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Reduci dalla NOTEVOLE mole di 4321 – che possiamo aver amato o molto ammirato o possiamo magari ricordare in prevalenza per la fatica che ci ha fatto fare -, trovarsi alle prese con un Auster così snello, in libreria per i Supercoralli Einaudi con la traduzione di Cristiana Mennella, è già una notizia.

Il Baumgartner del titolo è un professore di filosofia di Princeton che ha perso l’amatissima moglie da una decina d’anni. Vive da solo, lavorando ai suoi saggi per tenersi occupato e ordinando libri online in maniera compulsiva solo per il piacere di scambiare due parole con la fattorina che glieli consegna di solito – potrebbe sembrare un’abitudine inquietantissima, ma nel caso specifico non c’è da prendere paura. Baumgartner non è giovane, ma non è nemmeno decrepito. Non si è rassegnato alla dipartita di Anna, ma il dolore non l’ha incattivito. È spesso un po’ imbranato, ma se la cava con un certo piglio. È proprio un brav’uomo, mi verrebbe da dire. Ha poca pazienza per le rotture di palle, ma chi è che può dire di averne? Dalla scomparsa improvvisa di Anna ha cercato con fatica di recuperare un’identità individuale, anche se il compito di riempire il solco lasciato da una personalità così calorosa e vulcanica gli appare quasi impossibile. Non può lasciarla andare perché non sa come fare, ma osserviamo con affetto vero i suoi volenterosi tentativi di vivere “lo stesso” nel solco della sua memoria… anzi, ci viene da tifare per un nuovo inizio, per l’intervento di una forza propulsiva inaspettata che in qualche modo lo ricompensi per la sua tenacia gentile.

Auster ci racconta pian piano chi è Baumgartner – e chi è stata Anna – mettendo lo stesso Baumgartner nelle condizioni di ricordare, di aprire dei cassetti (in senso letterale) e di riportarci quello che ci trova dentro. Le memorie riemergono con una naturalezza splendidamente calibrata dai piccoli intoppi del quotidiano o per decisione deliberata di Baumgartner, che mentre dovrebbe pensare ad altro (dove sono finiti gli occhiali? Perché diamine sono venuto al piano di sopra? Ho già telefonato a mia sorella?) si concede qualche ricognizione approfondita nel passato. Sono “viaggi” che nella loro essenza non risolutiva – e nella loro strutturale impossibilità di rimediare all’assenza di Anna – rendono però il presente meno asfittico, meno buio, ancora capace di fare da base al futuro. Baumgartner usa la nostalgia come una specie di arma difensiva, per ricordarsi della felicità di cui è stato capace. Non ricorda più con rancore o con senso di rivalsa, ma con la fierezza di chi sa di aver per tanti anni vissuto una parentesi di grande appagamento, il genere di felicità che augureremmo a chi amiamo.

Va bene che ha insegnato filosofia, ma da dove gli viene questo talento? Chi è, un santo eremita? Forse il contrario, credo. All’atto pratico, Auster configura Baumgartner come un solitario, ma gli regala un istinto di apertura al mondo, di fiducia negli altri. E il mondo risponde – coi suoi tempi, ma risponde. E anche Anna finisce per ordinargli di “liberarla”, di permetterle di diventare un fantasma benevolo, di lasciare che siano le tante cose che ha scritto (e che si sono scritti) a fare da “museo” al loro legame ma senza tramutare anche sé stesso in un reperto.
È una storia che parte da una premessa deprimente e si muove nel territorio del malinconico, ma lo fa con grazia – e non perché nel dolore ci sia grazia o sia obbligatorio produrne, anzi -, seguendo un imperativo che lascia speranza: rendere giustizia a un amore “ben riuscito”, nonostante l’imprevedibilità crudele del destino.

Tutte le volte che un nuovo serial-killer sconvolge il sereno tran tran della provincia italiana, la prima cosa che Studio Aperto sente la necessità di specificare è che l’assassino in questione era un solitario.

Salutava sempre, ma era uno che si faceva i fatti suoi.
No, non lo conoscevamo bene, non dava confidenza.
Ho sempre pensato che fosse una brava persona, ma chi può dirlo… non era tanto di compagnia.

Ma mica è solo Studio Aperto. La solitudine è quasi sempre motivo di sospetto o di inquietudine, ha quasi immancabilmente un’accezione negativa, almeno in parte.
Uno magari non si presenta con una teglia di lasagne alla porta di ogni condomino quando decide di traslocare in un palazzo nuovo, o non sta venti minuti a chiacchierare col portinaio ogni mattina, o non t’attacca bottone mentre butti la spazzatura… e allora è un solitario. Uno un po’ strano, pure.
Chissà.
Non è detto, però, che tutti i solitari siano dei potenziali maniaci omicidi. O degli stronzi che non hanno voglia di ricambiare le nostre esuberanti profferte di amicizia. C’è chi è propenso ad esternare con più semplicità i suoi sentimenti e chi, semplicemente, non ha troppa voglia di stazionare per ore sullo zerbino della signora Piera a farsi raccontare quotidianamente cosa c’era di buono al mercato.
Chi ha torto?
Chi ha ragione?
Nessuno. La gente funziona come vuole, per fortuna.

Sia nei rapporti interpersonali che nelle numerose opere di finzione cinematografico-letterarie in cui possiamo imbatterci, poi, quando qualcuno confessa di sentirsi solo si verifica sempre un certo cataclisma. Il “mi sento solo” è una specie di punto di svolta, o una giustificazione per tutti i comportamenti bizzarri ed estremi che abbiamo potuto osservare in passato. E il grido d’aiuto, per noi che guardiamo o per noi che ci troviamo davanti un amico che ce lo dice, è una sorta di schiaffo. È quasi peggio che sentirsi dire “sono triste”. Perché un “mi sento solo” ti consegna quasi una responsabilità – siamo qui insieme, ci conosciamo… e quindi anche tu hai contribuito, con la tua assenza o la tua noncuranza nei miei confronti, a questa situazione di solitudine che mi sta facendo patire.

Lasciando però perdere le solitudini “estreme” – quelle che ci scegliamo da soli (vedi eremo sui monti) o quelle che, in qualche modo, il resto del mondo ci impone – e rinunciando in partenza a tracciare una soglia di accettabilità della solitudine – perché che ne so, insomma, di qual è il grado di tolleranza altrui? – credo che una specie di “solitudine di fondo” non possa non esistere. Forse non è neanche una solitudine, è più una condizione che non possiamo scacciare perché ci appartiene e connota la nostra esistenza come esseri singoli – per quanto sociali.
È più un rimanere da soli con noi stessi – che sembra facile, visto che siamo le persone che conosciamo da più tempo, ma mica va sempre tutto bene.

Quanto ci vuole per imparare a sopportarsi? Un bel po’, forse.
Il procedimento è piacevole? Ma figuriamoci.
Sarà un successo assicurato? Macché.

Esempio concreto, che poi va a finire da qualche parte – prometto.

Quand’ero più piccola ero molto pessimista. Una specie di Giacomo Leopardi, ma senza nessun particolare talento letterario o guai fisici eccessivamente invalidanti, a parte un culo grosso come un camper – che non ero assolutamente pronta ad accettare e ancor meno sapevo amministrare. Comunque, le mie compagne di scuola trovavano assolutamente indispensabile avere SEMPRE un fidanzato. Ma anche se stavano con uno che le trattava di merda, per dire, loro dovevano per forza mollarlo solo quando erano certe di poter passare al successivo senza prendere una fregatura. Perché avere il fidanzato era comunque meglio.
Io ammiravo la loro abnegazione e, nonostante qualche ragazzo ce l’avessi avuto anch’io, mi sembrava comunque assurdo che non condividessero la mia tetrissima visione dell’universo: siamo soli, siamo tutti soli, la situazione standard è essere da soli, non avere il fidanzato. Il fidanzato è una specie di bonus, una parentesi temporale di lunghezza indefinita che si innesta come condizione “speciale” sulla normalità dell’essere soli.

Che allegria, eh?
Una gioia che neanche il Titanic che affonda.
Un raggio di sole in un mattino di maggio.
Secchielli di pulcini.

selina

Col passare del tempo mi sono un po’ ripigliata. E il “SIAMO SOLI SIAMO TUTTI SOLI” si è evoluto in qualcosa di meno drastico.
Continuo comunque a pensare che gli amori veri, le cose strabiliantissime della vita e i legami che ci cambiano per sempre siano roba distribuita tipo zucchero a velo sulla superficie del pianeta e che se ti va bene una spolverata te la prendi pure tu – ma non è detto che succeda e non è detto che ciascuno di noi finirà spolverato dalla gioia – ma, crescendo, mi è sembrato di aver ricevuto più spolverate nei momenti in cui me la sapevo cavare meglio anche per conto mio.
Quand’ero contenta ed ero capace di tollerarmi un po’ di più.
Quando facevo le cose pensando che l’importante era che funzionassero per me.
Quando non dovevo dimostrare niente perché per me era sufficiente così.
Le cose “giuste” succedevano quand’ero in pace. Quand’ero felice da sola, più o meno.

Potrebbe sembrare una strategia di abbassamento delle aspettative nei confronti dell’universo allo scopo di rimanerci meno male e di gestire le delusioni con un “massì, in fondo mica ci credevo davvero” – anche detto Teorema della Volpe e dell’Uva -, ma rimango convinta che la felicità non sia una responsabilità che possiamo appioppare a qualcun altro. Gli altri possono renderci più felici, possono farci scoprire modi diversi di essere felici, ma non sta a loro sobbarcarsi tutto il lavoro. Non è una faccenda delegabile, le fondamenta sono affar nostro.
È un po’ come mettersi a gridare “Nessuno mi capisce!”, quando non capisci neanche tu cos’è di preciso che gli altri dovrebbero capire.
E il capirsi, secondo me, è anche una questione di solitudine. Non esclusivamente – perché è anche grazie agli altri esseri umani che riusciamo a inquadrarci un po’ meglio e a vedere che ci succede quando ci accadono le cose più disparate -, ma molto di quello che impariamo deriva da come digeriamo quello che ci capita. Da quello che ci viene in mente quando ripensiamo a una scelta, a una sfiga, a un momento felice. Da come un problema o una soluzione diventa parte di noi. Perché, nonostante il sostegno che possiamo ricevere dagli altri se proprio siamo già stati molto fortunati o bravi a tenerci strette le persone che ci migliorano l’esistenza, la testa che appoggiamo sul cuscino, quando finisce la giornata, è comunque la nostra, indipendentemente da chi abbiamo di fianco – sempre che di fianco ci sia qualcuno. E i pensieri che ronzano quando chiudiamo gli occhi non sono gestibili da nessun altro. Sono nostri, siamo noi che ce la dobbiamo sbrigare.
Da soli.
E più siamo abituati a gestirci, a conoscerci, a non farci troppo schifo, a starci un po’ simpatici, a chiarire i nostri limiti, ad autocensurarci quando serve, a darci occasionalmente degli imbecilli e a riconoscerci dei meriti quando ci vuole, ecco, più siamo capaci di gestire questa roba – che è lo stare in compagnia di noi stessi, una forma inevitabile di solitudine – meglio ce la caveremo, credo.
E non è che non avremo mai più bisogno degli altri, ma ne avremo bisogno perché ci fanno più felici, non perché aspettiamo che ci definiscano o che ci mettano in mano una bussola per capire da che parte dobbiamo andare. Perché non è a loro che spetta deciderlo. Non sono loro che devono dirci come funzioniamo o come possiamo funzionare meglio.

E dopo tutto questo lavoraccio infame riceveremo necessariamente la nostra spolverata?
Non è detto, per niente.
Ma, anche se da soli e privi di zucchero a velo, rimarremo comunque in compagnia di qualcuno che abbiamo imparato – più o meno faticosamente – ad apprezzare. E non è una conquista da poco.