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Pubblicato originariamente nel 1984, Ballo di famiglia è stato il festeggiatissimo esordio di David Leavitt. SEM l’ha riproposto lo scorso anno al mercato italiano in una nuova traduzione curata da Fabio Cremonesi.
Espletate le rapide pratiche inerenti alle coordinate editoriali, veniamo al dunque: Ballo di famiglia è una raccolta di racconti fatta di garbugli identitari in cui piombiamo senza premesse lungagnone, spesso materializzandoci all’improvviso a un crocevia o sull’orlo di uno scontro che ha il sapore minaccioso degli eventi irreparabili.
La cornice socio-geografica generale è quella della borghesia americana degli anni Ottanta, quella dei sobborghi dove si consuma una normalità di bisogni primari appagati, cani sul prato e piscine col dosaggio del cloro sempre subottimale. Ed è proprio in quelle vie ordinate o in quelle casette di villeggiatura imbiancate di fresco (ma con le tubature che perdono) che i personaggi fanno ritorno senza scampo, lasciando a intermittenza le grandi città che faticosamente cercano di chiamare casa. Se ne sono andati per trovare il modo di somigliarsi di più, ma non riescono mai davvero a dimenticare da dove vengono e, di sicuro, non tornano a cuor leggero.

Le famiglie di queste storie sono piene di crepe da ricucire, crisi di nervi più o meno incancrenite, voltafaccia e compromessi per il mantenimento di una parvenza di decoro. C’è gente che si impegna in nome di un’armonia collettiva ormai da tempo demolita e, nel farlo, pretende che ogni sacrificio venga riconosciuto e riverito. Emerge, sempre, il tema della sessualità, che qua assume anche il ruolo di cartina di tornasole definitiva dell’identità e della capacità di accettarsi e di farsi accettare davvero in un contesto che ama dipingersi come “aperto” e pronto ma, in definitiva, forse così accogliente non è – e chissà come dev’essere stato, negli anni Ottanta, far uscire un libro che così a fondo indaga l’incontro/scontro tra omosessualità vissuta allo scoperto e quieto conformismo suburbano.

Si parla anche di malattia, buono e cattivo vicinato, eredità, matrimoni che finiscono e riassetti faticosi, rancori antichi, dissesto mentale. Leavitt ci presenta questo concentrato esplosivo di spigoli transitando per i particolari minimi dello stare insieme e organizzando per noi riunioni di famiglia che costringono i nodi a tornare al pettine originario, per quanto controvoglia e con risultati potenzialmente distruttivi, lasciandoci sempre un gran mucchio di piatti da lavare e l’amara sensazione di aver ancora una volta sbagliato a dire la verità, anche se non potevamo farne a meno.

Una riscoperta per me graditissima che, se vi va, è anche ascoltabile su Storytel con la voce di Gianmarco Saurino. Per provare Storytel, ecco qua un propizio collaudo gratuito di 30 giorni.

Ai libri animati da ottime intenzioni e da un forte messaggio positivo sono propensa a condonare più di una pedanteria, lo dichiaro con serena gioia. Di base, sono anche molto avversa ai libri che necessariamente devono provare a insegnarti qualcosa, perché molta meraviglia letteraria nasce anche dal raccontare liberamente quello che fa schifo di noi. Qua, però, c’è qualcosa di così avvolgente e confortante che, per una volta, mi sento di lasciar germogliare la speranza.

Che accade? Un fantozziano assistente sociale stipendiato da un dipartimento statale ultra burocratizzato che ha lo scopo di monitorare l’attività della gioventù magica viene spedito su un’isola remota per un incarico segretissimo: ispezionare un orfanotrofio che ospita bambini ancora più inusuali (e potenzialmente pericolosi per la collettività) del “solito”.
Linus Baker parte (tremebondo) per l’isola con la convinzione di poter tenere alla larga i sentimenti, spedendo per un mese alla Suprema Dirigenza scrupolosi rapporti super obiettivi e asettici. Nulla sembra poter scalfire la sua bolla di abitudini, remissiva routine impiegatizia e senso del dovere, ma l’orfanotrofio di Marsays non è un luogo che ama lasciarsi incasellare da convenzioni e regolamenti.
Cosa succede quando un grigio burocrate incontra il magico – il diverso – in tutto il suo assurdo potere?

Ora, là fuori ci sono romanzi sicuramente meno didascalici che intendono raccontarci il potere dell’ascolto e dell’incontro, il valore fondamentale che anima la necessità di comprendere quello che non conosciamo prima di respingerlo, odiarlo, ostracizzarlo e cancellarlo. Uscito per gli Oscar Mondadori nella traduzione di Benedetta Gallo, La casa sul mare celeste allarga l’approccio queer – forse rendendogli le vaste applicazioni rappresentative che davvero incarna – per farci riflettere in maniera sfaccettata sulla non conformità – fisica, comportamentale, psicologica, anagrafica e morale, se con “morale” intendiamo quello che una massa compatta e allineata alla struttura di potere vigente ritiene lecito, rassicurante e legittimato a esistere.
Ecco, la fuori ci sarà sicuramente qualcuno che raggiunge obiettivi similari avvalendosi di metodi meno “spiegottosi”, ma è anche probabile che il contesto in cui ci muoviamo possa beneficiare degli spiegotti e di una storia che con semplicità, accessibilità e molto calore illustra un messaggio basilare che sembra non essere ancora del tutto passato.
Nemmeno troppo tangenzialmente, poi, è una storia che cerca anche di farci riflettere sul peso enorme della responsabilità individuale, sul potere che ogni granellino di sabbia potenzialmente può esercitare, per quanto insignificante si ritenga. È una storia che sì, ci esorta anche a smettere di sussistere e a iniziare a vivere, ma la sincera contentezza che ti viene spontaneo provare per il personaggi – per quanto tanti, specialmente i bambini, siano sbozzati su un canovaccio che resta un po’ sempre il medesimo – compensa il rischio della stucchevolezza.

Insomma, è un romanzo appetibile per un pubblico assai trasversale – gioventù compresa… anzi, gioventù in primis – che, per quanto ricordi altro che già possiamo aver letto (Miss Peregrine, tanto per dirne una) resta un piccolo faro di pace e sudatissima armonia, senza tralasciare le molte oscurità e le innumerevoli lotte quotidiane che ogni “disallineato” o “disallineata” ben conosce. Ancora adesso. Ancora oggi.
Il fantastico è sempre stato una potente macchina di metafore per riflettere su chi siamo e sulla traiettoria che potrebbe assumere il nostro futuro. E di chi mai dovrebbe essere questo futuro, se non di tutt*?