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The Year of Magical Thinking

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Gli abitanti del mondo civilizzato hanno cominciato a leggere Joan Didion circa mezzo secolo fa. E hanno fatto proprio bene. Noialtri, amici del fashionably-late, ci siamo arrivati parecchio dopo. Un po’ per questioni anagrafiche e un po’ per negligenza. Visto che non si può fare granché per riavvolgere il tempo – come The Year of Magical Thinking ampiamente dimostra -, accontentiamoci di questa felicità a scoppio ritardato, che riempirà il nostro futuro di meraviglie ancora sconosciute. Ormai ho deciso di prenderla così: non sono l’ultima della Terra, sono una che ha ancora un sacco di bei libri da scoprire. E ciao.
Joan Didion, lo so per certo, non ha per niente bisogno dei miei evviva. Creatura mitologica dal caschetto infrangibile e dall’intelligenza portentosa, a ottant’anni suonati ha anche deciso di fare la modella, innalzando di circa millemila punti il suo già considerevole livello di LEVATEVI.

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Non potendomi permettere un guardaroba Céline – roba che, con ogni probabilità, mi starebbe pure malissimo -, ho allegramente ordinato The Year of Magical Thinking – in italiano può soccorrervi il Saggiatore – e Play It As It Lays – idem come sopra -, preparandomi a un supremo sbudellamento. L’anno del pensiero magico, infatti, nasce da una tragedia improvvisa e terrificante. La Didion e il marito – sposati (e innegabilmente simbiotici) da quarant’anni – si siedono a tavola come tutte le sere. La Didion si inventa qualcosa da mangiare, c’è il camino acceso, la tavola è apparecchiata. Niente di che… a parte John che ci rimane secco. Ma così, senza un lamento. Arresto cardiaco e morte subitanea, con buona pace di paramedici, infermieri, portieri e dottori. E già ci sarebbe panico a sufficienza. Ma mica finisce lì. Mentre il padre stramazza sulle piastrelle, Quintana Roo – l’unica figlia della Didion e del fulmineamente scomparso messer Dunne – è in coma in ospedale, in preda a una mostruosa setticemia dovuta all’imprevedibile degenerazione di un’influenza apparentemente banale. Ed è pure la settimana del santo Natale.
Aiuto.
Quando ho scoperto per bene di che parlava questo libro, devo ammetterlo, un paio di domande me le sono fatte. Ma voglio leggerlo davvero? A te le storie – più o meno autobiografiche – dove la gente soffre, si dispera e rantola non piacciono mica, gioiosa Tegamini. Non ti fanno bene. Le malattie, per carità. Un libro intero sullo star male, santo il cielo. Il lutto, il rimorso, il terrore dell’ignoto. L’impotenza e la solitudine. Mariti che crepano, figlie in fin di vita. Funerali, cremazioni.
Ma chi te lo fa fare. A te garbano i gattini.
…i gattini, però, possono anche decidere di cavarti gli occhi.

The Year of Magical Thinking, pur mettendoci addosso una paura infinita, è una lettura di rara bellezza. Dopo Livelli di vita di Julian Barnes mi ero quasi convinta che si potesse parlare della morte della persona che più amiamo solo costruendo delle metafore ariose e leggere. Palloni, mongolfiere, corteggiamenti leggendari, cadute e risalite. Anche in Barnes c’è una storia di quotidianità, c’è l’incapacità di accettare un evento troppo enorme per essere mai compreso davvero. Ma tutto questo arriva dopo, come se il dolore più tremendo avesse bisogno di un cuscinetto incredibilmente robusto. Te lo racconterò, ma prima ho bisogno di scavarci attorno un fossato. Che il fossato sia fatto d’aria, poco importa. Joan Didion non fa niente di tutto questo. Ci sono fatti, diagnosi, date, luoghi precisi. Da subito, da sempre. C’è la meccanica di un cuore che smette di battere. E c’è l’ingranaggio di un dolore che si mette in moto, tirandosi dietro i ricordi di una vita intera. Ci sono le domande che ci facciamo tutti – ho apprezzato abbastanza questo momento? Ho davvero capito che cosa volevi dirmi? Abbiamo fatto le scelte giuste? Che cosa resterà di noi? -, portate alle estreme conseguenze… visto che, dall’altra parte, non c’è più nessuno che potrà risponderci. Ci sono silenzi, panico, aerei da prendere e hamburger da condividere su una pista d’atterraggio. Ci sono nuove emergenze e speranze da nutrire. E ogni angolo diventa una trappola, perché anche il minimo dettaglio può far riemergere qualcosa che non possiamo controllare: la memoria dei momenti felici. Il ricordo di una fiducia assoluta, la consapevolezza di aver scacciato la solitudine.
Porca miseria.
Quanto diamine fa patire, questo libro.
E quanto ti fa venire voglia di prendere per mano qualcuno e ricordare alla perfezione ogni passo che si farà insieme, dai pezzetti che si perdono per la strada ai discorsi che ci insegnano qualcosa. I dettagli giganti e le stupidaggini piccolissime. Il perché ci sembrava di essere al posto giusto, per una volta. Vorrete tenervi tutto. E portarlo con voi… come una cassetta degli attrezzi che vi augurerete di non dover mai usare.

Ecco.

Passatemi un gattino – anche uno di quelli cavaocchi -, che devo soffiarmi il naso. Di nuovo.