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A ogni piccolo essere umano instradato verso un destino importante pare serva un fedele Amico Artificiale. È un mondo così: alcuni avanzano e altri vengono lasciati indietro, anche se chi imbocca la via di un futuro auspicabilmente luminoso non è al riparo dalle minacce del presente e, in ogni caso, dovrà chiudersi in una sorta di bolla. Non ci si vede più a scuola, perché si studia da terminale, con tutori e tutrici che riempiono le giornate. I coetanei in carne ossa – quelli che appartengono al gruppo dell’eccellenza promessa, per lo meno – si incontrano durante eventi pianificatissimi di interazione sociale, spontanei quanto una presentazione a corte e altrettanto spietati. Si sta insieme da grandi o si passa il tempo con il proprio androide personale, che nasce – a modo suo – per esserci quando è richiesto, per vigilare con discrezione, per monitorare il benessere del bambino di cui è responsabile, per farlo felice dopo aver processato i parametri delle sue abitudini, delle sue parole e di quel che emerge dei suoi pensieri. Per replicare l’effetto che fa avere un amico.

Klara aspetta in vetrina che qualcuno la compri. Vede il mondo come un reticolo di scene da scomporre, osserva i movimenti del sole con pazienza e meraviglia, perché è dal sole che le sue batterie traggono nutrimento. La permanenza in negozio le insegna la speranza – perché solo quando troverà una famiglia potrà iniziare davvero a fare il suo lavoro – e le fornisce un rudimentale bagaglio di nessi causa-effetto, ricavati dall’osservazione di quello che capita in strada all’ombra di un grattacielo e nel viavai di auto e passanti, che formeranno lo scheletro della sua comprensione del “fuori”, della realtà. Klara crede nel potere benefico del sole e in una bambina che ha appiccicato il naso sul vetro e le ha promesso di tornare a prenderla. E Josie torna. Non sta bene, si capisce dall’andatura incerta e dall’apprensione inflessibile della madre, ma ha scelto Klara. E Klara l’ha aspettata. Che cosa diventeranno, l’una per l’altra?

Il premio Nobel a Kazuo Ishiguro, nel 2017, mi ha messo addosso una grande felicità, per quanto i suoi libri mi provochino immancabilmente dei magoni monumentali. Klara non fa eccezione, anche perché torna a indagare, anche se con modalità e protagonisti di matrice differente – e in parte sintetica, in questo caso -, i domandoni devastanti di Non lasciarmi.
Cosa ci rende umani?
Quanto possiamo sperare che qualcuno ci veda per quello che siamo, piuttosto che per quello che funzionalmente si può ricavare da noi?
Dove abita l’anima?
Klara racconta una dimensione alternativa in cui l’intelligenza artificiale non serve solo a impostare il timer per cuocere la pasta o a blandirci mentre aspettiamo che si palesi un operatore umano che risolva le nostre magagne, ma arriva a simulare in maniera credibile l’interazione interpersonale, lasciandone comunque intravedere i deficit. È un futuro (o un presente alternativo) in cui abbiamo imparato a fabbricare le relazioni, creando degli interlocutori che però possiamo spegnere a nostro piacimento o ignorare quando non abbiamo più bisogno di loro. E forse sta proprio lì la grande differenza, il mistero dei legami: una persona vera non ce lo permetterebbe mai, mentre un AA accetta di buon grado di essere riposto in uno sgabuzzino.
E Klara?
Klara è un miscuglio di ingenuità disarmante, ottusità intermittente e fede incrollabile. Circondata da una pletora di essere umani rassegnati, rabbiosi e scalfiti è l’unica entità che sembra aver conservato la capacità di credere. Stabilisce collegamenti tra fenomeni assolutamente disgiunti e ne ricava comandamenti, come farebbe una bambina piccola che non ha abbastanza informazioni per riempire i buchi – o per perdere la capacità di percepire il magico. Klara offre a Josie la soluzione meno “da macchina” che ci sia. Mentre la madre già si industria per riempire il vuoto che Josie non ha ancora lasciato – INSERISCI BRIVIDO -, Klara va a elemosinare un miracolo al cospetto dell’unico Dio che conosce, perché se non hai ancora metabolizzato i confini del possibile, finisci forse per spostarli un po’ più in là.

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Ma spezza il cuore – domanda obbligata quando si tratta di Ishiguro? Sì. E credo dipenda dal “tipo” di androide che Ishiguro ha scelto di costruire qui. È come se Klara – e i suoi colleghi – fossero al contempo troppo bravi a far finta di essere “veri”, così tanto da non poterci lasciare indifferenti, ma anche così vuoti da non concederci per un istante nemmeno uno spiraglio d’illusione.
Le persone, in prevalenza, trattano Klara come tratterebbero una macchina del caffè a forma di essere umano. Ne lodano le funzionalità, l’efficienza e il realismo, ma solo in circostanze estreme prenderanno in considerazione l’idea di abituarsi a lei come “persona”, ben sapendo che l’autoinganno non reggerà. D’istinto ci risulta abominevole ma, a ben pensarci, la tragedia di Klara è che non le pesa. Percepisce la gentilezza, quando ne è oggetto, ma non ha gli strumenti per esigere di essere trattata diversamente e non chiede altro che poter fare per Josie tutto quello che può. L’unico diritto che rivendica, diremmo per programmazione – o per concessione del Sole – è potersi prendere cura della solitudine di una bambina.

[In italiano è uscito nei Supercoralli Einaudi con la traduzione di Susanna Basso e tre copertine alternative firmate da Bianca Bagnarelli].

[Einaudi ha anche sfornato un test molto arguto per misurare il vostro livello di “fiducia” nell’Intelligenza Artificiale. Si può fare qui.]

[Se volete cimentarvi con il bellissimo inglese di Ishiguro, invece, io l’ho letto in quest’edizione].

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Nella mia mirabolante carriera editoriale ho vinto in tutto quattro premi Nobel. Uno in modalità kamikaze – che ero in ufficio da sola – e ben tre negli ultimi tre anni. Il Nobel è una faccenda interessante, surreale, incredibilmente istruttiva ed estremamente stancante. E da quando c’è il famigerato #TotoNobel, poi, non si vive più. C’è il bellicoso team-Murakami, ci sono i fenomeni che devono per forza dimostrarti che loro la letteratura africana contemporanea la conoscono benissimo – e voi che non capite il mangbetu siete dei poveri derelitti -, quelli che tifano per Ken Follett e Stephen King – che tanto hanno fatto leggere le genti del mondo -, gli snob così snob da snobbare anche il Nobel, quelli coi bambini all’asilo – diamolo a Peppa Pig! -, quelli che si scandalizzano per le candidature estemporanee dei cantautori, gli astiosi a prescindere, gli amici del vintage che non han capito che possono vincere solo gli scrittori ancora vivi, gli esperti di geopolitica e di minoranze – quest’anno tocca all’Oceania! E vogliamo solo autori gravemente celiaci! -, i depressi – tanto in Italia non legge più nessuno, è inutile che stiamo qui a farci i pipponi sul Nobel -, i curiosi che stanno zitti ma si divertono un casino, i “guardate che non c’è mica solo il Nobel per la Letteratura! Lo sapete com’è andato quello per la fisica, per dire? Asini!”,  gli scrittori rosiconi, gli scrittori che incitano i loro beniamini, noi soliti quattro pirla che ci emozioniamo piuttosto sinceramente e quelli che s’inventano i meme con Philip Roth e Leonardo DiCaprio che singhiozzano abbracciati. Tutto questo marasma di scemenze, nichilismo, tifo da stadio e belle speranze raggiunge il suo detestabile picco a circa un’ora dall’effettiva proclamazione del Premio Nobel. Un’ora di agonia pura e cristallina. Dovreste lavorare, ma c’è troppa confusione. Dovreste lavorare, ma siete ipnotizzati dal conto alla rovescia dell’Accademia di Svezia. Dovreste lavorare, ma poi vi accorgete che sono tutti lì a fare i tarocchi e buonanotte. Quest’anno, ormai assuefatta e recalcitrantissima, ho deciso di buttarla in caciara anch’io. E ho allietato la mia scomposta timeline con il #TotoNobel delle bestiole. Visto che ne vado immotivatamente fierissima, ve lo appiccico qua sotto.

Poi niente. Vincete voi e il pomeriggio diventa un inferno.