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Ponte alle Grazie

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Jean-François Champollion diventerà il vostro nuovo spauracchio durante quei tremendi momenti di smarrimento del tipo “maledizione, non ho ancora combinato niente nella vita… e ormai è tardi!”. Ebbene, Champollion decifrò la Stele di Rosetta a 20 anni, devastando la nostra autostima ma consegnando al contempo al mondo, nel 1822, la chiave per restituire voce ai monumenti di una civiltà intera, rimasti muti per millenni insieme al resto dell’abbondantissimo lascito documentario disseminato tra Alto e Basso Nilo. Io, a 20 anni, non riuscivo neanche a gestire un paio di collant, figuriamoci interpolare il greco, il demotico e i geroglifici, primeggiando tra gli studiosi della mia epoca in rapidità ed efficacia.

Invidia per l’erudizione altrui a parte, in questo saggio storico-linguistico – in libreria per Ponte alle Grazie -, l’egittologa Barbara Faenza punta a farci comprendere meglio il funzionamento della società dell’antico Egitto attraverso la scrittura. 
Il segno immortale non è un corso di grammatica egizia, ma qualcosa che somiglia di più a un esperimento di immedesimazione e razionalizzazione di una realtà passata, un tentativo di avvicinarci al modo in cui un antico popolo ha assimilato il suo ambiente e ne ha codificato i meccanismi (per immagini simboliche rimaste punto fermo nonostante il lunghissimo e longevo susseguirsi di dinastie faraoniche), sia dal punto di vista “pratico” che filosofico. Scrivere costruisce il mondo, insomma, ma è dei mattoni di quel mondo che la scrittura sembra servirsi per descrivere l’esistente.

Al di là delle infinite e sfiziosissime curiosità che potrete ricavare da questo libro, il messaggio che forse più affascina ha a che fare con la sacralità attribuita alla scrittura, come veicolo della voce divina e mezzo ordinatore. La cosmogonie di maggior “successo” cominciano sovente con una voce che ordina al mondo di esistere, ma è solo scolpendo un nome nella pietra che si garantisce all’anima di sconfiggere il tempo.
Ogni segno geroglifico somiglia a qualcosa che c’è e si vede, ma la scrittura nell’antico Egitto è elevata ad arte “magica” che, con la sua sintesi sapiente, trasforma in concetto universale anche il più semplice dei segni. C’è del magico davvero nel sapere scegliere gli elementi più adatti a produrre questo ponte immediato tra forma stilizzata ed espressione culturale condivisa, guidata da logiche che nemmeno troppo in filigrana comunicano ancora anche a noi.
La scrittura descrive quel che c’è, ma plasma anche i valori che guidano il nostro sguardo: è un processo circolare di creazione e uno scambio che si serve della codificazione di una grammatica e di uno specifico bacino di convenzioni per dare senso e memoria a quel che consideriamo concepibile, pensabile, “nostro”… sulle sponde del Nilo come oggi, forse. Al sapiente Ptah l’arduo responso… e a voi una felice lettura geroglifica.

 

Dunque, che Margaret Atwood volesse tornare nel mondo del Racconto dell’Ancella un po’ si era già capito dal suo prezioso coinvolgimento nella produzione della serie tv, credo. Tenderei anche a non dimenticare le sue numerose e schiette dichiarazioni, che si potrebbero riassumere all’incirca così: dati i tempi che corrono, nemmeno il più distopico degli scenari può essere confinato in maniera inequivocabile nel regno dell’impossibile.
Tornando alla serie tv, in questa casa siamo riusciti a vedere solo la prima stagione – il “may the Lord open” qua ha funzionato e… diciamo che restiamo molto meno aggiornati di prima, sul fronte dell’intrattenimento audiovisivo -, ma mi è sembrata una valente trasposizione dello spirito e del “mondo” creato dal libro, con qualche pezzettino in più. La serie non è solo un compitino splendidamente svolto, ma una sorta di ponte verso un territorio inesplorato. Un’espansione credibile e coerente di quello che già c’era.

Ecco.

I Testamenti proseguono l’opera, librescamente parlando.
Già dal Racconto dell’Ancella sappiamo che Gilead non esiste più, ma non ci vengono offerti indizi o informazioni solide su come il regime finisca per sgretolarsi. I Testamenti sono una sorta di genesi del disfacimento. Anzi, alzano il velo su un lungo processo di decomposizione che, ad un certo punto, si fa irreversibile, perché troppo ha offeso lo spirito umano e troppo ha richiesto ai suoi stessi esecutori, burocrati e carnefici.
C’è un punto di innesco, in ogni reazione a catena capace di demolire un intero ordinamento. E I Testamenti si muovono nell’arco temporale di chi, più o meno intenzionalmente, ha acceso la miccia.

Il libro è ambientato 15 anni dopo l’Ancella e – senza spoilerare (quel che leggerete qua, a livello di “fatti”, è quello che scoverete senza particolare difficoltà nelle prime pagine) – è costruito grazie a una combinazione di tre voci. Un personaggio affida a un manoscritto le proprie memorie, mentre le altre due narratrici ci restituiscono la loro testimonianza grazie all’espediente della registrazione “ritrovata”. Il risultato è un intreccio a orologeria che, saltando da una voce all’altra, ci fa piombare nelle profondità di Gilead e riesce anche a ricordarci, molto nitidamente, perché ci sono venuti i brividi la prima volta.
Ma cos’è, allora? Una specie di loop basato sull’auto-citazione?
No. Anzi.

L’Ancella ci mostrava una transizione.
Il mondo “normale” che diventa Gilead.
Donne che vengono estratte da un contesto per noi riconoscibile – da uno stato di diritto che può somigliare al nostro e da una quotidianità non distante da quella che ci è vicina – per essere riconvertite ad Ancelle, Mogli, ingranaggi del sistema. Donne che ricordano come si viveva prima. Donne che hanno subito una riprogrammazione violenta di ogni certezza, libertà e margine di manovra.
Ebbene, nell’Ancella abbiamo visto come queste donne venivano utilizzate per sfornare in serie nuovi cittadini di Gilead, ma nei Testamenti scopriamo che cosa succede a questi bambini. Anzi, a queste bambine, per forza di cose prive di punti di riferimento alternativi.
Come cresce una bambina a Gilead?
Che cosa ci si aspetta da lei?
Qual è il sistema di valori che dovrà assimilare?
Quali saranno le tappe della sua vita?

Se l’Ancella era la cronaca di una “sovrascrittura” forzata – se vogliamo far finta che la testa, il corpo e il cuore di una persona siano un supporto informatico già pieno di dati, convinzioni e costrutti radicati -, Testamenti sono, in parte, la storia di una materia vergine che incontra un totalitarismo teocratico.

La scelta delle tre voci, in questo senso, è emblematica. E ci offre anche uno spaccato alternativo di un personaggio tra i più detestabili e cruciali dell’Ancella – anche qui, non spoilero nulla che non vi dica già lei quasi all’istante.
La prima voce, infatti, il vero “testamento” del libro, in un certo senso – perché è l’unico che viene redatto con una qualche programmaticità e slancio verso i posteri -, è quella di Zia Lydia.
La seconda voce è quella di un’adolescente di Gilead, figlia di un Comandante e di una Moglie che molto la ama ma che poco potrà proteggerla.
La terza voce, speculare alla seconda, è quella di una ragazza canadese che vive nel mondo ancora libero e che osserva Gilead dall’esterno.

Le tre donne sono legate da un filo che un po’ appartiene alla matassa del destino e parecchio dipende da una scelta deliberata, dalle molte facce di una medesima menzogna.
Indipendentemente da cosa succede e dalla solidità della tensione narrativa – non so cosa capiterà a voi, ma io mi sono sparata tutto il romanzo alzandomi una volta sola per andare a prendere due biscotti, quindi tenderei a dire che no, di momenti di fiacca non ce ne sono – ho apprezzato profondamente la possibilità di esplorare Gilead imboccando sentieri poco battuti.
Nell’Ancella sapevamo che c’erano le Zie. E basta. Da dove vengono? Come possono continuare a campare, sapendo di essere quello che sono? Come possono sopportare il ruolo che sembrano rivestire con tanto zelo?
Ebbene, benvenuti nel mondo delle Zie – e nella testa di Zia Lydia.
Ormai anziana e prossima al raggiungimento di uno status quasi mitologico, all’interno di Gilead, Zia Lydia è un enigma di raro fascino. Banalità del male? Nella sua lungimiranza e nel suo acume – e pure nel suo spiazzante senso dell’umorismo – c’è ben poco di banale. È una vittima che disegna la sua prigione… e lo fa con un talento fuori dal comune. Credo sia diventata uno dei miei mostri letterari preferiti.

E le ragazze?
La nostra amica canadese è un ingranaggio utile, ma è Agnes che ci riporta alla quotidianità di Gilead. Grazie a lei ci rendiamo conto, tra le altre cose, che il mondo delle “donne rispettabili” – che esclude le Ancelle, quindi – è forse ancora più ristretto, crudele, innaturale e strumentale di quello che DiFred è riuscita a mostrarci. Quel che scopriamo, però, è che il rancore è un sassolino che può increspare anche il più vasto dei laghi. E che, nonostante tutto, esistono reti di salvataggio che somigliano molto a bug di sistema ben collaudati.
La faccenda “stupenda”, però, è che nessuna scappatoia riesce a sembrarci consolatoria. È un romanzo che riflette (anche) sulla natura del potere, sui compromessi fatali e devastanti che il caso o la volontà ci costringono a stringere quando sappiamo di non avere, di fatto, nessuna arma a disposizione. E l’orrore sta anche lì. Nel dover manovrare all’interno di un angolo di irrilevanza assoluta nel disegno del mondo, perché non è un mondo che ci interpella o ci ritiene capaci o degne di decidere da sole. E, nel caso di Gilead, potrebbe sembrare una questione di fede.
Ma la fede è, ovviamente, un mero pretesto. Uno dei tanti.
Nel disegno divino non credono i Comandanti come non ci credono le Zie, non ci credono le Mogli e non ci credono gli Occhi. Ogni disegno che possa giustificare un meccanismo di sopraffazione e la creazione artificiale di un privilegio, di una nuova “catena alimentare”, di una forma di assolutismo può essere spacciato come disegno divino, con i giusti accorgimenti. E da dove si comincia? Occultando la conoscenza. Distorcendo i fatti. Ridisegnando la realtà per eliminare ogni spiraglio, cancellando la possibilità di immaginare un’alternativa. Crescendo le nuove leve in un mondo dove l’orizzonte non è una linea immaginaria che si sposta man mano che esploriamo e impariamo, ma qualcosa di solido. Forse è questo quello che mi terrorizza di più, sia nell’Ancella che nei Testamenti. La prospettiva di dover vivere all’interno di un dogma vuoto, fittizio, strumentale. È l’impossibilità di accedere a una narrazione diversa che ti sottrae la possibilità di sospettare anche solo lontanamente che questa narrazione diversa ci sia, in qualche modo. E il ciclo si auto-alimenta, man mano che la capacità di dubitare si diluisce.

Mi sono dilungata?
Mi sono dilungata.
In estrema sintesi? È bellissimo. Margaret Atwood non aveva bisogno di soldi. Aveva davvero dell’altro da dire. E quel che dice continua ad essere prezioso e terribile.

Concluderò poco onorevolmente con due parole: ZIA MAYBELLINE.
Ah, un’altra cosa. Esaminate bene la copertina di Noma Bar (quarta compresa). È molto meno minimal di quel che sembra.

*

I Testamenti è uscito In italiano per Ponte alle Grazie con la traduzione di Guido Calza. Leggetelo, che almeno ne parlo con qualcuno. Sto esplodendo. Manco con Endgame ho patito tanto.