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Allora, qua devono proprio piacervi molto le piante… ma se vi garbano e vi interessano vi troverete a meraviglia. Non vi prometto che vi ricoprirete di possenti boccioli, ma qualche germoglio di curiosità di certo spunterà.

Con La confraternita dei giardinieri – tradotto da Federica Oddera per Ponte alle Grazie – Andrea Wulf esplora, sviscerando le gesta di una manciata di personaggi indubbiamente attratti dal verdeggiare delle frasche, un momento rivoluzionario per la botanica globale, localizzando nell’Inghilterra del Settecento  il crocevia decisivo del cambiamento.
Nonostante la collettiva mitizazzione del “giardino all’inglese”, infatti, prima del  Settecento non è che la piovosa Albione potesse vantare delle gran punte d’eccellenza. Prati stupendi e curati con scrupolo estremo, certo, ma la varietà botanica era relativamente scarsa, le fioriture “poche” e concentrate in periodi specifici e a guidare davvero i trend paesaggistici per le grandi dimore erano Francia e Italia.
Un bel giorno, però, un vivaista intraprendente sfidò la collera di Dio e osò modificare la creazione dell’Onnipotente, producendo il primo ibrido floreale “intenzionale”… e da lì tutto cambiò, inaugurando anche la mania per il giardinaggio che non smette di contraddistinguere la Gran Bretagna moderna. Wulf parte da Thomas Fairchild e arriva fino a Linneo – che tra molte resistenze riuscì con gradualità a introdurre un sistema di classificazione delle piante universalmente utilizzabile e finalmente “razionale” -, intrecciando la storia della botanica come nascente e rigorosa disciplina scientifica alla storia commerciale e culturale dell’Impero (e del mondo).
Tra gentiluomini dilettanti, viaggi d’esplorazione, collezionisti, allievi ingrati (ma favolosi), semi e talee trasportati da una sponda all’altra dell’Atlantico, specie scoperte e specie importate, Wulf costruisce un’avventura del pensiero – nella nascente epoca dei Lumi – splendidamente documentata e rigogliosissima, mi viene da dire.

Indicazioni di potenziale fruizione? Eccoci. Ho ascoltato Wulf su Storytel con la splendida lettura di Ginestra Paladino – se serve è sempre attivabile il nostro tradizionale periodo di prova gratuito del servizio di 30 giorni -, ma nulla vi vieta di optare per il libro-libro.

Le piante si evolvono facendosi gli affari propri. Alcune hanno sviluppato strategie raffinatissime per tenere alla larga i predatori – disgustandoli col saporaccio delle loro foglie o rincoglionendoli con principi attivi che puntano a disorientarli, più che a ucciderli – o per rendersi più gradevoli agli insetti impollinatori e, dunque, farsi “propagare” con maggiore zelo. Alcuni di questi grimaldelli evolutivi si esprimono in molecole o composti che, incidentalmente, producono effetti di varia natura anche su di noi. Usiamo le piante per alimentarci, curarci o tentare d’ingentilire il nostro aspetto da tempo immemore… ma che succede quando di mezzo c’è una potenziale alterazione dei meccanismi di funzionamento della nostra mente? La faccenda si complica. E si fa anche molto affascinante.

Senza lesinare sulle imprese di coltivazione, Michael Pollan raccoglie in Piante che cambiano la mente – uscito per Adelphi con la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra – tre approfondimenti distinti su altrettante sostanze psicoattive che, a vario titolo, hanno intrecciato una relazione solida e duratura con noi: l’oppio (ricavabile da papaveri molto più comuni di quel che potremmo sospettare), il caffè e la mescalina/il peyote. Sono tre reportage scritti in diverse fasi della carriera di Pollan, qui ricontestualizzati e rivisti per interrogarci anche sulla ricezione culturale, sociale e “criminale” del consumo. Se il caffè (e il tè) possono essere considerati stimolanti che potenziano la nostra performance e rientrano nel regno dell’accettabilità e della legalità, infatti, su oppio e allucinogeni si addensano riflessioni e strutture di controllo di ben altro tenore.

L’accettabilità di una sostanza, ci dice Pollan, è di fatto un costrutto sociale e normativo deliberato. Quel che non ha la capacità di disturbare l’ordine costituito “va bene” – ciao, caffeina che ci rendi più efficienti! – mentre su quello che può scatenare effetti meno mappabili e controllabili si legifera in maniera molto più stringente, in soldoni. L’oppio è un buon esempio di liminalità – e la crisi degli oppioidi negli USA fa ben capire quanto sia spesso sdrucciolevole il confine tra droga e farmaco – e il capitolo sulla mescalina allarga ulteriormente il campo accogliendo una nicchia di consumo molto specifica: per i nativi americani il peyote è una pianta sacra e uno strumento per preservare il collegamento con la sfera spirituale della natura, oltre che uno dei pochi collanti comunitari rimasti. Insomma, in questo libro si parla di piante, di persone e di norme condivise, più che di “sballo”.

Devo dire che m’aspettavo un’esposizione un po’ più vivace e meno guardinga e che non sono rimasta particolarmente colpita dalla voce narrante, ma ho apprezzato gli sforzi di allargamento del campo e l’approccio “multidisciplinare”. In inglese si usa drug sia per parlare di droghe che per definire i farmaci e le medicine… e forse il punto di questi tre pezzi sta proprio lì, nell’impresa fluida di definizione di un confine che per le piante da cui ricaviamo questi composti – capaci di alterare la nostra coscienza e il nostro modo di “funzionare” – semplicemente non esiste.