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Roma

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C’è un’app che vi ordina di respirare e inspirare, di prendervi un momento per meditare e visualizzare nuvole veloci e verdi prati. L’app monitora il ritmo del vostro cuore, si sveglia con voi, conta le calorie di ogni gheriglio di noce che masticate, vi informa sulla quantità di CO2 che avete risparmiato all’ambiente pedalando in ufficio invece di optare per la macchina e sa quando è ora di mandarvi a letto. Offre incoraggianti mantra motivazionali, chiarisce dubbi sulla raccolta differenziata, vi offre un rifugio sicuro e rilassante nel punto magico d’intersezione tra gli universi GREEN, FIT, ECO e MINDFUL. Credo che sull’app possiate comprare anche tutine in bambù rigenerato, tappetini da yoga, candele ai semi di lavanda e gambi di segale, oltre a piani nutrizionali personalizzati e contenuti esclusivi dei vostri WELLNESS influencer preferiti. L’app l’hanno inventata Elsa e Nico per pANGEA… e un gran bene ha fatto alla loro carriera e al loro sodalizio sentimental/lavorativo. Le community CONSCIOUS crescono ad ogni nuovo aggiornamento, così come il valore dell’azienda che con così tanta sollecitudine intende renderci più sensibili alla causa ambientale, creando prodotti e campagne rivoluzionarie. L’essere umano è il motore finale del miglioramento planetario, l’unica via di scampo dalla devastazione incipiente. Ma i dipendenti di pANGEA possono essere considerati degli esseri umani, in fin dei conti?

In un paradigma generale in cui le risorse sono risorse (senza bisogno di aggiungerci “umane”), Gli straordinari di Edoardo Vitale – in libreria per Mondadori – ci intrappola nella routine aziendal-domestica di due persone che non avrebbero il diritto di lamentarsi di niente ma che ci appaiono profondamente sconfitte.
Mentre il rigore del ritmo lavorativo straborda fino a inghiottire la sfera privata – che risponde ai medesimi imperativi di efficienza, minuziosa pianificazione e necessità assoluta di controllo – i sogni gloriosi di poter cambiare radicalmente le cose facendosi assumere da una Grande Famiglia animata da una solida VISION condivisa si sbriciolano pian piano sotto al peso di imperativi produttivi che replicano, pur in uno scenario all’apparenza illuminatissimo e benevolo, quelli della più asfittica catena di montaggio. Cambia il contesto, ma non cambia la vera ambizione di fondo: pretendere dalle persone quello che andrebbe chiesto a una macchina. La grande differenza, forse, è che la macchina non ha bisogno di sentirsi dire che è speciale, più virtuosa della media. Al contrario di Elsa e Nico, la macchina non si lascia ingannare, non le serve credere di essere straordinaria.

In una Roma parallela in cui il caldo strutturalmente insostenibile scatena incendi a ripetizione, il nobile conglomerato pANGEA si appresta a festeggiare il p-DAY, l’occasione comunicativo-commerciale più importante dell’anno. Tra proclami filosofici di posizionamento, promesse di consulenza strategica per rendere anche le entità più impresentabili degne delle sensibilità di consumatori sempre più accorti e informati, Elsa e Nico cercano di non perdere il senno mentre governano il lancio della nuova versione della loro app, ancora convinti – o forse rassegnati – a salvare quel che rimane del mondo e dei loro ideali. La polizia, fuori dal loro BUILDING a impatto zero e dotato di molteplici pareti per l’arrampicata sportiva, sgombera a intervalli regolari tendopoli e bivacchi di attivisti climatici assai meno pettinati e decorosi dei dipendenti di pANGEA. La causa è giusta? Chiaro. Ma l’unica rivoluzione accettabile sembra essere quella corporate, quella che presuppone comunque che si compri e si venda qualcosa. Protestate pure, ma che la protesta sia monetizzabile e ordinata, insomma. O, se proprio non si fattura, che almeno ci sia modo di fare bella figura, di conquistare qualche punto sul tabellone dei Giusti.

Elsa e Nico sono due personaggi volutamente inchiodati sul posto. La loro paralisi è la nostra, così come molti dei loro tentativi di soffocare il dubbio sotto a tonnellate di sovrastrutture fatte di azioni minime e di rituali che ci illudono di governare quello che stiamo facendo. Ci si tiene impegnati dando retta a un’app che ci ordina di respirare, perché per cinque minuti è confortante pensare che quello sia davvero un gesto di cura verso noi stessi – e verso una collettività che ci preferisce docili, pacificati, inoffensivi. Troppo piccoli per tirare i sassi, troppo oberati per alzare la testa.
C’è soluzione? Ai fini del romanzo sì, tecnicamente. Vitale immagina un momento catartico e fa il possibile per portarci da qualche parte, anche se ho ricavato maggior soddisfazione – per quanto paradossale possa essere – dalla ricostruzione del contesto, dall’analisi accurata di quel tipo di struttura aziendale/umana. C’è soluzione per noi? Forse è troppo presto. Forse è troppo tardi. Forse ci pensiamo domani, che adesso ci sono ancora 472 e-mail da leggere. Fa niente se sono le undici di sera, un occhio ce lo buttiamo lo stesso. Mettersi avanti non ha mai ucciso nessuno, no?

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Dunque, Veronica e il diavolo – in libreria per Einaudi – si avvale dell’antico ma sempre fascinoso espediente del manoscritto ritrovato… ma in questo caso il manoscritto è reale e arriva dall’Archivio Generale della Compagnia di Gesù a Roma. Che cos’è? È una sorta di “dossier” eterogeneo che ricostruisce l’esorcismo di una giovane donna attraverso le annotazioni quotidiane dei padri chiamati a liberarla dal maligno. Nello scartafaccio si imbatte quasi per caso – o per destino? – Fernanda Alfieri che, da storica dotata di penna suggestiva e grande visione narrativa, decide di indagare più a fondo e di cercare di restituire voce, contesto e dignità almeno fattuale a Veronica Hamerani, l’ossessa di via di Sant’Anna. Ogni capitolo si apre con un brano del “dossier” degli esorcisti e, da lì, Alfieri si imbarca in uno sconfinato lavoro di verifica dei fatti, ricostruzione dei precedenti, identificazione dei protagonisti e inquadramento degli eventi in un più ampio contesto culturale e storico.

Il risultato è un’opera ibrida, splendidamente ricca, eclettica e umanissima. Dalle peripezie biografiche dei gesuiti a cui toccò l’ingrato compito di fronteggiare il demonio in una casa romana si passa alla storia “globale” del loro ordine, dal mestiere degli Hamerani – incisori di monete e icone – si arriva a inquadrare la salute dell’istituzione papale nel 1835, dalla teoria della bile nera si approda allo stato della medicina del tempo – e a come anche lì ci venisse attribuita una strutturale inferiorità uterina da amministrare e blandire. Dalla politica alla fisiologia, dalla religione alla superstizione, Veronica diventa una sorta di campo di battaglia metaforico, il centro di gravità di un’intera concezione del mondo.

Non immaginatevi un esorcismo da “cinema”. Il diavolo di Veronica si avvale di pochi effetti speciali e di ottimi moccoli in romanesco. È burino e canzonatore, il grillo – libero – per la testa di una ragazza cresciuta in un contesto di luttuoso declino e miracoli caserecci, un limbo in cui la fede sconfina nella superstizione o nella ritualità pervasiva assimilata come automatismo.
Veronica non ha voce in capitolo, ma forse è il suo diavolo a parlare per lei, mentre una pletora di uomini (variamente castigati nella carne e votati alla castità) si avvicenda nella sua stanza per ridimensionare i suoi eccessi e ricondurla nel solco del concepibile, dell’appropriato e del controllabile, per decidere se è matta, impostora o pia martire perseguitata, per ristabilire il dominio della chiesa sulle sue greggi.
Veronica è muta, è la protagonista più tangenziale di sempre… e Alfieri – che con i comprimari che circondano Veronica edifica legittimamente un impianto storico magnifico – lo riconosce e lo evidenzia. Alfieri ci restituisce Veronica rispettandone la marginalità, perché è una marginalità emblematica, che comunica cosa doveva voler dire essere una Veonica nel 1835 molto meglio di come un qualsiasi demonio di passaggio – magari anche uno colto quanto Padre Manera – avrebbe mai potuto fare. Perché il problema, al tempo e forse anche un po’ adesso, è trovare qualcuno che ascolti…

 

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Tié.

 

Visto che mi stavano per scadere tutti i punti Cartafreccia, siamo andati a Roma.
Visto che di punti ne avevo un botto, abbiamo viaggiato in Premium.
La Premium è uguale alla Standard, solo che i sedili sono in finta pelle invece che in tessutone forforoso. E ti portano i refreshments. Ho bevuto un bicchiere di Berlucchi tiepido e sgranocchiato un sacchetto di noccioline, come un vecchio macaco.
Amore del Cuore ha mangiato dei tramezzini mollicci, ottenuti non senza qualche sforzo dalle macchinette all’inizio del binario. Io l’ho preso in giro, ma poi sono stata costretta a soccombere. Alla seconda ora di ritardo accumulata dal treno, l’ho mandato al bar a cercare dei viveri. È tornato con un abominio ripieno di gamberi e salsa tonnata. In un sacchetto complicatissimo che faceva finta di essere un bucolico cestino della merenda.
I tramezzini confezionati, si sa, ti fanno puzzare le mani. E i b&b super-economici, come è anche giusto, non hanno sempre qualcuno pronto ad accoglierti… soprattutto se arrivi a notte fonda.
Salve, sono sempre Francesca. Guardi, siamo ripartiti da poco, ma il treno è parecchio in ritardo. Forse arriviamo alle undici e mezza. Riesce ad aspettarci?
Salve, ancora io. Ci siamo bloccati a Firenze. La vocina dice che siamo incolonnati dietro ad altri treni per problemi alla linea. Il ritardo è di duecentodieci minuti. La prego, RESTI LI’. Sono un signora, non posso dormire per strada.

La neve non è una scusa, Trenitalia. Che si sappia – soprattutto quando scopri che la tua destinazione non è stata minimamente interessata dall’intemperia.

Nonostante l’ansia, i torcimenti di mani e le piaghe da decubito, siamo arrivati più o meno indenni.
Il nostro b&b, si è poi scoperto, stava proprio sopra a un cinemino porno dall’incredibile carica reazionaria.
Ma Amore del Cuore, c’è scritto SEXY MOVIES!
…la prossima volta prenotiamo insieme. Anche se è una sorpresa per me.

Roma, grazie al cielo, è un posto che si può girare anche in Enjoy. Abbiamo dunque trascorso un proficuo e piacevole weekend senza doverci avvalere nemmeno una volta dei mezzi pubblici.
Una cosa buffa di Roma è il manto stradale. Roma è un posto veramente sconnesso. Non è una città, è una sovrapposizione infinita di pavimenti che fanno del loro meglio per non mandarsi reciprocamente a cagare.

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angelo

Una delle cose più belle di Roma, poi, è la luce. La qualità della luce è importante, quando bisogna decidere se una città ci piace. A Roma, anche se c’è nuvolo, la luce è leggera e calda. Credo dipenda dal colore della pietra. Ci sono un mucchio di meraviglie bianche e arzigogolate che ti rotolano davanti. E ci sono i pini marittimi, che sono degli alberi che ti fanno subito venire in mente le vacanze – se vieni da Milano, almeno. O dal piattume mortifiero della Pianura Padana.

Luce, pini marittimi, monumenti, angeli giganti ogni sei metri!
Roma mi piace un sacco. Anche se ad ogni angolo c’è qualcuno che cerca di venderti un bastone per farti i selfie.
SELFI?
SELFI?
SELFI?
O qualcuno che vuole costringerti a salire su un autobus a due piani.
GIRO MONUMENTI!
SPEAK ENGLISH?
HOP-ON!

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Per trovare pace, abbiamo cercato rifugio nei Musei Vaticani.
In Vaticano abbiamo scoperto che c’è gente pagata per gridarti di non fare foto nella Cappella Sistina. E che esistono anche le Guardie Svizzere in stage. Perché ci sono le guardie senior – quelle con l’uniforme sgargiantissima di Michelangelo – e le guardie scalognate che smistano il traffico. Han su anche loro una specie di costume bombato super anacronistico. In blu, però. Senza elmo e senza alabarda spaziale. Dicono ai cardinali dove parcheggiare e fotocopiano le Bibbie.
Anche i souvenir del Vaticano sono bellissimi. Ci sono i magneti con su i Papi. Ci sono i rosari. Gli strofinacci per la cucina. I portachiavi. Gli ombrelletti pieghevoli. Riproduzioni in gesso di ogni statua mai creata dall’ingegno italico – soprattutto capolavori che mai hanno toccato il suolo capitolino.

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A livello strettamente ecclesiastico, il volume di gadget papali è così distribuito: 60% Papa Francesco, 30% SAN Giovanni Paolo II, 9% Giovanni XXIII, 1% Benedetto XVI (per la nicchia dei fan cattolici di Star Wars).
I calendari sono una cosa a parte.
Sui calendari c’è una segmentazione straordinaria. C’è il calendario dei gatti di Roma. Quello con le Sibille della Cappella Sistina. E c’è anche il calendario dei preti ammiccanti. Non l’ho sfogliato, ma in copertina c’è una specie di modello di Dolce & Gabbana con l’abito talare e lo sguardo birichino. Dovevamo comprarlo solo per capire che storia era, ma siamo degli stupidi.

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Tra i grandi rimpianti della gita – oltre al calendario per casalinghe devote che mai hanno dimenticato Uccelli di rovo -, c’è anche la mega-colomba santa. La libreria San Paolo del Vaticano ha in vetrina una meraviglia indescrivibile. C’è questa colomba, grande come una gallina e scolpita con immensa maestria, che si libra ad ali spiegate. Dalla schiena della colomba-gallina si sprigionano dei maestosi raggi dorati tutti dentellati, fotonici e riflettenti. Sbucciate la colomba santa da tutto il suo complicato simbolismo e otterrete uno splendido oggetto d’arredamento. Sul serio, volevo comprarmi la colomba santa. La volevo appendere in salotto. Come la storia ci insegna, però, le reliquie e gli aggeggi di Dio non te li regalano mica. La colomba-gallina costava 320 euro. E l’abbiamo lasciata lì. Piangendo forte.
Al che, ci siamo consolati con la merenda. E con un’attività utile: debellare il mal di piedi di Amore del Cuore. Mio marito, il sempre ottimista, ha optato per il decoro sin dalla partenza. Non s’è messo le Nike Air con sotto il cuscinettone. No. Lui ha camminato per tutta Roma con le Timberland tarocche, riesumate dal mucchio delle calzature che già dieci anni fa aveva deciso di non mettersi mai più. Abbiamo dunque dedicato un’ora buona a scegliere un paio di scarpe da ginnastica che lo salvassero dalle vesciche. Le Nike costano un casino. Le Adidas erano tristi. Le Diadora pseudo-vintage, invece, sono piene di dignità.

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Dopo aver risolto l’emergenza, ci siamo agilmente librati verso il regno dell’aperitivo. RIONE Monti. Ciottoli, salite, edera secca, stradine e sensi unici incomprensibili. Mi hanno spiegato che Monti è un rione, non un quartiere. E ha un suo gran bel perché. C’era anche un mercatino hipster con le collane a forma di dinosauro. Ci siamo seduti su una sbarra di ferro in una piazzetta, in mezzo a giovani autoctoni estremamente stilosi e sparuti drappelli di tifosi irlandesi in maniche corte. Quel giorno lì c’era il Sei Nazioni, mica bruschette.

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Dopo l’aperitivo, ci siamo spostati a Testaccio, dove sembra ci siano tutti i ristoranti grezzi di Roma. Abbiamo messo giù la Enjoy in un posto loschissimo, demolendo le certezze del parcheggiatore abusivo che dominava quel tratto di strada.
BUONASERA, EH. DOVE PENSATE DI ANDARE?
Parcheggiatore, ci dispiace tanto, ma da noi non avrai un soldo. Vedi quella macchina lì? È una Enjoy. Vuol dire che è del comune, tipo. Non ti darò del danaro per impedirti di ammaccare orrendamente un’auto non mia. Quindi salutaci pure con aggressività e tracotanza, ma non ci farai cambiare idea. Sfrisala pure, sai che me ne frega. Sfrisa l’Enjoy, accomodati. E salutaci tanto tua sorella.
Per celebrare la vittoria sul potere intimidatorio della delinquenza, ci siamo ingozzati di carbonara e ci siamo fatti lasciare il menù, perché era meglio di un romanzo da top10 Nielsen.

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Fuori dal ristorante c’era un gatto grigio molto simpatico. Purtroppo per lui, non avevo in tasca delle polpette al sugo.
A Trastevere ho visto una delle cose più strabilianti di sempre. Una MONTAGNA di sampietrini. Ci siamo messi lì – con le scarpe vecchie di Amore del Cuore in un sacchetto di carta e un gin tonic da studenti dallo stomaco di ferro in mano – ad ammirare questo cumulo incomprensibile di pietra smossa. Era alto tre metri buoni. Poeticissimo e solitario.
E comunque, anche a Roma fa freddo.
SELFI?

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Un’altra roba che ho imparato a Roma è come funziona il Pantheon. Il Pantheon – oltre ad essere un posto dove si seppellisce la gente importante – è anche un edificio con un buco. La cupola ha questo foro in cima, largo ben nove metri. Come ogni bambina piccola, mi sono subito domandata MA CHE COSA SUCCEDE QUANDO PIOVE?
Amici, c’è un cartello che lo spiega. Non è bellissimo? Dopo un’infanzia trascorsa a sentirci rispondere perché sì, trovare un cartello capace di prenderci per mano e scacciare l’ignoranza è qualcosa di utile e semplicemente miracoloso.
Niente, capita così. Il pavimento del Pantheon, proprio sotto all’apertura circolare, ha ben 22 buchi per far defluire l’acqua.
Tutto lì.
E viva il re.

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Non mi ricordavo, invece, che il Mosè andasse a gettoni. La chiesa di San Pietro in Vincoli è un luogo di raro interesse strategico, ma non è che sia il massino dell’allegria. Sobria. Scura. Quasi lugubre. Solo che, magimagia, in un angolo c’è la tomba di quel gran filibustiere di Giulio II, presidiata da una delle sculture più arroganti mai scolpite da Michelangelo. In quella chiesa lì c’è così buio, però, che per far riemergere il Mosè dalle tenebre devi buttare un euro in una macchinetta. La luce si accende e, finalmente, si può gridare PERCHÉ NON PARLI alla statua giusta. Sgomitando.

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Chiedendoci come sia possibile impedire alla gente di scavallare quando c’è qualche concerto/manifestazione/HAPPENING/corsa delle bighe al Circo Massimo, poi, ci siamo arrampicati fino al Giardino degli Aranci. Ai piedi della collinetta c’era un raduno di Maggioloni vintage. In cima alla collinetta, invece, tra roseti e siepi d’ortica, c’era una signora che suonava l’arpa. I piccioni del Giardino degli Aranci sono i più vitaminici d’Italia, i gatti sono floridi e c’è pieno di coppiette che limonano.

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Sempre là per aria, in una piazza piena di sole, c’è l’attrazione più surreale di Roma. È il buco della serratura del quartier generale dei Cavalieri di Malta. Ci si avvicina a questo portone verde, si guarda nel buco della serratura e – PERDIANA – appare il cupolone di San Pietro, in fondo a una galleria alberata. Non ho idea di tutte le faccende ottiche che ci siano dietro, ma l’effetto è un po’ quello della camera oscura. O di un cannocchiale comprato a Diagon Alley.
SELFI?
No, grazie. Preferiamo la carbonara. Fa niente se l’abbiamo mangiata anche ieri sera. E preferiamo anche stare a sentire i due magnifici ottantenni del tavolo accanto che complottano per farsi offrire un altro giro di grappette digestive senza fare la figura dei morti di fame.

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Amore del Cuore, bisogna dirlo, ha fatto un errore madornale. Ha osato chiedere al cameriere che cosa dovevamo aspettarci dai primi. Le porzioni sono abbondanti o conviene pigliarne direttamente una in più? Offesissimo, il signor cameriere non l’ha più preso in considerazione per l’intera durata del pranzo. Siamo quasi morti di sete. E ben ci stava. Entriamo da Perilli e mettiamo in discussione le porzioni.
Per umiliarlo definitivamente – e peggiorare il nostro già considerevole livello di disidratazione – l’incorruttibile cameriere ha sbattuto davanti al mio sgomento consorte una ZUPPIERA di rigatoni. (Lo sappiamo, lì funziona così… ma in quel momento mi è sembrato un gesto di immensa coerenza).
Lo perdoni, distinto cameriere. Non è cattivo, è solo un po’ milanese.

Visto che non entravamo in un luogo sacro da circa venti minuti, ci siamo coraggiosamente spinti fino a San Giovanni in Laterano, dove i santi fanno i gradassi. San Giovanni in Laterano mi sa che è la mia basilica preferita. È un posto che riesce a far sembrare borioso anche San Bartolomeo, un personaggio così affabile da accettare la morte per scorticamento. I santi di San Giovanni sono dei supereroi, in pratica. Abitano dentro a nicchie ciclopiche, in un gran turbinare di vesti, barbe ricciolute e sopracciglioni aggrottati. Per dire, San Pietro ha in mano delle chiavi grosse come una Smart. L’abside somiglia alla sala del trono di Minas Tirith. L’aquila da compagnia di San Giovanni è un triceratopo… e uno di questi giorni dovrebbe mollargli la caviglia, saltare giù dal piedistallo e spazzare via dalla navata centrale tutte le orripilanti seggiolette di plastica che la infestano.

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Presto, che qualcuno organizzi un crossover Marvel-San Giovanni in Laterano!

Nel frattempo, di fronte al Colosseo, minuscole spose cinesi col bolerino di pelliccia sintetica si facevano fotografare in compagnia di un vasto parentado. E gli sbirri suonavano l’inno di Mameli. Il Colosseo è un inferno. L’unico modo per non avere dei bragaloni che pascolano in mezzo alle tue volenterose fotografie è puntare all’immensità del cielo. E lanciarsi coraggiosamente su spigoli sbilenchi e scorci bizzarri che, lì così, non vogliono dire proprio niente.

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Mi spiace dover concludere con tutti questi vigili, ma abbiamo proprio finito. Annichiliti dal torcicollo per aver cercato di ammirare troppo a lungo la volta della Cappella Sistina – la volta è il Sole, noialtri siamo Icaro – e tirandoci dietro dei borsoni sprovvisti di rotelle, ci siamo nuovamente imbarcati su un Frecciarossa. Il maledetto convoglio – ben sapendo che di domenica sera non abbiamo mai una cippa da fare, a parte intristirci – è arrivato in perfetto orario, senza regalarci nemmeno un po’ d’emozione. E no, amici delle rotaie roventi, per le sciagure subite mentre si viaggia con un biglietto-premio non è previsto alcun genere di rimborso.
La prossima volta – perché con Roma non può che esserci una prossima volta, più o meno all’infinito – si va a Rebibbia a cercare il mammut. E si farà il possibile per entrare in San Pietro a esultare sotto le tombe megagalattiche dei papi… quelle un po’ nascoste, immense, contorte. Quelle fatte col marmo nero degli incubi. Piene di scheletri, falci giganti e terrori senza nome.

Pepperepé.

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Ringraziamenti

Grazie ad Andrea per aver vegliato su Ottone von Accidenti mentre eravamo a spasso.
Ma Amore del Cuore ti ha pagato le crocchette al salmone? Non esiste che il nostro gatto mangi a spese tue, anche se sei il suo zio preferito.

Grazie ad Alberto, che ha smarrito una tessera del Car2Go per l’emozione di poterci incontrare a Trastevere.

Grazie a Fabiola per le preziose indicazioni da creatura autoctona che sa moltissime cose. Se abbiamo mangiato tutte quelle carbonare è soprattutto merito tuo.

Grazie a Canon per la Powershot G7x che ho finalmente potuto sperimentare per bene – nonostante lo scarso talento. L’avrei fatto prima, ma ho passato le vacanze di Natale all’Ikea. Tutte le foto di questo post (ma così come sono, proprio) vengono dalla strabiliante macchinetta, anche quelle di Instagram.

E grazie a Giuseppe – Salvatore di Tegamini – per averci affettuosamente invitati a vagare insieme. Se non ci siamo visti è solo colpa di Alberto. Come al solito.

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Per chi fosse ancora lì (in attesa della scena post-credits), ecco un gatto.

http://instagram.com/p/y4ycL3ldOP