eroe-canaglia: quella serpe di Lord Baelish. Un uomo che ci ha fatto la cortesia di gettare in una spaventosa voragine la nevrastenica sorella di Lady Catelyn – una che trova normale allattare ragazzini viziaterrimi alti un metro e settanta -, trasformando Sansa in una rispettabilissima dark lady. Sansa, è riuscito a scuotere Sansa dal suo torpore di santa martire. E’ come se Suor Germana avesse all’improvviso deciso di fare la spogliarellista, cacciandosi tortellini da tutte le parti. Non so neanche per che cosa dovrei tifare di preciso, ma tifo per Lord Baelish. Tifo per l’intelligenza e per le vendette trasversali a lento rilascio. E per le storie d’amore un po’ così. Amavo tua madre come la vita stessa… che dici, limoniamo?
Ma non importa.
Perché Lord Baelish è uno di noi. Lord Baelish SPOILERA. E merita il Trono di Spade.

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Ebbene, ho detto anche troppe stupidaggini. La verità è che nulla ha senso, perché Martin potrebbe decidere di squartare chiunque in qualsiasi momento. E noi qui a fare i cuoricini a Lord Baelish. Non abbiamo imparato niente, e continueremo a farci prendere per il naso come giganteschi vitelloni rincoglioniti. Non so perché ci piaccia così tanto, ma  siamo arrivati in fondo anche a questa quarta stagione, indomiti e coraggiosi. Abbiamo fronteggiato traumi inenerrabili, senza riportare danni permanentissimi. Qualche livido, dei graffietti, distorsioni al ginocchio. Insomma, congratulazioni vivissime a noi, abbiamo vinto uno stuzzicadenti in acciaio di Valyria. E non resta che una sola cosa da dire. La più importante:

H O D O R

Dovrebbe finirci lui, sul Trono di Spade. Poche balle.

Visto che sono ormai perennemente esausta, spettinata e, dalle 9.30 alle 18.30, anche discretamente infelice (cosa, però, di cui non posso in alcun modo lamentarmi perché ho il contratto a tempo indeterminato), ho deciso di puntare a un progetto di sopravvivenza graduale. Una cosa modulare, minimalista, per menti semplici e rallentate. Formulerò un solido prontuario di certezze incontrovertibili che mi aiuteranno a tornare sempre indenne a casa mia, dove c’è Amore del Cuore e tutto quello che, fondamentalmente, mi piace veder succedere. Sarà roba elementare, utile, che fa bene, risolve problemi quotidiani e indica il cammino, tipo fiaccolata coi maestri di sci. Visto che Ottone von Accidenti è ufficialmente entrato nella fase-velociraptor (ha imparato ad aprire le porte) e che, di conseguenza, mi fa dormire ancora meno perché continua ad aggeggiare l’armadio, per adesso nel magico prontuario delle certezze incontrovertibili ce ne sono solo due, di certezze incontrovertibili. Ma ce le faremo bastare.

UNO.
L’insalata nella busta, quella già lavata e tagliata, fa gonfiare la pancia.

DUE.
Voglio essere Licia Colò.

Sull’insalata credo non ci sia bisogno di ulteriori commenti. È vero e basta.
Su Licia Colò, però, due cose vorrei dirle.
Perché Licia Colò è il mio nuovo punto di riferimento e, al contrario della dinastia degli Angela, lì c’è spazio per inserirsi sul mercato. Ma procediamo con ordine, che sto già andando in confusione.

licia colò

Licia Colò fa il lavoro più bello del mondo.  Ha passato la vita ad abbracciare delfini, ad arrampicarsi su alberi di mangrovia carichi di pappagalli colorati e a vagare per rovine Maya di ogni forma e dimensione. Non c’è posto in cui non sia stata o tribù indigena che si sia rifiutata di raccontarle i suoi più reconditi segreti. Perché Licia Colò è garbata, gentile e si sa spiegare benissimo. Non ha problemi a pagaiare sul Rio delle Amazzoni, non le fa schifo mangiare formiche e si arrangia egregiamente anche senza il parrucchiere. Le danno un paio di ciabatte, una maglietta bianca e un microfono e la gettano su una spiaggia desolata, e lei non fa una piega. Si sistema gli occhiali da sole e ti racconta serenamente come si chiamano tutte le conchiglie che sta pestando. Licia Colò è un’entità superiore. Lo si capisce dall’assenza della borsetta. Perché Licia Colò, quando fa un documentario, va in giro come se fosse appena nata, senza accessori. E solo una creatura illuminata – una che percepisce anche i pensieri dei tuberi che crescono sottoterra, che ringrazia i sassi per il loro essere sassi e che vive della rugiada mattutina – può esplorare la Mongolia senza manco uno zaino. Nel 70% delle fotografie che la ritraggono, Licia Colò ha in braccio almeno un animale. Che si tratti di un gatto, di una capretta o di un panda rosso, Licia Colò ha l’aria più felice, quando la fotografano insieme a una bestia. Non che di solito sembri triste, sia chiaro. Non è nemmeno sfiorata dal tempo. Licia Colò ha più di cinquant’anni ed è bella come il sole… e noialtre, che alla mattina abbiamo la faccia grigia come una lapide di brughiera, possiamo metterci l’anima in pace e lucidarle l’intera collezione di braccialetti balinesi, una perlina alla volta.
Per queste – e molte altre ragioni –, Licia Colò va a presentare il suo programma – che si chiama Alle falde del Kilimangiaro, montagna che Licia Colò ha scalato almeno tredici volte nella sua vita, muovendo alle lacrime col suo canto anche il più spietato degli avvoltoi -, dicevamo, Licia Colò va al lavoro e si siede su un divano a forma di foglia gigante. Perché se lo è meritato.

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Licia Colò è così adorabile e serena, così bene informata e così visibilmente fiera di quello che fa – anche quando arranca per il deserto del Sahara sulla groppa di un dromedario scorbutico – che è impossibile provare dell’invidia nei suoi confronti. La guardi e vuoi essere come lei, ma non puoi volerle male per tutte le cose belle che ha visto e tutti i cuccioli di leopardo delle nevi che ha coccolato, in cima a qualche rupe scoscesa. Leopardini delle nevi con le zampe più grandi della testa. Adorabili piccole palle di pelo miagolanti, con la coda grossa così e gli occhi sgranati. Licia Colò li ha cullati TUTTI.
Ebbene.
Io penso che Licia Colò necessiti di una discepola. Perché, come accennavo poco fa, Piero Angela ha già provveduto a mettere al mondo un erede capace di governare il suo impero della garbata divulgazione. Sangue del suo sangue, poi. Piero Angela ha Alberto Angela, che è bravo quanto lui e, anzi, anche più disposto ad avventurarsi nelle catacombe e a passarci gli anni migliori della sua vita. Fateci caso, Alberto Angela è SEMPRE in una catacomba. E Licia Colò? Licia Colò non sta pensando per niente alla posterità. Licia Colò è ancora abilissima e assolutamente in grado di intrattenerci in maniera graziosa, intelligente e curiosa, ma è un po’ che non sorvola le Ande in deltaplano. E’ diventata una signora, ha raggiunto un tale livello di nobiltà che adesso sono i guerrieri masai che la vanno a trovare in studio, senza bisogno di farla impolverare o divorare dai leoni. Per quelle cose lì, le robe “sul campo”, le servirebbe un Alberto Angela, un apprendista, un padawan, un volenteroso inviato a cui insegnare tutto quello che sa. Ed è proprio questo il momento in cui un degno Colò-padawan dovrebbe iniziare il suo cammino d’apprendimento e coccole alle creature della terra.
Licia, scegli me.
Ho un grande spirito di osservazione. Sono atletica e coriacea. Scrivo senza problemi di qualsiasi cosa. Non sono schifiltosa. Amo gli animali. Mi piace viaggiare. Non vengo troppo male in video. Sono curiosa. So andare a cavallo. Sono una ricciolona bionda, come te. Chiacchiero un casino. So l’inglese alla perfezione.
Sono nata per questo.
Una volta mi hanno addirittura lasciato maneggiare una poiana di Harris.

Sono pronta, Licia Colò.
Insegnami quello che sai.
Guidami e ispirami.
Racconteremo la natura selvaggia a chi ci vuole ascoltare. Accompagneremo frotte di allegri ascoltatori alla scoperta delle meraviglie del nostro pianeta. Guarderemo il tramonto che fiammeggia sull’oceano, in mezzo a branchi di balene che sbuffano. Correremo dietro agli gnu che migrano. Ammireremo gli ippopotami, anche quando fanno la cacca… che è un processo molto schifoso, perché la frullano con la coda. Ma noi staremo un po’ lontane, e nulla di male ci accadrà.
Il mondo! La natura! La scienza! L’infinito!
Portami con te, Licia Colò.
Non ti deluderò.

La doverosa premessa è la seguente.
Con Amore del Cuore stiamo vedendo la terza stagione del Trono di Spade in italiano.
“Eh, mi sono abituato alle voci…”, vabé, che volete dirgli.
Siamo dunque indietro rispetto ai devastanti lutti che sembrano aver sconvolto i Sette Regni negli ultimi tragicissimi giorni. Non ne sappiamo niente, ma siamo già incazzati come dei marabù.

Questo post, dunque, non è altro che un grosso pippone scaramantico. Un rito propiziatorio a beneficio di DENERIS TARGARIAN, madre dei draghi. Perché se muore anche lei io il Trono di Spade non lo voglio neanche più sentir nominare.
…che poi magari è già stecchita, e sono l’unica al mondo che non ne sa niente.

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Non so voi, ma io il Trono di Spade lo guardo per le sbruffonate. Mi siedo lì, con la pizza alle olive in bilico su un ginocchio e aspetto che qualcuno ci regali un momento di sublime arroganza.
Voglio vedere Nonno Lannister che maltratta i suoi figli, TIRION che sale su uno sgabello per prendere a manrovesci GIOFFRI, la regina SERSI – sbronza come una tegola – che minaccia di morte quella falsona della sua futura nuora, personaggi a caso che fingono di preoccuparsi per quella scarognata di Sansa e cosa, là, IGRITTTTT, che dice a Jon Snow che non sa niente. E lui zitto, con gli occhioni tristi, le pive nel sacco e i geloni ai piedi.

C’è da dire che un minimo di tracotanza tocca più o meno a tutti, ma non possiamo negare che l’unica vera dispensatrice di immense soddisfazioni sia DENERIS.
Ma non c’è qualcuno là fuori che si è scritto tutta la spatafiata di epiteti onorifici della DENERIS? Che io mi ricordo solo “nata dalla tempesta”, “prima del suo nome”, “madre dei draghi”, “khaleesi” e della roba con dentro gli Andali, i Primi Uomini e un mare d’erba. Per cercare di competere con lei, sto aggiungendo titoli a caso al nome del mio gatto. Ottone von Asgard è diventato Ottone von Asgard, Ironcat Supremo, Minaccia Fantasma, Terrore dei Vegetali e Poltergeist Distruttore.

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Senza un motivo particolare, ecco perché ritengo che DENERIS sia degna della nostra stima imperitura. E pure del Trono di Spade. Anzi, mettiamola così, ecco perché DENERIS merita di sopravvivere.

– ha sposato Khal Drogo, l’unico autentico ultramanzo che mai si sia visto nei Sette Regni. E non solo l’ha sposato, ha pure conquistato il suo gigantesco cuore di pietra, trasformando il sublime energumeno in uno che riesce a dirti che sei la MOON della sua LIFE.
– sempre in tema di cuori giganti, DENERIS ha mangiato il cuore crudo di una qualche creatura imponente. Un cuore che più o meno era grosso quanto la sua testa.
– ha imparato a parlare l’assurdo idioma dei DOTRACHI, una lingua che riesce ad essere meno orecchiabile del klingon e ancor più tragicamente funestata dall’assenza di vocali.
– ha insegnato ai DOTRACHI che non si fa l’amore solo a pecorina, grugnendo e tirando i capelli.
– è riuscita ad ammazzare quel gran filibustiere di suo fratello, presuntuoso e nevrastenico, facendogli sciogliere una corona d’oro massiccio sul cranio. Una delle poche morti di tutta quanta la serie che siamo stati ben felici di veder succedere. Tanto per gradire, poi, DENERIS ha commentato che un vero drago non sarebbe mica schiattato, per un po’ d’oro fuso sulla faccia.
– DENERIS è ignifuga, lavabile ad alte temperature e immune alle bruciature solari, pure dopo cento mesi a piedi nel deserto.
– non si sa come, ha generato tre draghi. Generateli voi, tre draghi.
– i figli-draghi di Khaleesi non sono mica come quei polentoni dei vostri bambini. Dopo tre puntate sono già grossi come una Cinquecento.
– nonostante la fisionomia da piccola botte e il culotto un po’ tremolone, DENERSI va in giro nuda con la disinvoltura di una meretrice di Amsterdam. E fa bene.
– tutti si convincono che sia bionda, sventata e scema, la insultano in buffi idiomi che ritengono non possa comprendere e cercano di circuirla sventolandole davanti cassaforti vuote ma lei, alla fine, incenerisce tutti con i suoi draghi. Guerrieri, sovrani presuntuosi, maghi pelati, schiavisti sadici, poco importa. I draghi non si formalizzano.
– è in grado di suscitare devozioni e fanatismi che nemmeno una religione monoteista. La incontri, e dopo cinque minuti le giuri fedeltà eterna, le dici che la servirai per sempre (anche se non sei più uno schiavo) e inizierai a fissarla con l’espressione rapita dell’orfanello di fronte alla vetrina del pasticcere. I cavalieri la adorano. Gli schiavi (e gli ex-schiavi) la venerano. I draghi la rispettano (anche se sono ormai degli adolescenti) e fanno tutto quello che le pare. Avrà pure qualcosa, sta benedetta ragazza.
– è piacevolmente malvagia. Sangue! Fuoco! Trucidateli tutti! Una città, invadiamola!
– senza apparenti sforzi, Khaleesi ci commuove con acconciature sempre più strabilianti. Comincio a sospettare che i tre figli-draghi, oltre ad essere delle perfette macchine di morte, siano anche un po’ parrucchieri, sotto sotto.

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Ma soprattutto, Khaleesi va salvata perché ha sempre qualche straordinaria fissazione. Nella scorsa stagione aveva perso i draghi… e ogni battuta che le toccava conteneva almeno una volta un “DOVESONOIMIEIDRAGHI?!”. Nella prima gridava che era una CALISI ogni tredici secondi. Nella terza serie, invece, ce l’ha su con gli eserciti – mai abbastanza imponenti – e con l’abolizione della schiavitù – mi sa che uno degli epiteti onorifici era anche un modestissimo “distruttrice di catene”.
Deve vivere, deve vivere e regalarci qualche invasamento nuovo.
Voglio vedere cosa succede con quel capellone dei Secondi Figli, che sembra un po’ un Conte Fersen con più fossette. Ma soprattutto la DENERIS deve saltare in groppa a DRACARIS e volare da qualche parte. Facciamo spendere alla HBO una barca di soldi per un bell’effettone speciale di DENERIS che devasta una pacifica contrada – colpevole solo di aver ospitato un Lannister, una cinquantina d’anni prima – dalla groppa spinosa di un drago-figlio.

Eddai.
Fateci divertire.
Lasciate vivere Khaleesi!

 

***

Ci sono molte cose che non capisco. Non capisco come si fa ad andare sui pattini a rotelle e non ho mai risolto un problema di fisica senza demolire con la mia ignoranza qualsiasi genere di teoria su spazio, tempo e moto. Non capisco nemmeno come facciano i soffitti a stare su o per quale motivo gli aerei riescano a decollare, quindi potrete ben immaginare le enormi asperità cognitive che devo ogni volta superare quando inquadrano Don Draper.
Bene.
Per ora ho visto solo le prime tre stagioni di Mad Men, quindi potrei sbagliarmi molto e tanto e potrei anche farvi un po’ ridere perchè qua sapete tutti quanti che cosa succederà mentre a me al massimo è capitato d’inciampare in qualche spoiler mentre mi facevo tranquillamente i fatti miei, ma vorrei togliermi numerosi pesi dal cuore.
Perchè Don Draper è una brutta persona. E quel che è peggio è che fa finta di essere interessante.

A scanso di equivoci, dirò subito che Don Draper è pazzescamente un bell’uomo. Don Draper è il motivo che ha spinto l’universo a inventare i completi giacca-pantalone-camicia-cravatta. A nessuno al mondo stanno bene come a lui. Don Draper è così bello che gli unici muscoli facciali che ritiene valga la pena muovere sono quelli della fronte e delle sopracciglia… e ciao, ovaie, ciao. Rilevantissima, poi, nell’economia morfologica di Don Draper, è anche la sua cospicua massa: Don Draper è un grosso uomo. Alto, con le spallone, solido… tizi del genere sono fatti apposta per demolire dubbi e difficoltà con la sicurezza di una rompighiaccio artica. E se non ci riescono fa lo stesso, perchè si potrà sempre rannicchiarsi a piangere sul loro ampio torace, villoso al punto giusto. Don Draper è ben consapevole della sua vergognosa avvenenza e dell’affascinante ingombro che produce quando mette piede in una stanza e, come ogni bieco opportunista, si comporta di conseguenza. Perchè Don Draper non si siede su un divano, fa draping. E può farlo solo lui, perchè anche mezzo stravaccato e con l’inevitabile accenno di doppio mento che ti esce quando ti metti così, Don Draper ti fa capire che non solo non gliene frega una frolla di niente, ma anche che è così tanto meglio di te da poterti ricevere a pancia all’aria e continuare a fumarti in faccia in tutta tranquillità. E questo vale per gli uomini, perchè le donne vorranno semplicemente essere il divano e continuare a versargli da bere.

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back-draping


front-draping

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Ora, che altro ha Don Draper, oltre alla capacità di essere un figo che fa il figo? Parliamone, perchè qua diventa difficile.
Prima di tutto, mi pare che ci sia dell’invidia. Don Draper alza il telefono e lo ricoprono di dollari. Minaccia di andarsene e lo ricoprono di dollari. Fa una roba bene, senza nemmeno tanto impegnarsi, e lo ricompensano con un bonus d’indicibile sostanziosità. Arriva in ufficio a mezzogiorno e quaranta, s’addormenta in poltrona e scompare quando gli pare. È in grado di propinare qualsiasi tipo di fandonia alla moglie senza che lei sospetti minimamente – per lungo tempo – di essere la più cornificata del Nord America. Maltratta segretarie e sottoposti e non solo nessuno gli dice che è un stronzo, ma tutti continuano a pendere dalle sue labbra e a mettere la testa sul ceppo, pronti per farsela amputare. Non solo, Don Draper talmente poco incline a provare simpatia per qualcuno da spingere orde di personaggi primari e secondari a stendersi sui binari del treno pur di suscitargli anche solo una minima reazione di umana fraternità. Perchè se uno che non sorride mai decide di sorridere a te, vuol dire che hai capito tutto dalla vita.

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non esistono immagini di Don Draper che sorride anche con i denti. È come Posh Spice.

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Ora, invidiamo Don Draper per lo status di pubblicitario luccicante, per la famiglia all’apparenza perfetta e per le macchine via via sempre più sbruffone. E sul fatto che sia bello e ricco ci siamo, ma non so bene decidere se sia anche intelligente. Perchè Don Draper parla poco… e quando parla si esprime per aforismi, distillando perle di pessimismo cosmico che, onestamente, non credo siano poi troppo più interessanti di quello che viene da dire a me o a voi appena dopo aver pestato una cacca di cane mentre si passeggiava coi sandali. Tipo:

You want some respect? Go out there and get it for yourself.

I can’t decide… if you have everything… or nothing.

If you don’t like the conversation, change it.

I hate to break it to you, but there is no big lie, there is no system, the universe is indifferent.

Ecco. Sarebbe ora di sfatare un mito troppo ben radicato: non è vero che ogni volta che uno che parla poco decide di parlare sia solo per dire cose fondamentali e meravigliose. Magari uno parla poco e quando dice qualcosa è per regalarci una cazzata tonante. Non è che perchè non ci fa l’onore di farsi sentire più spesso vuol dire che sta lì seduto a cercare di portare ordine nell’immenso turbinare del suo animo profondissimo e tormentato. Ci sono scene interminabili in cui vediamo Don Draper seduto alla scrivania con un bicchiere in mano, o davanti alla finestra con un bicchiere in mano, o a fissare il vuoto con un bicchiere in mano… e lo vediamo lì, col suo cipiglio da reggo-il-mondo-sulle-vertebre-cervicali e diamo per scontato che nella sua mente si stia formando chissà quale brillantissima perla immortale. La verità è che quando Don Draper è cipigliato e immobile col bicchiere in mano forse sta solo pensando ai suoi calli.
Bisogna però ammettere che Don Draper se la cava molto bene nell’intortare i clienti e nel farsi venire improvvisi colpi di genio nel bel mezzo di riunioni fondamentali per la salvezza dell’intera isola di Manhattan. Sempre che servano, questi colpi di genio, perchè di solito basta insultare un po’ Peggy – facendola sentire grassa, inutile, inadeguata e perennemente in debito per essere stata promossa ad account – per spronarla a sfornare un miracolo della moderna pubblicità da sbandierare in giro come frutto delle fatiche congiunte del dipartimento creativo tutto. Che gli è venuto in mente a Don Draper, a parte modi sempre più raffinati per far scoppiare il fegato a Pete Campbell? Insomma, avrà carisma, che vi devo dire. Se mi alzo la mattina e appena arrivo vi regalo un concentrato di cinismo in sette parole mi verrete tutti quanti a rispondere che sono cupa e inopportuna. Lo fa Don Draper e volano i reggiseni. Carisma, sarà il carisma.
E questa cosa del parlare poco e fissare intensamente oggetti a caso, tanto per far pensare di essere assorti e di celare un iceberg sommerso di straordinaria lucentezza, è una di quelle cose che piacciono tanto alle donne. Oh, bel tenebroso, intravedo la tua sofferenza, scorgo in lontananza l’immane fardello che grava sul tuo grande cuore… ma con quanta virile discrezione sopporti tutto questo, devi veramente essere una creatura speciale! Tieni, mi leverò le mutande per esserti di qualche conforto. Oh, che onore essere al fianco di un uomo così complesso!

***


Oh, me misera.

***

La verità è che non comprendo molto bene nemmeno le scelte sentimentali di Don Draper. Perchè posso anche farmi andar bene che uno cambi identità e si faccia strada nel mondo a colpi di energiche spallate e frasi ad effetto, quel che non mi garba è l’apparente casualità del chi va a letto con chi. Ora, Betty Draper ha un sacco di problemi – è variamente nevrastenica, sempre inversa e risentita, vanesia e ipocrita -, ma non mi è mai sembrata peggio di molte amanti “stabili” del suo consorte. E se riesco a capire che con una moglie del genere ti possa anche venire spontaneo trombare una svagata e allegra illustratrice del Village o una vacchetta scarruffata che ti salta addosso in California, quello che non accetto sono le concubine che hanno più problemi della legittima consorte. O che sono pure più racchie. Che roba è, impelagarsi con una vecchia gallina ninfomane, moglie del comico più sgradevole e vendicativo del mondo? E la maestrina con la sindrome del cucciolo abbandonato che cerca però di farci credere di essere una donna indipendente e coraggiosa? Per carità, Don Draper poteva utilizzare la medesima quantità di sbattimento impiegata per far funzionare le sue storiacce extraconiugali per che ne so, dire sei parole in più a quella squinternata di sua moglie, invece che gridarle di andare dallo psicologo quando finalmente decide di ripudiarti.
Quello che mi fa più arrabbiare, però, è che a Don Draper non si può dire niente. E l’infanzia difficile, e la guerra, e la famiglia povera e cattiva. Prendersela con Don Draper è vietato, perchè ti fa sembrare una brutta persona, poco sensibile al travaglio dell’animo umano. In realtà tollero Don Draper perchè ho una motivazione ben più solida per guardare Mad Men…  sopporto Don Draper – consolandomi a tratti con la sua incommensurabile presenza scenica – perchè in Mad Men c’è anche Joan. E nel mio cuore spero che Joan spacchi un vaso in testa pure a lui.

***


So tutto, sono fighissima e pure indispensabile. E se mi fate suonare la fisarmonica ancora una volta, giuro che vi cavo gli occhi con un cucchiaio.