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Cixin Liu e Il problema dei tre corpi ascoltabile su Storytel o in libreria per Mondadori con la traduzione di Benedetta Tavani – ci incoraggiano a maneggiare un notevole quesito esistenziale: si può apprezzare moltissimo un libro anche se abbiamo l’impressione di non averci capito una mazza? Ho deciso di sì.
Primo tomo di una trilogia che sfida i limiti della materia, dello spazio e anche dei nostri quattro neuroni ancora funzionanti, Il problema dei tre corpi diventerà fra qualche mese una serie Netflix e si confronta con un domandone che si colloca all’intersezione tra scienza e filosofia: SIAMO FORSE SOLI NELL’UNIVERSO? Corollario: che succede se si scopre che soli non siamo?

Stasera in tv Contact di Robert Zemeckis, con Jodie Foster e Matthew McConaughey — Mondospettacolo

La domanda è un po’ la stessa di Contact, un film che è piaciuto solo a mio padre – che si riguarda pure Interstellar due volte a settimana. Ai comandi del radiotelescopio di Arecibo troviamo una volenterosissima e appassionata Jodie Foster, sostenuta da un Matthew McConaughey palesemente troppo aitante per interpretare un teologo capace di edificare un solido ponte tra scienza e fede. Discorrendo della strutturale solitudine cosmica del genere umano, ripensano a quante galassie ci sono, quanti soli circondati da pianeti ancora non conosciamo, quanto è vasto l’universo e approdano a un NON POSSIAMO ESSERE SOLI, SAREBBE UNO SPRECO DI SPAZIO. Poi limonano, mi pare.

Cixin Liu si rifiuta di ricorrere a simili mezzucci, ma ci spappola le sinapsi con un epico intrigo su più piani narrativi che, dalla Cina della Rivoluzione Culturale, segue l’accidentato percorso di una scienziata bollata come Pericolosa Dissidente e mandata in esilio in una base militare segreta. Non ci fidiamo di te, scienziata, ma abbiamo giustiziato tutte le altre grandi menti che potrebbero aiutarci nel progetto Costa Rossa, quindi ti muriamo per un paio di decenni in questo avamposto sperduto e vediamo come gestire questa fastidiosa faccenda della scarsa devozione al sistema.
Quello che si fa davvero alla base Costa Rossa (dotata di un’immane parabola puntata verso gli abissi dello spazio) emergerà gradualmente, mentre il diabolico Cixin Liu ci traghetta verso un vicino presente pieno di studiosi che si ammazzano (sopraffatti dall’enormità dei fatti) e di gente che si infila tute matte per cimentarsi in un videogioco immersivo, ambientato su un pianeta vessato da condizioni estreme e da un’instabilità invalidante. CHE COSA DIAMINE STA ACCADENDO.

Non sono nelle condizioni di commentare l’accuratezza scientifica dell’impianto argomentativo di Cixin Liu, ma la sua straordinaria ambizione ha del prodigioso e il romanzo, nel complesso, funziona anche per noi che non abbiamo un dottorato. Una lunga tradizione di film catastrofici ci insegna che gli alieni vogliono solo spazzarci via, ma una fantascienza meno crudele ci ha anche esortati a stabilire un contatto, inseguendo un’idea di trascendenza che colma la sterminata solitudine galattica. Su una scala tra Spielberg e Independence Day, Cixin Liu sceglie un posizionamento interessante: immagina che i dilemmi etici ammorbino anche le civiltà aliene e ci mette nelle condizioni di “combattere” ad armi non proprio pari ma paragonabili, almeno in un’ottica di lungo periodo. Il terreno di gioco è la manipolazione della materia, la capacità di comprenderne il potere invisibile, lo slancio del progresso, ma anche quanto ci riteniamo degni di sopravvivere, di occupare meritatamente quello “spazio” così raro e prezioso.

Una nave si accosta a un mondo nuovo. Non ne conosciamo nei dettagli la missione e apprendiamo solo a grandi linee le mansioni dell’equipaggio, formato da umani che ricordano la Terra e da umanoidi che sulla Terra non sono nati, anche se sono programmati per somigliare alle persone “vere” e per collaborare con loro. Misteriosi oggetti dalla bizzarra vitalità minerale soggiornano muti in stanze apposite, luoghi sospesi che un po’ somigliano a sacrari privati e un po’ a un limbo onirico-sensoriale dove sia gli umani che gli umanoidi si recano con assiduità per trovare conforto o per lasciarsi attraversare da una forma di trascendenza.

I dipendenti di Olga Ravn – in libreria per Il Saggiatore con la traduzione di Eva Kampmann – è costruito per accumulazione di testimonianze rese dall’equipaggio a una “commissione” inviata dall’organizzazione-madre che, nominalmente, ha l’incarico di studiare gli effetti di questi oggetti enigmatici sugli occupanti della nave. Le testimonianze sono un diario di bordo collettivo, una cronaca a più voci del graduale collasso di un sistema che illude i suoi partecipanti di avere un compito da svolgere, mentre l’unica “cosa” che si produce davvero è il loro perdurare in quel microcosmo chiuso. Ed è proprio l’illusione di contribuire a una causa superiore – in un contesto dove gli unici compiti che davvero ci vengono resi noti sono quelli destinati a far “funzionare” la forza lavoro, umana o umanoide – che diventa il nucleo inesorabile di un esperimento in cui le cavie soccombono, si arrendono o si ribellano per eccesso di consapevolezza, deviando dal programma o sprofondando nei ricordi di una casa ormai irraggiungibile.

È un libro opaco e snervante da leggere, ma di certo animato da una sottigliezza affascinante. Dona poche soddisfazioni perché è rarefatto e fumoso, ma pone domande intriganti, specialmente quando si indaga la relazione tra vita “biologica” e vita simulata da una programmazione che sfugge ai parametri originari per produrre qualcosa che, in un contesto completamente sgombro dall’umano, diventa un territorio inedito d’azione. Cosa ci rende umani? È l’accumulo dell’esperienza, delle relazioni e dell’emotività o la presa di coscienza di esistere e di “sentire”, scrivendo un codice nuovo, facendo qualcosa che non dovrebbe essere possibile?
Quel che accomuna tutti – umani e umanoidi – sembra essere la ricerca di un appiglio, di qualcosa che vada oltre il mero esserci per assolvere a una funzione e il rifiuto di essere costretti a un’unica dimensione che fa coincidere il ruolo “produttivo” con l’identità. Accorgersene, su una nave che si nutre dei suoi figli per continuare a esistere immutata, è forse la scintilla d’anima che tanto cerchiamo – e che ci porterà a camminare sulla superficie di un mondo sconosciuto.

Iron Widow di Xiran Jay Zhao – tradotto per Rizzoli da Paolo Maria Bonora – attinge da elementi culturali provenienti da epoche diverse della storia cinese per costruire un regno nuovo in lotta con una razza di alieni un po’ meccanici e un po’ insettoidi. Più che meccanici, però, questi Hundun invasori che flagellano la Huaxia e tentano incessantemente di varcare la Grande Muraglia, sono manipolatori assai abili dei basilari elementi naturali che fungono da mattoncini “spirituali” anche per gli esseri umani: dai gusci degli Hundun – e da un mix innato di legno, acqua, metallo, fuoco e terra – la resistenza umana plasma le Crisalidi, “robottoni” trasformabili da spedire in battaglia come ultimo (e unico) baluardo difensivo.

Ma chi li aziona? Le Crisalidi non vanno benzina e non vanno a diesel, ma dipendono dal qi – la pressione spirituale – di una coppia di piloti, un maschio e una femmina-concubina. I maschi sono le star vere dello show, gli eroi che finiscono sui poster, i fenomeni da ammirare e ricoprire di onori militari. Le femmine devono obbedire, servire, soddisfare i desideri del pilota a loro assegnato e, in ultima istanza, fare da batteria: prosciugate del loro qi per sostenere quello del pilota principale della Crisalide di turno, crepano al termine di ogni battaglia… e buonanotte. Le famiglie d’origine – che di figlie femmine farebbero forse volentieri a meno – le spingono a offrirsi volontarie dai quattro angoli della Huaxia a fronte di una ricompensa monetaria che garantirà prosperità ai parenti superstiti. E tante care cose. Va sempre così? Quasi. Gli Abbinamenti Equilibrati – quelli in cui la mente della concubina riesce a non farsi fagocitare da quella del pilota – sono rari e preziosi e il “sistema” non esita a servirsene per alimentare il sogno di migliaia di ragazze, condannate molto più prosaicamente a una fine grama e ingiusta.

Tutto questo fascinoso papocchio introduttivo serve a farci conoscere Zetian, che parte volontaria da una specie di provincia cenciosa e remota per vendicare la sorella, uccisa da un pilota che, come si suppone facciano tutti i suoi colleghi, ben poco ha a cuore la causa delle concubine della Huaxia. Zetian riesce a malapena a camminare – perché le hanno fasciato (AKA spezzato in due) i piedi da piccola, come richiesto dalla miglior tradizione – ma è talmente incazzata da infondere fiducia pure a noi.
Rancorosa come un crotalo e sostenuta da un qi inaspettatamente prodigioso, Zetian si farà carico di una rivincita collettiva, cercando di scardinare dall’interno un sistema di valori nato per annientarla, zittirla e ridurla a mero strumento. Ce la farà o anche lei finirà inesorabilmente nel tritacarne delle concubine-martiri?

Sì, ma… com’è questo libro? È zarro. Ma zarro vero.
Ritmo MOLTO incalzante, mazzate, proclami caciaroni, cuori palpitanti e dilemmi etici estremizzati (per quanto validissimi) creano un mix pazzo ma funzionante. Ci rivedrete Evangelion e Pacific Rim, con una spolverata di Hunger Games – soprattutto per l’aspetto splendidamente reso della propaganda disonesta, dell’iniquità della struttura di classe e della performance a beneficio di un pubblico che vive la guerra come spettacolo e rito catartico collettivo. É una specie di manuale femminista coi robottoni, anche, perché non c’è tema che Zetian non affronti sbarazzandosi di filigrane o sottigliezze: risulterà talvolta didascalico e di grana non finissima, ma ogni tanto è corroborante trovare una protagonista che chiama le cose col loro nome.
Finale? Aperto, devo dire. Ma il colpo di scena è intrigante – per quanto la si fiuti un po’ da lontano.
Insomma, mi sono divertita e, potendo, vorrei un GAMBERO MANTIDE alto 50 metri da pilotare con le mie amiche. 

 

 

Provo a sbilanciarmi. Se dobbiamo proprio individuare un grande cambiamento “significativo” per la mia generazione, quel cambiamento gigante riguarda l’introduzione della tecnologia nel modo in cui ci rapportiamo agli altri esseri umani. Ho visto il “prima” – senza smartphone, blog, social, app e compagnia danzante – e sto vivendo il “dopo”, questo presente in cui gradualmente stiamo cercando di capire come abitare insieme agli altri innumerevoli spazi di auto-rappresentazione, contatto, conflitto, informazione e intrattenimento. L’aver “visto” questo cambiamento di paradigma credo sia uno dei fattori che contribuiscono ad accendere il mio interesse per la narrativa che cerca di immaginare un’ulteriore evoluzione – proprio in chiave tecnologico-relazionale – di questo ecosistema che ci avvolge e ci appartiene.

Non è una gran novità per la fantascienza, che ha sempre parlato di mondi “altri”, di creature sconosciute e di congegni alieni rispetto al nostro presente più visibile per interrogarsi realmente su quello che accade alla vita che conosciamo, a noi come esseri umani, all’anima che ci separa dal meccanico.
Sono storie che sperimentano con la nostra identità, con la razionalità e la matrice di quello che ci rende delle “persone” per trovare limiti o abbattere confini. Ci si serve del conosciuto, dislocandolo, per darci (anche) una lente per vedere meglio cosa siamo.
Per me, almeno, l’aspetto più avvincente della fantascienza non combacia tanto con la poliedrica descrizione di un pianeta alieno, ma il racconto di quello che succede ai miei simili che su quel pianeta approdano per la prima volta. Vale per i pianeti come per le intelligenze artificiali, per quello che creiamo, per l’innovazione e per quella fetta grande di imprevedibilità che vive in ogni grande rivoluzione.

Ecco, la raccolta curata da Sheila Williams (e approdata qui in Italia sotto l’ala della neonata 451, costola di Edizioni BD specializzata in fantascienza) è un po’ una grande panoramica di quello che tende ad affascinarmi di più nel fantascientifico. È un’antologia di racconti che immaginano un ventaglio di domani differenti in cui molti semi tecnologici già ben piantati nell’oggi sono arrivati a un pieno sviluppo, innestandosi nel nostro modo di stare con gli altri, di ripensare l’idea di famiglia, di coppia, di relazione tra esseri umani. Il libro fa parte, in origine, della collana Twelve Tomorrows edita dal MIT che, ogni anno, sforna un volume tematico a cui vengono chiamate a contribuire le voci più vivide e brillanti della sci-fi globale.

Concepiamo spesso la tecnologia come un mezzo facilitatore. Per tantissime realtà continua ad essere vero – ci sono macchine che non devono dirci niente, devono limitarsi a svolgere per noi una mansione meccanica, per esempio. Ma cosa succede quando alla tecnologia domandiamo di farci da ponte per raggiungere gli altri? Cosa succede quando la interpoliamo all’amore, al ricordo e alla socialità? Il mondo cambia. E in questa raccolta troviamo tante finestrelle da spalancare su questi orizzonti nuovi – non sempre incoraggianti e risolutivi, ma irrimediabilmente umanissimi… nonostante tutto.

Lo dichiaro all’istante: Love, Death + Robots è una delle mie cose preferite al mondo. La prima stagione ci era piombata addosso senza particolari fanfare, generando un entusiastico effettone-sorpresa dato dalla struttura e dal trattamento visivo estremamente eclettico delle storie. E anche la seconda – uscita il 14 maggio su Netflix – non smentisce il folle spirito delle operazioni. Al comando della ciurma ci sono David Fincher e Tim Miller (qui showrunner/ideatore e già regista direi assai applaudito dalla popolazione del globo per Deadpool), con Jennifer Yuh Nelson a fare da coordinamento registico e da collante creativo.
Love, Death + Robots, per far ambientare bene anche chi si fosse perso il primo giro in giostra, è una serie antologica d’animazione che funziona come una specie di multiverso sci-filosofico. Coi robot. E i mostri. E le navicelle spaziali. E i sentimenti. E lo spazio-tempo. E ROBA. Le puntate sono indipendenti le une dalle altre e hanno una durata variabile – alcune ve le vedete in 4 minuti e altre superano i 20 -, ma sono tutte accomunate dal tentativo di immaginare come l’umanità si proietterà nel futuro o come il mistero, l’ignoto e “l’alieno” possono innestarsi nella normalità che conosciamo, deformandola in mille modi rivelatori. È un grande esperimento narrativo che esplora le vaste potenzialità dell’animazione digitale – ci sono puntate che sembrano film con attori in carne e ossa ed episodi che potrebbero comodamente diventare anime che stanno in piedi da soli, più incursioni che combinano CGI e stop-motion – e che, pur ponendoci immancabilmente di fronte a questioni totalizzanti di vita o di morte non rinuncia al gusto per il bizzarro, l’ironia e il divertimento puro dello spettacolo. Sono due stagioni di paradossi e di ipotesi su quello che la tecnologia potrà farci – o ci ha già fatto. E sono estremamente piacevoli da guardare per varietà, durata ben modulata e imprevedibilità sia visuale che tematica.

Tim Miller ha già confermato che ci sarà una terza stagione – che vedrà il ritorno di un trio di robot EPICI già apparsi al debutto della serie e che sarà composta da otto puntate. In questo secondo volume c’è anche la partecipazione (in una motion-capture di un realismo assurdo) di Micheal B. Jordan, pilota precipitato su un pianeta desertico che se la vedrà brutta proprio nel modulo di salvataggio che dovrebbe tenerlo al sicuro.
Chicche letterarie aggiuntive: un episodio arriva da Joe Lansdale ma, soprattutto, c’è la trasposizione di The Drowned Giant di Ballard. Il racconto è stato una fissazione di lunga data di Miller, che dopo aver perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard è finalmente riuscito a ottenere la loro autorizzazione per lavorarci – ci aveva già provato per gli otto episodi d’esordio, ma le eredi l’avevano mandato a stendere. Siamo felici che abbiano acconsentito, anche se a scoppio ritardato. Il risultato è surreale, malinconico, struggente e assurdo… un po’ come tutta la serie.


Pur non essendoci un filo rosso esplicito a legare tutti gli episodi, le puntate si strizzano l’occhio e si passano la palla, mostrandoci quello che succede se decidiamo di fare un passo in più e di superare i tradizionali confini della fantascienza, della robotica, dell’intelligenza artificiale e dei what if classici del cinema o delle narrazioni libresche. Nonostante i robot malevoli, i mutanti fosforescenti, lo spazio profondo e le miracolose rigenerazioni cellulari, al cuore di ogni storia ci sono degli esseri umani che si specchiano nella loro solitudine o nel loro bisogno di stupirsi davanti alla vastità di quello che può esistere – Babbo Natale compreso.
Insomma, è un bel parco giochi… con ottovolanti senzienti che faranno tutto il possibile per uccidervi o per accartocciare in maniera meravigliosamente creativa e inquietante ogni vostra certezza.