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È possibile innamorarsi perdutamente di una persona che non riusciremo mai a conoscere davvero e che in maniera sistematica ci nasconderà per tutta la vita informazioni rilevantissime sulla sua identità? C’è un limite fisiologico in quello che possiamo dire di sapere degli altri – “vicini” o lontani che siano: spesso dipende da omissioni deliberate e altrettanto spesso dipende da noi, da quello che capiamo e di cosa ricaviamo dai dati e dai racconti che riceviamo. Ma dove possiamo tracciare un confine d’accettabilità – sempre che tracciare un confine abbia senso? Gli inganni reggono perché scegliamo di farci prendere in giro o perché pensiamo di essere speciali, di essere le uniche persone al mondo che hanno potuto beneficiare del vero volto di qualcuno? O forse è solo una questione di fede o di sottomissione? Prendo quello che vuoi darmi e se vorrai darmi solo le briciole mi accontenterò, perché son bastate quelle tre briciole lì a rivoluzionarmi la vita e a farmi sentire felice.

Catherine Lacey si mette nei panni di una donna che è stata sposata per anni con un enigma all’apparenza insondabile. La X del titolo era una poliedrica artista che, per decenni, ha spaziato dalla musica alla letteratura, dalla scultura alla fotografia. Una persona famosa, conosciutissima per il suo lavoro, onorata da retrospettive e considerata a pieno titolo una figura di spicco del mondo creativo.
X conquista una prima notorietà grazie a una performance decennale di rara ambizione, Il soggetto umano. In quest’opera tentacolare, che viene esposta in un accumulo di “prove” fotografiche e documentarie, X appare come una collezione di maschere: per quei dieci anni lì ha incarnato identità diverse, travestendosi, scegliendo nomi fittizi e presentandosi “in società” senza mai abbandonare questi personaggi. Le sue identità alternative hanno fatto musica, scritto libri, fondato case editrici, scatenato polveroni, fatto cinema e dipinto, senza lasciar mai intuire che dietro a tutta quella roba si celasse un’unica mente. Anche dopo essere uscita allo scoperto e aver raccolto gli applausi del caso, X non spiega mai le sue motivazioni, la sua vera provenienza, la sua storia. Non lo spiega alla stampa – che glielo chiede con assiduità – e non lo spiega a sua moglie, C. M. Lucca. Sarà proprio Lucca che, dopo la morte improvvisa dell’artista, decide di scrivere questa Biografia di X, un po’ per confutarne una piena di scemenze – per quel che può saperne, in fondo – e un po’ per esorcizzare X, per ricomporne l’immagine e scoprire, finalmente, chi era la donna che tanto ha amato… e che così poco ha condiviso con lei. Anche il loro matrimonio era solo un esperimento? Possiamo forse dire di aver creato una felicità autentica? Ma chi mai ho conosciuto io? Gambe in spalla, proviamo a capirlo, anche se molto male farà.

Lacey è molto abile e anche molto paziente. Il circo che tira in piedi con Biografia di X – tradotto per Sur da Teresa Ciuffoletti – è ambiziosissimo e anche ben congegnato, mi vien da dire.
Ogni volta che in un romanzo c’è un personaggio e se ne racconta la parabola si compila in fin dei conti una biografia immaginaria, ma qua troviamo una sovrapposizione di “filtri” e un’operazione di mimetismo che deforma la storia conosciuta del Novecento per creare una dimensione alternativa. Tanto per cominciare, gli Stati Uniti non esistono… almeno, per come li intendiamo noi. Nel mondo che Lacey immagina per Lucca e X, gli stati del Sud sono riemersi dalla Seconda Guerra Mondiale autodeterminandosi in un Territorio indipendente teocratico e totalitario. A questo Sud oscurantista e repressivo si contrappone un Nord dai valori liberali accentuatissimi e un Ovest che va un po’ per conto suo. I territori non comunicano tra loro – c’è proprio un bel muro a separarli – e si campa in una condizione di tensione perenne.
Il fatto che il paese di Lucca e X sia fatto così ha una profonda rilevanza e anche la scelta di collocare queste vite fittizie – ma riprodotte con la precisione che spetta a personaggi reali – tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta è funzionale alla tenuta del gioco. Sono anni di figure pubbliche mitologiche, anni di costruzione di un’idea di fama e celebrità che va a braccetto con sogni e volontà di riscatto, anni di tumulto creativo e tentativi di teorizzazione dello spazio individuale nella sfera pubblica. Di prese di posizione. Di truffe possibili, perché ancora possibile era far perdere le proprie tracce, cambiare pelle, vestirsi di inganni. Lacey consolida questi sforzi di radicamento in una realtà per noi familiare – ma anche profondamente straniante – costellando la Biografia di Grandi Nomi da far incontrare a X, nelle sue varie emanazioni. Da David Bowie a Carla Lonzi, X sfarfalla qua e là portando scompiglio e moltiplicando le superfici riflettenti e le cortine fumogene di questa storia. Ma c’è dell’altro, perché tantissimi passaggi, dichiarazioni pubbliche di X, dialoghi e testi critici che Lucca riporta come frammenti del “suo” mondo sono in realtà citazioni che Lacey ricava da testi, romanzi, interviste e saggi che esistono nel “nostro”. Non lo dichiara nel testo, se non in un’appendice conclusiva ricca, gustosa e labirintica, separata dal libro di Lucca.

Ma com’è, alla fine? Io l’ho trovato più interessante che “piacevole”, se devo sintetizzare. Lucca documenta la sua ricerca trascrivendo interviste, ripercorrendo la sua relazione con X e riempiendo i periodi di vuoto “informativo” con le parole di testimoni, fantasmi del passato e “vittime” quasi sempre ignare degli inganni di X. Incrocia quello che ha intuito con le prove contenute negli archivi di X, tramutando tutto questo materiale in un ritratto che riesce a ricomporre un puzzle fattuale ma mai a catturare davvero le motivazioni di sua moglie. Certe scelte diventano più chiare e certe congetture meno campate per aria, ma X resta un’anomalia, un pozzo auto-conclusivo di solitudine e mistero. Non tutte le parti dell'”indagine” hanno la medesima incisività, c’è una mastodontica quantità d’incredulità da sospendere – soprattutto perché ci viene chiesto espressamente di aderire all’inganno -, ho odiato X e ho odiato Lucca e nemmeno per un istante ho trovato in X un briciolo di quel fascino ammaliante che il mondo intero pareva attribuirle.
X è un mostro?
O X è diventata un mostro per sopravanzare circostanze mostruose?
Chi siamo noi per assolverla o condannarla?
Che diritto abbiamo di considerare patetica la sua vedova – che la piange e la maledice… ma la ama, anche se di lei ha intravisto solo un frammento?
E quanto senso ha poi associare alla trasparenza, alla sincerità e alla verità esibita e “vissuta” una dimensione di indiscutibile moralità?
L’arte è finzione?
O è mettendo gli altri nelle condizioni di immaginare che si può fare arte?
Quanto si può disperdere e frammentare la propria essenza prima di scordarci chi siamo?
Ed è importante sapere chi siamo o conta di più badare a quello che sentiamo?
Può un amore diventare l’unica verità da proteggere, anche se tutto il resto è un’illusione?
Se lo scoprite, venitemelo a raccontare. Nel mondo di X ci sarà sicuramente posto anche per un saggio critico sulla sua fosca eredità. 

Dunque, Christine Coulson ha passato 25 anni a scrivere per il MET. Tra i suoi incarichi più recenti c’è stata una revisione completa delle didascalie delle opere esposte nelle British Galleries, un lavoro che m’immagino estenuante per puntigliosità, vastità della sapienza da mettere in campo e trasversalità delle competenze necessarie. Non paga, si è domandata se il medesimo approccio fosse estendibile anche alle persone.
In sintesi: possiamo immaginarci un’eroina romanzesca e raccontarla come si farebbe con un’opera d’arte? A quanto pare sì e il risultato è questo libro: One Woman Show è il catalogo della vita di Kitty Whitaker, una didascalia museale alla volta.

Prima di indagare sul perché scegliere una “forma” simile per costruire la parabola biografica di una donna nata all’inizio del Novecento risulti potentissimo, analizzerei una pagina, tanto per farvi capire l’andazzo.



Di didascalia in didascalia – con qualche intermezzo dialogico e altrettante incursioni fra le opere minori che la attorniano (i genitori, le conoscenti, la servitù…) – Coulson traccia l’intera parabola dell’esistenza di Kitty, dall’infanzia doratissima agli sconvolgimenti collettivi della crisi del ‘29 e della Seconda Guerra Mondiale, dagli amori agli anni senili, mettendola e togliendola dallo scaffale a seconda dei ribaltamenti di fortuna e di un’inquietudine intermittente, che appare come una crepa che non sempre si può restaurare o nascondere con un’energica mano di smalto.

Perché è stupendo? Perché la struttura matta risponde a una funzione cristallina: indagare la condizione della donna – locuzione tritissima che un po’ di orticaria me la fa venire ma riassume comunque bene il concetto – nel corso del Novecento. I pilastri? Il valore ornamentale e il legame tra soldi e potere. Kitty non incarna di certo le donne di tutte le stratificazioni sociali – perché nasce nella bambagia e da subito è per noi espressione di una squisita manifattura – ma nel suo fondamentale ruolo di oggetto trova fin troppa trasversalità.

Kitty transita da una collezione all’altra in un processo di emancipazione che ha più a che vedere con la sua natura eccentrica che con un’autentica fuga dalle sovrastrutture. Non le tocca mai lavorare sul serio ma, nonostante i benefici materiali, non riesce mai nemmeno a scappare dalla vetrinetta in cui è stata collocata. Il tempo spariglia le carte e lascia intravedere nuovi paradigmi, ma la curatela della mostra traccia confini precisi di decoro, aspettative e ruoli accessibili. Molto semplicemente, ci son posti in cui una Kitty non potrà mai essere esposta. E a lungo il medesimo destino è toccato – e spesso continua a toccare – anche a noi.

Non pensavo fosse un buon momento per imbarcarmi in un mattone di mille e passa pagine. A dirla tutta, non lo penso praticamente mai. Credo mi capiti perché cerco di prevenire un eventuale fallimento, perché temo sempre di finire schiacciata da slanci avventurosi che non posso sperare di sostenere. I libroni mi attirano, però. Vediamo se riesci a tenermi lì con te, librone. Vediamo cosa sai fare. Vediamo se sarò degna di te, librone. Cominciare il 2024 con L’ottava vita di Nino Haratischwili – in libreria per Marsilio con la traduzione di Giovanna Agabio – si è dimostrato un azzardo riuscitissimo. Non tanto perché al romanzo serva ancora dimostrare qualcosa – l’accoglienza trionfale della critica è stata praticamente unanime già dalla prima pubblicazione, nel 2018 -, ma più per la crescente sfiducia nelle mie capacità di gestione di un’epopea monumentale, di un libro “importante”, ramificato, tumultuoso. Non credo si possa mai davvero scegliere da cosa lasciarsi catturare e non tutti gli atti di fede vengono sempre ripagati, ma quando l’impresa riesce è anche salubre mettere in piedi un piccolo festeggiamento. Bravo, librone. Eccoci qua.

Haratischwili ha trascorso l’infanzia in Georgia negli anni Novanta e abita in Germania dal 2003. Anche Niza, la sua narratrice e una delle “vite” del romanzo, è emigrata a Berlino e gestisce con estrema farraginosità la complessa eredità della sua parabola familiare all’interno dell’ancora più travagliata parabola “rossa” novecentesca. Haratischwili – che ha scelto di scrivere in tedesco, forse per garantirsi una sorta di cuscinetto protettivo – affida alla famiglia Jashi il compito di riprodurre su scala “umana” i molti stravolgimenti di un paese intero nel corso del Novecento. Visto che far piovere così tanta sfortuna su così poche teste potrebbe risultare un po’ bizzarro – nonostante l’inclemenza strutturale della storia in determinati angoli di mondo e il compiacimento del pubblico per la scalogna più nera -, Haratischwili porta in scena una sorta di profezia autoavverante: il capostipite degli Jashi è un pasticcere straordinario, unico inventore e depositario di una ricetta segreta per una cioccolata così buona da far spavento (letteralmente). Chi la assapora non avrà scampo… e di cioccolate se ne berranno parecchie, col procedere della narrazione.
Tutto comincia proprio da una florida bottega di dolci, nella Tblisi del 1917, per approdare a un recentissimo presente in cui la transfuga di un Est devastato tende la mano a una nipote ribelle, che balla sui resti di una storia di famiglia troppo intricata per essere ricomposta, troppo tragica per lasciar presagire futuri meno nefasti o disorientanti. Sarà Niza a rimettere insieme i pezzi per Brilka, a riconsegnarle il mosaico della sua discendenza, indissolubilmente legata alla storia di un paese dall’identità cangiante, fagocitato dall’orbita russa ma “produttore” certificato di ambiziosi progetti di rivalsa e di Grandi Mostri. Anzi, di Generalissimi – è così che Stalin viene identificato (o non nominato) nel libro – e di Piccoli Grandi Uomini – AKA Lavrentij Berija. Dalla deposizione degli zar alla battaglia di Stalingrado, dallo spauracchio del gulag alla realtà quotidiana dell’Unione Sovietica, dalla Primavera di Praga al crollo del muro di Berlino, la famiglia Jashi procede sul filo del conflitto perenne e dell’incomunicabilità generazionale. È come se il disegno di una grande utopia fatta di pace, uguaglianza, collaborazione e abbondanza – così orrendamente disattesa dalla realtà – si riflettesse sulle utopie “private” di serenità, successo e amore della famiglia, disinnescandole o reclamando sacrifici impossibili. Haratischwili manovra con abilità sia la storia della sua terra d’origine (e della Russia, nelle sue tante emanazioni) che quella dei suoi personaggi, che diventano man mano sia strumenti utili a descrivere un movimento collettivo (o uno smarrimento generale di fronte alle enormità dei fatti) che creature indipendenti, “rotonde”, credibili nelle loro mancanze, nelle loro irrazionalità e nei loro vuoti. Tutti si misurano con un’ombra nascosta, con la perenne assenza di padri e con l’onnipresenza di padri della patria che tutto vedono e tutto possono prendersi. Gli Jashi sono – salvo un’unica eccezione, direi – dei disallineati, ma nessun colpo di testa verrà loro perdonato. E no, non si tratta soltanto della maledizione della cioccolata.

Come fila via la lettura? Molto bene. Chiaro, non tutte le sezioni – perché il libro è diviso in “vite”, di volta in volta dedicate a un personaggio che funge da snodo centrale – vi appassioneranno in egual misura o procederanno con il medesimo ritmo, ma c’è uno splendido equilibrio tra lo scopo di produrre un Grande Affresco e l’idea di raccontare cosa succede a della gente che si incontra, si innamora, va in malora, si illude, parte per la guerra, fa figli, si dimentica i figli, prende in casa figli non suoi, balla, sogna, immagina l’Ovest, cura il giardino, fuma sigarette, beve troppo, si dispera, combatte, si vendica, si nasconde, va a scuola, si vende pure i fazzoletti sporchi, casca, si tira su, ricasca, rimane per terra, vede i fantasmi, si inganna, si sbaglia, si intestardisce, scappa, torna. È un libro che mette insieme una lunga serie di eventi irrimediabili e si interroga su come ci si possa convivere. È il resoconto di un percorso accidentato, contraddittorio e violento, costellato da sprazzi di speranza e di legami che diventano ancore, anche quando si disgregano nell’illusione. Si sopravvive scegliendo di chi prendersi cura, forse. Anche quando non conviene, anche quando non ha senso ma ci si sente in dovere di esercitare almeno quel minuscolo margine di libertà. Non c’è clemenza nella Grande Storia di questo libro, ma mai uno Jashi vi darà l’impressione di volersi arrendere, di aver raggiunto la meta di una lunga ricerca. In bocca al lupo, Brilka. A voi, se vi capiterà di voler leggere L’ottava vita, non servono formule benauguranti. Fa già tutto Haratischwili, con l’Est che ha conosciuto e con l’Est che ha scelto di restituirci.

Orbene, Dentro la vita di Luciana Boccardi riparte da dove eravamo collettivamente approdati con La signorina Crovato, confermandone il gradevolissimo e avventuroso andazzo.
Per inquadrare meglio, l’inizio-inizio ci colloca a Venezia nel 1936, a casa di una famiglia di musicisti – di illustre per quanto rovinosa discendenza – che sprofondano in una dignitosissima e alacre miseria dopo una disgrazia capitata al vulcanico padre clarinettista, Raoul. Cercando di sbarcare il lunario, la madre decide suo malgrado di allontanare temporaneamente Luciana. La bambina, crescendo, verrà chiamata a dare una solida mano per sostenere l’economia domestica, tra peripezie di ogni genere, la malaugurata ascesa del fascismo e impieghi assai variegati. Piena di risorse e di una forza d’animo invidiabile, date le grame circostanze, Luciana si industria per studiare e per trovare un impiego alla Biennale, polo culturale dell’arte, della musica, del teatro e del bel mondo dell’epoca. Ed è qua alla sua scrivania, non ancora diciottenne e fiera del grembiulino nero che porterà per quasi tutta la sua permanenza in Biennale, che la ritroviamo all’inizio del secondo volume della sua epopea personale.

Dentro la vita : Boccardi, Luciana: Amazon.it: Libri

Vera e romanzesca insieme, la parabola di Luciana Boccardi è uno spaccato di storia (e di storia del costume) che dai padiglioni in perenne fermento del Lido ci porta fino alle passerelle della moda parigina, tra macchine da scrivere, matrimoni non convenzionali ma funzionanti, grandi nomi e scorci lagunari. Una modernissima donna d’altri tempi, che ripercorre con orgoglio le tappe fondamentali di un’esistenza che forse poche e pochi – disponendo di una differente predisposizione d’animo – sarebbero riusciti ad affrontare con la medesima grazia divertita e con quella singolare capacità salvifica di cambiare pelle al momento giusto, riuscendo comunque a non tradirsi mai.

[Luciana Boccardi, firma storica del Gazzettino di Venezia, è scomparsa poco tempo fa, ma per darvi un’idea del piglio narrativo – che ben ritroviamo anche nei primi due capitoli della sua storia – ecco qua la sua ultima intervista. Era stato annunciato anche un terzo volume a concludere il ciclo, ma vediamo che accadrà…]