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La vita facile – in libreria per e/o con la traduzione di Edoardo Andreoni – è il romanzo d’esordio di Aisling Rawle, scrittrice irlandese under30 – avrà usufruito del celeberrimo sussidio governativo per artisti che così tanto pare aver sostenuto la creatività autoctona? Buon per lei, in tal caso – e racconta da cima a fondo una stagione di un reality show. Un po’ gioco delle coppie, un po’ survival, un po’ Grande Fratello.
I concorrenti, all’inizio, sono una ventina. Stanno in mezzo al deserto in un compound grande ma non sfarzoso e non hanno mai contatti con il pubblico – per intenderci, non c’è la serata settimanale con la diretta tv e le eliminazioni non dipendono dal televoto o dalla volontà degli spettatori. Devono svolgere delle prove collettive – obbligatorie per tutti – e delle prove individuali in cambio di premi tangibili. I premi sono oggetti che possono aiutarli a vivere meglio o a mangiare (si va dagli attrezzi alle bistecche) e assumono più o meno centralità a seconda della situazione “pratica” della comitiva. Chi dorme da solo viene eliminato all’alba, incoraggiando indirettamente a formare delle coppie il più possibile stabili (e rigorosamente etero).

Come in tutti i reality, c’è la strisciante spinta a rendersi interessanti e/o appetibili ai generosi brand che distribuiscono i premi – e che vanno ringraziati sonoramente -, ma per un lunghissimo lasso di tempo a tutti è proibito condividere informazioni personali o inerenti alla propria vita “fuori”. Quel che sappiamo del fuori, in generale, è poco, ma il mondo è inevitabilmente un brutto posto dove si tira avanti a fatica, c’è la guerra, si sta male – o sicuramente peggio che in un villone con la piscina dove ogni tanto puoi aspettarti di ricevere degli orecchini di diamanti per aver accettato di cagare per terra di fronte ai tuoi coinquilini.
I concorrenti sono invariabilmente giovani, belli o bellissimi e cementati in una dicotomia maschi/femmine che riporta le dinamiche sociali al possesso, al potere derivante dalla forza fisica e alla minaccia costante della violenza, dato che le regole di convivenza sono fondamentalmente auto-imposte. Un po’ burattini e un po’ pagliacci disperati, un po’ bamboline e un po’ Ken, tutti quanti cercano di sopravvivere e di capire che cosa diavolo ci sono andati a fare lì.
Noi giochiamo insieme a Lily, dotata di flessuosa beltà ma di limitate facoltà intellettive – lo dice lei e lo vediamo noi. Lily pare sprovveduta, indifesa e fondamentalmente inetta, oltre che priva di una direzione. È entrata perché fuori non era niente e adesso che è dentro teme che quel niente non dipenda dal contesto ma sia proprio roba sua. Avrà ragione? Quanto avanti arriverà, anche se non ha proprio niente da dire?

Non ero convintissima, all’inizio. Troppi personaggi sbozzati, troppa gente che ti appare indistinguibile e una “produzione” che non li mette a fare nulla di eclatante. Poi m’è venuto in mente che forse i reality sono un po’ così per davvero, quando si comincia. Il romanzo si riprende, man mano, e diventa in effetti uno spettacolo che si fa guardare proprio perché è orribile. Non ci fa onore, voler leggere (o voler guardare) quando le cose vanno a ramengo, i rapporti si deteriorano o il degrado esplode, ma credo sia proprio il punto della questione. Sono loro dentro o siamo noi fuori a fare più schifo? Ma soprattutto, chi crediamo di essere? Non stiamo forse partecipando anche noi?
Se vi aspettate grandi macchinazioni lasciate stare, Lily non è una stratega, non più di quanto potrebbe esserlo una bambina piccola dal senso etico labile – per forza di cose – e dallo spiccato istinto di sopravvivenza – per forza di cose 2. È un romanzo che ha però una certa capacità di ipnotizzare, la medesima dei prodotti tv che riproduce. Vi disgusterà, ma più per il rapporto rapace e viscerale con gli oggetti che per quello che si fa per ottenerli. A che serve, tutta questa roba? Oltre a una certa soglia, serve solo a farci un mucchio grottesco e inutile in mezzo a un prato bruciato. È vero per loro che stanno “dentro”….. e forse anche per noi che stiamo fuori.

Di gender-gap nelle professioni tecnico-scientifiche e nella ricerca d’ambito STEM si parla in abbondanza ancora oggi, quindi figuriamoci com’era l’andazzo negli anni Sessanta. In Lezioni di chimica – uscito in italiano per Rizzoli con la traduzione di Anna Rusconi – Bonnie Garmus sceglie quell’epoca lì per la sua Elizabeth Zott, chimica autorevolissima e signorina con zero voglia di allinearsi al modello della casalinga suburbana. La storia di Zott è una specie di ripasso delle rivendicazioni femministe di base perché, per quanto la protagonista aborri la condizione di moglie e madre, la platea che più le darà credito sarà proprio quella. Come ci arriva? Con la TV.

Lezioni di chimica - Bonnie Garmus - Libro - Rizzoli - Varia narrativa  straniera | IBSZott trova un lavoro in un istituto di ricerca popolato da sgobboni e opportunisti che dispone di un unico vero genio. Questo Calvin Harris è un tipo strambo, che socializza poco e ha la fama di legarsi al dito anche il più minuscolo sgarbo. I due, tra un becco Bunsen e l’altro, si innamorano e trovano il modo di essere intelligentissimi insieme. Destano gran scandalo, ovviamente, perché convivono senza essere sposati e lui ha l’ardire di trattarla anche come una collega vera. Creano una famiglia atipica – che riscatta entrambi dal disastro dei loro nuclei di provenienza – , ma nel loro microcosmo tutto funziona….. fino a un cataclisma improvviso. Che ne sarà di Zott? E della figlia che non ha mai voluto ma le è rimasta sul groppone?
Di fatto estromessa e scacciata da quei mentecatti dell’istituto, Zott coglierà al balzo un’occasione economicamente redditizia e, dato che è pure bella e magnetica, diventerà la conduttrice di Supper At Six, un programma di cucina di fascia pomeridiana. Il network sperava di aver assunto una rassicurante massaia, ma Zott trasformerà lo show in una lezione di chimica….. e di proto-femminismo.

Allora, l’ho trovato piacevolissimo, nonostante Zott sia un personaggio che risulta paradossalmente statico. Certo, si riadatta agli accidenti e alle opportunità della vita, ma la sua inflessibile fedeltà a una vocazione scientifica e al rifiuto di qualsiasi convenzione o compromesso sembrano far parte del suo patrimonio genetico, prendere o lasciare. È corretto, mi vien da dire, che Zott sia così, proprio perché il contesto a cui appartiene si aspetta femmine docili, obbedienti, prive di opinioni e di ambizioni, decorative e malleabili, ignoranti e inoffensive: Zott non ha la minima intenzione di rispondere alle aspettative, ma si aspetta invece che sia il mondo a cambiare e lo affronta come se toccasse a lei fare da prototipo, mostrando che un’altra strada dovrebbe essere possibile. Certo che è una specie di monolito alieno, perché se si ammorbidisse anche solo di tanto così il bel soufflé che è questo romanzo si sgonfierebbe, rassegnandosi a somigliare al compromesso imperfetto e quasi sempre iniquo dei nostri percorsi “veri”.

Zott prende sul serio le donne che la guarderanno – prima allibite e poi sempre più gasate – alla TV, le tratta come degli esseri umani capaci e autorevoli, le istruisce e le incuriosisce. E lo fa da persona che condivide il medesimo “svantaggio” di partenza e che ha pagato a caro prezzo quell’intransigenza che, almeno da fuori, risulta così d’ispirazione, così “potente”. Zott non cambierà nulla, dalla mattina alla sera, ma nell’improbabile esperimento che è la sua esistenza non c’è spazio per i vecchi dogmi. Chi l’ha detto che non ci arriviamo, che siamo meno brave, che il nostro posto è solo questo? Voi? Sarebbe meglio verificarlo, se non vi dispiace. Forza, il laboratorio è per di qua – sembra una cucina? Guardate meglio.

[Sì, sono consapevole dell’esistenza della serie TV ma non l’ho ancora vista, anche se mi garberebbe molto capire com’è. Il fatto che sia prodotta da AppleTV fa ben sperare.]

Sei la bambina più bella, brava e intelligente del mondo, Sabrina Mannucci. Il tuo sarà un avvenire luminoso. L’universo intero ti deve ammirazione e ti sarà devoto, perché ogni qualità umana e ogni talento confluiscono nella tua personcina. Fama e fortuna, gloria e felicità ti apparterranno di diritto e, di riflesso, eleveranno la tua famiglia, che ti ha amata, “vista” e sostenuta come meriti. È il 1977, Sabrina è pronta per salire sul palco dello Zecchino d’Oro e tutto questo sembra ancora plausibile. Ma i poteri del Mago Zurlì basteranno?

Figlia di un funzionario RAI di caratura irrilevante – ma certo di contare moltissimo -, Sabrina cresce con la ferrea convinzione di essere speciale per davvero. Riccardo, suo padre, la porta in palmo di mano e sembra puntare su di lei – il cavallo migliore tra i figli – per iniziare un’ascesa in piena regola. Da famiglia piccolo borghese – con tutte le grettezze del caso – i Mannucci possono fare di meglio, possono seriamente tentare di insinuarsi nei giri che contano. Sabrina è uno strumento d’interposta ambizione e il prodotto mostruoso delle illusioni e delle frustrazioni altrui. La televisione è sempre accesa, pronta a istruire il pubblico su cosa sia legittimo sognare e a fornire un traguardo sempre visibile da tagliare: se arrivi qua dentro sei a posto, tutto cambierà.
Nel 2007, ritroviamo i Mannucci al capezzale di Riccardo e scopriremo gradualmente che ne è stato di loro. Sabrina sarà riuscita ad agguantare l’avvenire promettente tanto agognato? Sarà riuscita a trovare qualcuno capace d’amarla quanto l’ha amata suo padre? La famiglia sarà finalmente stata accolta nella cerchia dei ricchi e dei potenti? Son davvero tutti stupidi, brutti, grassi, ignoranti e grezzi a parte Sabrina o, nemmeno troppo in profondità, c’è sempre stato qualcosa di tragicamente sbagliato? E per noi che leggiamo, sarà così mostruoso tifare per il fallimento di Sabrina?

Sabrina è un personaggio ciabattesco da manuale. Contiene illusioni, vanagloria, megalomania e tutte le spiacevolezze e le robe orrende che vorrei tanto poter dire di non aver mai sentito crescendo, ma nel credersela così tanto si smaschera da sola e ci offre anche la possibilità di trovarla patetica e vittima di un contesto altrettanto “piccolo”. È l’eterna lotta tra pezzenti e ricchi, ultime ruote del carro e blasonati dirigenti, umili ingranaggi e macchinari pesanti. Nel rifiutarsi di restare al proprio posto possono emergere virtù e meraviglie che migliorano l’universo, ma non è il caso dei Mannucci. In loro si riassume molto di quello che non va nella “catena alimentare”, ma fanno parte del problema. Sperare non è peccato, ma è l’assoluta ineleganza con cui falliscono a risultare ripugnante. Anche quella, però, è una pura questione d’apparenza. Volete leggere qualcosa di malvagio? Sabrina è qua per voi.

[Vi va di ascoltarlo come ho fatto io? Trovate I giorni felici di Teresa Ciabatti su Storytel. Vi ricordo che passando per di qua vi donano un periodo di prova gratuito “prolungato” – 30 giorni invece di due settimane.]

Visto che sono ormai perennemente esausta, spettinata e, dalle 9.30 alle 18.30, anche discretamente infelice (cosa, però, di cui non posso in alcun modo lamentarmi perché ho il contratto a tempo indeterminato), ho deciso di puntare a un progetto di sopravvivenza graduale. Una cosa modulare, minimalista, per menti semplici e rallentate. Formulerò un solido prontuario di certezze incontrovertibili che mi aiuteranno a tornare sempre indenne a casa mia, dove c’è Amore del Cuore e tutto quello che, fondamentalmente, mi piace veder succedere. Sarà roba elementare, utile, che fa bene, risolve problemi quotidiani e indica il cammino, tipo fiaccolata coi maestri di sci. Visto che Ottone von Accidenti è ufficialmente entrato nella fase-velociraptor (ha imparato ad aprire le porte) e che, di conseguenza, mi fa dormire ancora meno perché continua ad aggeggiare l’armadio, per adesso nel magico prontuario delle certezze incontrovertibili ce ne sono solo due, di certezze incontrovertibili. Ma ce le faremo bastare.

UNO.
L’insalata nella busta, quella già lavata e tagliata, fa gonfiare la pancia.

DUE.
Voglio essere Licia Colò.

Sull’insalata credo non ci sia bisogno di ulteriori commenti. È vero e basta.
Su Licia Colò, però, due cose vorrei dirle.
Perché Licia Colò è il mio nuovo punto di riferimento e, al contrario della dinastia degli Angela, lì c’è spazio per inserirsi sul mercato. Ma procediamo con ordine, che sto già andando in confusione.

licia colò

Licia Colò fa il lavoro più bello del mondo.  Ha passato la vita ad abbracciare delfini, ad arrampicarsi su alberi di mangrovia carichi di pappagalli colorati e a vagare per rovine Maya di ogni forma e dimensione. Non c’è posto in cui non sia stata o tribù indigena che si sia rifiutata di raccontarle i suoi più reconditi segreti. Perché Licia Colò è garbata, gentile e si sa spiegare benissimo. Non ha problemi a pagaiare sul Rio delle Amazzoni, non le fa schifo mangiare formiche e si arrangia egregiamente anche senza il parrucchiere. Le danno un paio di ciabatte, una maglietta bianca e un microfono e la gettano su una spiaggia desolata, e lei non fa una piega. Si sistema gli occhiali da sole e ti racconta serenamente come si chiamano tutte le conchiglie che sta pestando. Licia Colò è un’entità superiore. Lo si capisce dall’assenza della borsetta. Perché Licia Colò, quando fa un documentario, va in giro come se fosse appena nata, senza accessori. E solo una creatura illuminata – una che percepisce anche i pensieri dei tuberi che crescono sottoterra, che ringrazia i sassi per il loro essere sassi e che vive della rugiada mattutina – può esplorare la Mongolia senza manco uno zaino. Nel 70% delle fotografie che la ritraggono, Licia Colò ha in braccio almeno un animale. Che si tratti di un gatto, di una capretta o di un panda rosso, Licia Colò ha l’aria più felice, quando la fotografano insieme a una bestia. Non che di solito sembri triste, sia chiaro. Non è nemmeno sfiorata dal tempo. Licia Colò ha più di cinquant’anni ed è bella come il sole… e noialtre, che alla mattina abbiamo la faccia grigia come una lapide di brughiera, possiamo metterci l’anima in pace e lucidarle l’intera collezione di braccialetti balinesi, una perlina alla volta.
Per queste – e molte altre ragioni –, Licia Colò va a presentare il suo programma – che si chiama Alle falde del Kilimangiaro, montagna che Licia Colò ha scalato almeno tredici volte nella sua vita, muovendo alle lacrime col suo canto anche il più spietato degli avvoltoi -, dicevamo, Licia Colò va al lavoro e si siede su un divano a forma di foglia gigante. Perché se lo è meritato.

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Licia Colò è così adorabile e serena, così bene informata e così visibilmente fiera di quello che fa – anche quando arranca per il deserto del Sahara sulla groppa di un dromedario scorbutico – che è impossibile provare dell’invidia nei suoi confronti. La guardi e vuoi essere come lei, ma non puoi volerle male per tutte le cose belle che ha visto e tutti i cuccioli di leopardo delle nevi che ha coccolato, in cima a qualche rupe scoscesa. Leopardini delle nevi con le zampe più grandi della testa. Adorabili piccole palle di pelo miagolanti, con la coda grossa così e gli occhi sgranati. Licia Colò li ha cullati TUTTI.
Ebbene.
Io penso che Licia Colò necessiti di una discepola. Perché, come accennavo poco fa, Piero Angela ha già provveduto a mettere al mondo un erede capace di governare il suo impero della garbata divulgazione. Sangue del suo sangue, poi. Piero Angela ha Alberto Angela, che è bravo quanto lui e, anzi, anche più disposto ad avventurarsi nelle catacombe e a passarci gli anni migliori della sua vita. Fateci caso, Alberto Angela è SEMPRE in una catacomba. E Licia Colò? Licia Colò non sta pensando per niente alla posterità. Licia Colò è ancora abilissima e assolutamente in grado di intrattenerci in maniera graziosa, intelligente e curiosa, ma è un po’ che non sorvola le Ande in deltaplano. E’ diventata una signora, ha raggiunto un tale livello di nobiltà che adesso sono i guerrieri masai che la vanno a trovare in studio, senza bisogno di farla impolverare o divorare dai leoni. Per quelle cose lì, le robe “sul campo”, le servirebbe un Alberto Angela, un apprendista, un padawan, un volenteroso inviato a cui insegnare tutto quello che sa. Ed è proprio questo il momento in cui un degno Colò-padawan dovrebbe iniziare il suo cammino d’apprendimento e coccole alle creature della terra.
Licia, scegli me.
Ho un grande spirito di osservazione. Sono atletica e coriacea. Scrivo senza problemi di qualsiasi cosa. Non sono schifiltosa. Amo gli animali. Mi piace viaggiare. Non vengo troppo male in video. Sono curiosa. So andare a cavallo. Sono una ricciolona bionda, come te. Chiacchiero un casino. So l’inglese alla perfezione.
Sono nata per questo.
Una volta mi hanno addirittura lasciato maneggiare una poiana di Harris.

Sono pronta, Licia Colò.
Insegnami quello che sai.
Guidami e ispirami.
Racconteremo la natura selvaggia a chi ci vuole ascoltare. Accompagneremo frotte di allegri ascoltatori alla scoperta delle meraviglie del nostro pianeta. Guarderemo il tramonto che fiammeggia sull’oceano, in mezzo a branchi di balene che sbuffano. Correremo dietro agli gnu che migrano. Ammireremo gli ippopotami, anche quando fanno la cacca… che è un processo molto schifoso, perché la frullano con la coda. Ma noi staremo un po’ lontane, e nulla di male ci accadrà.
Il mondo! La natura! La scienza! L’infinito!
Portami con te, Licia Colò.
Non ti deluderò.