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[In collaborazione con quei cuoroni di Clementoni. :)]

Dopo il listone funzionale a tema “che serve quando arriva un nuovo essere umano”, eccomi di ritorno con uno spin-off tra il ludico e l’utile. In qualità di fratello maggiore, Cesare è stato un apripista molto autorevole e ora veleggia verso i sei anni continuando ad apprezzare molto il “catalogo” Clementoni. Tante delle trovate e delle soluzioni per la primissima infanzia che ci hanno aiutato con lui fungono da base anche per la piccola guida che troverete qua. Lo spirito è sempre il medesimo: fornirvi consigli rodati ed essenziali, sia per preparare il nido domestico – se volete immaginarvi come grandi uccelli da cova – che per indirizzare eventuali doni in entrata. Anche in questo caso, insomma, il senno di poi ci assiste con sollecitudine: meno cose ma cose che davvero si sono rivelate funzionali, preziose e sensate nelle operazioni di sopravvivenza all’arrivo di un neonato o di una neonata a casa.
Chiariti gli intenti, ecco i baldanzosi suggerimenti.


Sleepy Moon

Esordirei col grande spauracchio del sonno. Ci sono lucine “da culla” di ogni genere, forma e dimensione e tendono a supplire a due funzioni principali: creare un’atmosfera paciosa e rilassante per favorire la nanna (spesso con una combinazione cromatico/sonora) e dare una mano pure a voi a non brancolare nel buio quando si tratterà di disinnescare il neonato piangente. Noi tenevamo accesa la lucina durante l’addormentamento e la riaccendevo quando mi riappropriavo di Cesare per allattare di notte o placare i risvegli – abbiamo sempre avuto lampade da comodino un po’ troppo luminose per non devastare la vita a tutti. Insomma, le lucine da culla sono un buon compromesso. Qua, per esperienza, tendiamo a non amare molto gli aggeggi musicali – dopo un po’ possono condurre alla pazzia -, ma sul fronte del sonno si sono rivelati benefici. Questa lunina non è ingombrante, illumina il giusto e può fregiarsi di Mozart – che se dovete sentire qualcosa pure voi che sia roba degna, insomma.

 

Coccinelletta-proiettore

Altra soluzione sonoro-luminosa: i proiettori. Personalmente non amo le giostrine o i tralicci che penzolano sulla culla – i neonati vanno tirati fuori e rimessi giù un sacco di volte ed è già laborioso a sufficienza anche senza dover schivare attrezzi telescopici – ma è vero che qualcosa “da guardare” o da percepire nei dintorni possa favorire serenità e relax. Insomma, i proiettori non intralciano ma intrattengono e si possono anche spostare qua e là, aiutandovi ancora a non manovrare nel buio pesto.

 

Coniglietto confortante

Quello dei doudou – o comforter – è un vasto universo. Sono oggetti di transizione che devono essere facili da afferrare (ecco perché hanno prevalentemente una forma a “straccino”), piacevoli da stropicciare e, per sostenere le esplorazioni sensoriali dei primi mesi, interessanti abbastanza da offrire stimoli diversi (ecco perché ci sono nodi, linguette, orecchie che fanno rumorini croccanti o porzioni morsicabili). Coniglietto, contiamo su di te.

 

Soft Spiral Happy Animals

Sempre con l’idea di fornire un avvincente (per quanto compatto) parco giochi sensoriale, sono comodissimi anche i giochi a spirale. Si possono attorcigliare ovunque – dai maniglioni dei passeggini alle cinture delle sdraiette, ma anche ai bordi delle culle – e intrattengono allegramente con un mix di forme e materiali diversi da toccare, suscitando accesissime fascinazioni. Oltre al tatto, “esercitano” anche le orecchie: pure qua gli animalini contengono sonagli o imbottiture scrocchiettose da scoprire.

 

Palestrina (in bianco e nero)

Le palestrine sono una specie di Megazord concettuale: sono dei quadratoni morbidi dove gli infanti possono stazionare in modo sicuro e beneficiare di stimoli di diverso tipo, sia da fochine spiaggiate sulla schiena che durante i primi tentativi di rotolamento sulla pancia. Memore della lotta per la conservazione della mia salute mentale, tenderei a consigliarvi una palestrina come questa, che non ha luci o diffusori musicali. Son più snelle a livello di struttura e, se proprio devono far rumore, lo fanno per rispondere a un’azione del bambino. Qua c’è chiaramente la possibilità di appendere creaturine schiacciose qua e là o di spingersi in esplorazioni visive – perché il bianco e nero? Perché i bambini molto piccoli non ci vedono come gli adulti e assimilano più efficacemente i colori a contrasto.

 

Cuscino Kitty Cat Tummy Time 

Sempre in ottica di “guarda mamma mi hanno installato l’aggiornamento SAPER STARE A PANCIA IN GIU’ 1.0!”, un isolotto su cui far approdare i vostri coraggiosi bruchi striscianti. Anche in questo caso, il cuscinotto offre un supporto per i gomitini ma anche delle opportunità tattili per baloccarsi e/o decidere di spingersi un po’ più in là. Volendo, diventano anche dei cuscini da pisolino.

 

L’orsetto Bob

Concluderei con un suggerimento un po’ sentimentale, visto che conservo ancora l’orsacchiotto che ho più amato da piccola e che mi trascinavo OVUNQUE. Un orsetto ci vuole. Un orsetto è per sempre. Viva gli orsetti. 🙂

Un ricapitolone? Ecco qua il nutrito angolo del sito Clementoni che ospita le cuorosità di questo elenco e molto altro. Che dire, in bocca al lupo e felici primi mesi a voi!

 

 

Visto che siamo riusciti a preservare il primogenito fino ai cinque anni d’età e un po’ d’esperienza sul campo l’abbiamo guadagnata, ecco qua una raccolta ragionata – e sostenuta dal preziosissimo senno di poi – di COSE che si sono dimostrate indispensabili e utili per affrontare l’arrivo di un piccolo umano in famiglia. Perché mi metto qua a compilare un listone per neonati e neonate? Perché fra qualche settimana accoglieremo una creatura nuova e sto cercando di capire pure io cosa si può riciclare, cosa si può migliorare e cosa ci manca. Insomma, mi rinfresco le idee io e, incidentalmente, magari fornisco pure a voi qualche informazione sensata. In questo post troverete quello che abbiamo usato noi al primo giro – e che s’è dimostrato durevole – per affrontare i primissimi e primi tempi.

Procediamo.


Preparazione del terreno

LA FAMIGERATA BORSA DELL’OSPEDALE

Sì, le implacabili esigenze d’equipaggiamento iniziano dal parto e si configureranno in una borsa per voi e una borsa per chi nasce. Gli ospedali sono soliti fornire una lista di elementi indispensabili e/o caldamente richiesti o consigliati per la fase di ricovero – questa, per esempio, è quella dell’ospedale dove ho partorito e partorirò io – e visto che la vita è difficile, vi incoraggio a dar retta a chi tenta di semplificarvela. Cercatela o chiedetela, perché ogni reparto ha le sue “regole” organizzative e se date una mano nel farvi dare una mano filerà tutto più liscio.
Sì, i pannoloni post-parto sono grotteschi, ma facciamoci pace.
Sì, portatevi delle ZAVATTE che si possano lavare.
Sì, impacchettate la roba della prole separatamente, in modo che sia consegnabile al personale del reparto. Non partite con l’idea del “quando sono là smisto tutto”.
No, non prendete su ciucci, giocattoli, pupazzi e cazzate perché un bambino di due giorni non necessita di intrattenimento.
Sì, armatevi di vestaglia.

UNA RISORSA UTILE PER AGGIORNARE IL PARENTADO

Farete molte foto. Tutti vorranno riceverle. Voi non avrete voglia di mandarle a 30927209 gruppi di messaggistica diversi ogni sei minuti.
Come risolverla? Con un’app molto comoda che vi permette di caricare foto e video rendendoli consultabili da parenti e amici senza che vi rompano l’anima. Invitate chi volete e solo quelle persone potranno accedere ai materiali e caricarne. Altre utilità: precisissima misurazione del tempo, comodità di consultazione e, man mano che passano i mesi, “tesori” da ripescare. Lo spazio d’archiviazione è gratuito fino a una certa capienza e poi si paga un abbonamento mensile – noi li stiamo spendendo molto volentieri ormai da un lustro. L’app si chiama Back Then.


Mobilio domestico

Pinterest potrebbe avervi irrimediabilmente infuso un senso preventivo di sconfitta, ma facciamoci forza. Avrete tempo per allestire una cameretta degna di Downton Abbey e vi auguro di poterci riuscire, se le vostre ambizioni sono quelle. Noi, non vivendo in una magione sconfinata, abbiamo badato alla praticità e alla possibilità di allungare il più possibile la vita a quello che stavamo comprando. Sì, non ci siamo orientati sulla soluzione più economica del mercato, ma sono cinque anni che usiamo questa roba e ora ricominceremo il giro riciclando tutto per la creatura nuova… quindi sì, mi sento di dire che è stato un buon investimento.

Che vi serve, in estrema sintesi?
UNA CULLA.
UN FASCIATOIO.

Noi avevamo preso in blocco il sistema Stokke Home.
Com’era fatto? C’era una culletta e un cassettiera – predisposta per incastrarci sopra un piano aggiuntivo che fungeva da fasciatoio. A tendere, con il telaio della culletta e il piano del fasciatoio si assemblava una scrivania. L’abbiamo assemblata? Totale. Stiamo ancora usando la cassettiera? Totale 2.

La culla era così:

Sono molto triste perché pare non la producano più ma sono anche molto contenta perché riutilizzeremo la nostra. Per qual motivo? PERCHÉ BASCULA. C’è un telaio “fisso” ma la parte del materasso si può far dondolare, conciliando magistralmente il sonno dell’occupante.
Ci sono mille tipi di culla, là fuori. Io non ho optato per una di quelle che si attaccano direttamente al letto perché non sono mai stata in grado di allattare da coricata – andava già bene se ci riuscivo da seduta – e quel che mi premeva principalmente era avere il bambino in camera con noi per ridurre i pellegrinaggi notturni. Credo che Stokke non faccia più la culla Home perché mi pare abbiano “perfezionato” e allungato il potenziale utilizzo degli altri modelli – quelle celeberrime culle tonde con le sbarrette di legno che poi si allungano e si modificano per crescere col bambino senza imporvi di comprare prima una culla e poi un lettino.

Per quanto riguarda la cassettiera-fasciatoio, noi ci siamo trovati bene perché ci cambi e ci vesti sopra il bambino senza doverlo mollare lì per andare a frugare in un armadio. Mettevamo i pannolini nel primo cassetto, gli indumentini negli altri e le varie lozioni nello scomparto laterale del fasciatoio. È capiente? Non sembra, ma molto. Cesare ha un armadio suo da circa un mese ma fino ai cinque anni abbiamo usato quella cassettiera per tutti i suoi vestiti.

Collaterali utilità da fasciatoio: il nostro aveva il materassino imbottito “suo”, ovviamente lavabile. Una volta assicurata la morbidezza necessaria del piano d’appoggio, potete anche valutare di metterci su una traversina o un telo di più rapida gestione: si sporca e lo sostituite. È una soluzione che torna anche comoda quando si è in giro e magari non c’è sempre la possibilità di avvalersi di una “stazione di cambio” regolamentare.


Arnesi

Non arredano, ma soccorrono.

LA SDRAIETTA

Cielo, non posso allontanarmi nemmeno per lavarmi i capelli! Ebbene, è una menzogna. Armatevi di sdraietta. Placa le ansie, è facilmente spostabile, rimbalza e intrattiene, previene i ruzzoloni perché c’è la cintura e, con un opportuno riduttore che di solito vi vendono insieme al resto, la potete usare praticamente da subito. Perché no, i neonati non son capaci di stare seduti ma sono felicissimi di guardarsi attorno da spaparanzati.
Ma la piglio “motorizzata”? In giro ce ne sono parecchie che si muovono da sole ma, a mio parere, sono un po’ dei baracconi. La maggior parte sono dondolabilissime a mano e, nel caso scegliate uno di quei modelli che sono anche incastrabili sui seggioloni della medesima famiglia, tendete a prolungarne l’uso e le occasioni di utilità, variando anche l’inclinazione.
Noi avevamo preso la Steps, piazzabile anche sul seggiolone gemello.

IL MANGIAPANNOLINI

Dove gettare le scorie radioattive?
Ci sono degli appositi bidoncini. Sì, il fatto che esistano non è un mero esercizio di speculazione commerciale ma una buona invenzione. Sì, sono fatti apposta per non puzzare come la morte e per essere tenuti a portata di braccio. Col tempo imparerete anche a fare canestro con grande disinvoltura.
Ce ne sono di diversi tipi. C’è la tipologia dispendiosa ma a prova di disastro nucleare – ogni pannolino viene sigillato in un sacchetto tutto suo e poi finisce nel bidoncino – e c’è la tipologia onesta e snella tipo questo qua della Chicco che abbiamo usato noi. Nel primo caso vi dovete comprare il bidoncino e anche i sacchetti – perché funziona coi suoi e solo coi suoi, quindi periodicamente dovrete rifornirvi di ricariche -, nel secondo caso potrete benissimo avvalervi di un sacchetto della monnezza qualsiasi e basterà comprare il bidoncino per i fatti suoi.

LA VASCHETTA PER IL BAGNO

No, i neonati non sono scaraventabili nella vasca da bagno che usate voi. Sono minuscoli e scivolosi come anguille. Mia madre vi esorterebbe a immergerli senza indugi il catino del bucato, ma la civiltà ci fornisce qualche alternativa. Là fuori ci sono vaschette piccoline di ogni tipo. Noi avevamo scelto questa perché è pieghevole (e volendo anche trasportabile senza troppe cerimonie) e dotata di riduttore – una sorta di “cucchiaione” che si assicura al bordo e vi aiuta a sostenere la creatura nei mesi che precedono lo sviluppo dell’impagabile abilità dello stare seduti.

 

Altra cosa che può aiutare nelle abluzioni? Un termometro da bagno. Perché vogliamo bambini puliti ma non cotti.

LO STERILIZZATORE

Non fate come me, non mettetevi a bollire roba in una pentola piena d’acqua per settimane. Gli sterilizzatori esistono e sono nostri amici.
Allattate? Buon per voi. Vi servirà per eventuali ciucci, ammenicoli da morsicare nel periodo della dentizione, giochi scagliati in terra, componenti vari ed eventuali di un ipotetico tiralatte – contenitorini per il latte compresi.
Non allattate o fate allattamento misto? Benissimo per voi anche in questo caso: vi servirà ancora di più per i biberon, sia di vetro che di plastica.
Noi abbiamo la versione “vecchia” di questo, che sterilizza generando vapore, non si insozza, è capiente e può anche essere scomposto e ficcato nel microonde.

CUSCINI

Se allattate e non volete soccombere a dolori articolari incredibilmente avvincenti e insoliti, vi consiglio con tutto il cuore di trovare una seduta con uno schienale alto e confortevole e di munirvi di cuscino. Io avevo usato un classico Boppy della Chicco, che di certo non brilla per versatilità e potenziali impieghi alternativi, ma fa il suo. Sì, è comodo da sfoderare per i lavaggi e potete comprare delle federine aggiuntive.

Volete un cuscino concettualmente più “ricco”? C’è questo di Koala Babycare che può essere usato per allattare, come paracolpi in vista di futuri lettini, come nido-ciambellone o invalicabile muraglia di morbida ma implacabile sicurezza.

STRACCINI E COPERTINE

Che fungano da salviette, copertine o argini per bave, le mussole sono valide alleate. Sono tessuti morbidi, si lavano agevolmente, asciugano in fretta e resistono bene. Noi le abbiamo usate moltissimo sia in versione “lenzuolino” che in versione quadrata, tipo tovagliolo o straccino.

*

Ma la bilancia?
La bilancia per pesare i neonati è un oggetto di cui dotarsi se un medico vi dice che è indispensabile per monitorare la crescita (si possono noleggiare anche in farmacia) o di cui potete pensare di dotarvi spontaneamente se siete persone che gestiscono ragionevolmente le ansie. È uno strumento che può fornirvi un’informazione sul come sta procedendo la crescita, ma la gestione di quel dato – sempre nel caso non sia arrivato un* pediatra a ordinarvi di monitorare tutto con precisione marziale – sta poi al vostro equilibrio. Insomma, se vi dovete ossessionare tenderei a consigliarvi di evitarla.

Ma il tiralatte?
Io ne avevo preso uno “manuale” con cui mi sono trovata malissimo. Non ho allattato con particolare facilità e non ho collaudato tiralatte elettrici più sofisticati – che dovrebbero anche essere più comodi, quindi non mi addentrerò nell’argomento, che in generale è delicato e molto personale.


Andare in giro

Il TRIO

So bene quanto l’universo dei passeggini possa risultare disorientante, ma la prima cosa da fare è pigliare un metro e misurare la porta dell’ascensore. Aiuta nella scrematura iniziale: qualsiasi arnese sia dotato di un telaio più largo della porta dell’ascensore – o delle porte che abitualmente vi troverete a varcare nella vostra quotidianità – non è da prendere in considerazione.
Ciò detto, da che si inizia? La soluzione più lineare – per quanto possa apparire barocca – è il trio. C’è un telaio unico e sopra ci potrete incastrare tre supporti diversi: la navicella (per i civili: la culla), l’ovetto (per i civili: l’aggeggio per il trasporto in macchina) e il passeggino più comunemente inteso, che subentra quando gli infanti riescono a gestire un’anche vaga posizione seduta.
Sì, il trio è un baraccone e quando potrete finalmente optare per un passeggino “leggero” vi sentirete assai meglio, ma nostro malgrado ci vuole. Fattori ulteriori da considerare: come si ripiega? Quanto spazio occupa nel bagagliaio (da ripiegato)? Come si guida? Quanto pesa?
Il fattore compattezza è molto relativo. Il trio ha tendenzialmente un telaio grosso e di miracoli non ne accadono. Votate almeno per il sistema di “chiusura” che vi pare meno macchinoso e tenete presente che quelli col maniglione unico sono incomparabilmente più comodi da guidare (riuscite anche a spingerli con una mano sola) ma si chiudono con manovre più impervie e quelli con le due maniglie indipendenti (che da guidare per me sono scomodissimi) tendono a chiudersi “a ombrello” e sono un po’ più semplici. E il peso? Se siete soliti/solite uscire sempre con una dama di compagnia o con un valletto il problema potrebbe non tangervi, ma se programmate di fare cose per conto vostro assicuratevi di essere in grado di sollevare il maledetto passeggino in autonomia. Sì, potete chiedere aiuto ai passanti, ma dovendomi basare solo sull’altrui gentilezza in questo momento sarei ancora ad aspettare in cima alle scale della metropolitana.

Dopo aver girato per un po’ di negozi – cosa sensata perché vi fanno vedere materialmente come si incastrano e si chiudono le cose e potete anche cimentarvi in una prova di sollevamento – noi avevamo scelto un trio di Inglesina (il Trilogy) con telaio leggero e “stretto”, visto che il nostro vecchio ascensore era molto angusto. In questi cinque anni son cambiati colori e piccoli dettagli, ma il succo è questo:

UNA BORSA PER IL CAMBIO

Spesso i generosissimi produttori di sistemi trio tendono a omaggiarvi o a includere nei cento miliardi che gli darete anche una borsa per il cambio da agganciare al passeggino o da portarvi in giro. Sono quasi sempre delle specie di cartelle da postino bruttarelle e poco funzionali che vi penzolano davanti mentre spingete il trabiccolo e che a tracolla non vi metterete mai perché una roba pesante a tracolla mal si concilia con le tette – già piagate da problemi gestionali tutti loro.
Zaino? Meglio.
Uso potenzialmente eterno, mille scomparti comodi, tasche termiche, cerniere in posti impensabili ma saggi, lo aprite e sta in piedi da solo, capiente, possibilità di trovarne uno bellino, mettibile. Lo volete agganciare al maniglione? Si può. Volete buttarlo nelle retine-porta-cose dei passeggini? Si può. Ve lo volete portare sulla groppa o sbolognare a qualcuno? Si può.
Io avevo comprato questo – ma in una fantasia più giuggiolosa:

 

UN SACCOTTO TERMICO

L’inverno è laborioso, ma ce la si fa. Sarete comunque piagati da innumerevoli strati d’indumenti, ma la soluzione più lineare per uscire è avvalersi di un saccotto termico da ficcare nella navicella o da assicurare al passeggino (ci sono sempre delle fessure, dietro, per far passare gli spallacci delle cinture). Se posso, vi esorterei a propendere per i saccotti “interi” e non solo per quelli in cui infilare le gambe. Meglio ancora quelli con il cappuccio che si può stringere col cordino intorno alla facciotta dei bambini per riparare anche testa, collo e minuscole spalle.

*

Ma la fascia? Non ho informazioni intelligenti da elargire. Con Cesare non mi sentivo in grado di manovrarla e non ho mai provato. Ora che c’è un po’ più di fiducia magari mi cimento.


Bonus track finale?
Un libro, non posso esimermi. L’offerta di album di ricordi e/o diari per la registrazione di avvenimenti salienti nel percorso di crescita dei vostri neonati è molto estesa e spesso eccessivamente zuccherosa. Con Cesare non ho compilato un bel niente perché era già tanto se riuscivo a gestire la situazione, ma ora che brancolo un po’ meno nel buio mi piacerebbe imbarcarmi in un’impresa di documentazione. Uno spunto simpatico e poco “oneroso”? Ecco qua.

 

Bene, ho cercato il più possibile di razionalizzare e di sfrondare il superfluo… e dovrei aver finito. Serve comunque una barca di roba? Un po’ sì, ma mi auguro di aver limitato i danni e spero di cuorissimo che questa lista possa tornarvi utile nell’avvicinamento alla grande avventura genitoriale.
Ci aggiorniamo fra qualche tempo per uno spin-off dedicato ai primi giochi. :3
In bocca al lupo e PIGLIATELA CON TRANQUILLITÀ.

I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

*

La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

*

Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

*

Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

*

Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).

Non so di preciso che cosa voglio dire, ma magari lo scopro se comincio a rifletterci.
Dunque, il mio bambino ha compiuto due anni da poche settimane – il che significa che anch’io, in qualità di mamma, ho compiuto due anni. Non sono tanti, ma neanche pochi. E ho il sospetto che, per capire fino in fondo che cosa vuol dire essere “una mamma”, occorrerà ancora parecchio tempo. Forse è un’identità che si costruisce pian piano, ogni volta che soffiamo un naso o prendiamo al volo un bicchiere di plastica con stampato sopra il pesce Dory – magari prima che si schianti sul pavimento. Ogni volta che sentiamo una parola nuova – che combacia, possibilmente, con quello che un ditino sta indicando – o che facciamo del nostro meglio per renderci conto che no, il sabato mattina non si dorme più fino a tardi.
Sono proprio quattro esempi in croce dei millemila esempi possibili. Perché gli esempi non ci mancano. E nemmeno le narrazioni.
In questi due anni, oltre ad interrogarmi sulla metamorfosi identitaria che mi ha investita, ho cominciato a fare molto più caso a come tendiamo a raccontare l’esperienza della maternità. Ma anche a come questi racconti vengono “accolti” e metabolizzati all’interno delle reti sociali (tridimensionali e non) che popoliamo.

Mi utilizzerò come esempio non perché io ho ragione e gli altri sono scemi, ma perché faccio parte della casistica e mi pare una metodologia agevole.

Se uno va a vedere il mio profilo Facebook – ma quello personale, proprio – sembro una che non solo non ha un marito, ma manco si è mai riprodotta. Anzi, sembro una in coma da cinque anni che ogni tanto condivide (per chissà quale miracolo medico) dei link a quello che scrive o che fa per lavoro. E gli altri miei social non sono molto diversi, come approccio – anche se li utilizzo in maniera decisamente molto più “umana” rispetto al profilo Facebook. Sulle Stories di Instagram parlo tanto, in generale. E parlo anche di Cesare. Ma non è una presenza preponderante. Così come non lo si incontra molto spesso nella gallery. Quando c’è, poi, non lo si vede in faccia, ma sempre impegnato a scatenare la sua magnifica assurdità su oggetti, giochi, balocchi e scenari naturali. Non sono neanche una che manda a raffica foto del figlio agli amici. O che, parlando, riconduce immancabilmente la conversazione alla prole. Sempre a livello di contenuti multimediali, invece, amministriamo i parenti stretti con un’applicazione di photo-sharing che ci consente di caricare su questo super cloud condiviso tutti i video e le foto del bambino – i nonni e gli zii (che vivono tutti a un’oretta da noi), quindi, finiscono per avere in mano una fotocopia delle gallerie di immagini che ci sono sui nostri DEVAIS… e il resto lo integriamo telefonandoci indefessamente durante la settimana. Visto che coi social ci lavoro, poi, mi sono anche accorta di non essermi riconvertita a “mamma blogger”. Ho scritto spesso di Cesare e di noi – e ho anche accettato di partecipare a qualche progetto “da mamma” – ma, se una persona volesse leggere dei suggerimenti per organizzare la festa di compleanno perfetta per degli umani che arrivano a stento al metro d’altezza, qui non troverebbe assolutamente nulla.

Ecco.


Io, ogni tanto, mi sento a disagio. Perché, da un lato, mi pare di non “esternare” a sufficienza l’amore e la felicità che provo – considerando soprattutto la frequenza standard con cui i bambini rientrano nelle narrazioni degli altri. Dall’altro lato, però, percepisco il fastidio – spesso manifesto e fiero – di chi si trova a intercettare questi racconti.
Per farla breve, il timore di rompere i coglioni al prossimo che provo quando salgo su un mezzo pubblico con un bambino piccolo che potrebbe mettersi a piangere all’improvviso e per un tempo imprecisato (nonostante i miei sforzi di tenerlo allegro, di intrattenerlo e di ammansirlo) è lo stesso timore che mi sfiora SEMPRE quando mi viene voglia di pubblicare una foto di mio figlio, di inserirlo in una conversazione con il mio prossimo o di scrivere qualcosa che lo riguarda.

L’indole è indole, penso. E sono anche sicura che sia più un problema mio che una vasta piaga sociale. Cioè, anche in un contesto tra i più bambino-friendly del pianeta forse non passerei le giornate a creare album su Facebook dedicati a Cesare o a scrivere pensierini sulle sue gesta nelle caption di Instagram. E non risponderei alla domanda “Che ore sono?” con “Le cinque… proprio il momento in cui Cesare ieri notte ha tossito per tre volte svegliandoci di soprassalto. Ci siamo alzati tutti, siamo andati a vedere se si era scoperto e gli abbiamo accarezzato la testolina”.
Io, semplicemente, sono una che non lo farebbe “così tanto”… ma forse un po’ di più sì.

È anche vero che ci sono narrazioni con cui fatico a empatizzare, nonostante la condizione comune della maternità sia un fattore di avvicinamento. Per esempio, non ho voglia di leggere nessun libro sulle avventure di mamme pasticcione che nella loro consolante imperfezione cronica dovrebbero farci sentire meno inadeguate e più sprint. Così come fatico a identificarmi nelle foto con le mamme ricoperte di veli d’organza che stringono neonati al cuore, accompagnati da un immancabile “6 l’amore della nostra vita, kucciolo”. O con la maggior parte delle caption “da blogger” che vedo su Instagram.

Se non apprezzo tutto questo sono dunque uguale a quelli che dichiarano apertamente di odiare i bambini, anche se ne ho uno? Non lo so, ma non credo.
Perché sono sinceramente felice di imbattermi negli aneddoti di tante persone che seguo volentieri e che condividono anche molto spesso le gesta dei loro infanti, foto comprese. Di sicuro, crescendo, ho anche imparato ad analizzare meglio le classiche situazioni in cui ti viene da stramaledire i bambini perché “disturbano” o non si adattano a uno specifico contesto come piccoli Lord. Chiaro, non sono Santa Rita… se un bambino mi prende a pedate per quindici minuti su un autobus senza che nessuno gli impedisca di malmenarmi tendo a indispettirmi, ma spesso mi accorgo che le madri e i racconti delle madri vengono quasi sempre recepiti con un velo di compatimento. Con un “rieccola qua, a menarcela coi figli”. E non mi soffermo sulla deriva di scherno che accompagna le famigerate “pancine” (nelle loro accezioni più o meno immaginarie o strumentali), perché lì si spalanca un abisso che ha come risultato finale “mamma = povera imbecille dell’alto medioevo”.


Nessuna mamma, forse, ha idea di come regolarsi quando comunica la sua esperienza, nel nostro specifico presente. In fin dei conti, non abbiamo punti di riferimento pregressi. Le nostre mamme non avevano questo problema, se così poi possiamo chiamarlo. Al massimo dovevano preoccuparsi della vicina di casa impicciona o dei parenti che dovevano per forza ficcare il naso nelle loro scelte educative. Non si mettevano a fare, a livello analogico, quello che facciamo noi con le storie e le immagini dei nostri bambini sui social (se abbiamo dei profili pubblici, ovviamente). Cioè, se ci pensiamo, è come se ci mettessimo in mezzo alla strada a distribuire fotografie della nostra prole (con tanto di didascalia) ai passanti. È un paragone scemo, perché i comportamenti si evolvono con i contesti e la normalità di quello che succede è misurata sulle abitudini che sviluppiamo (e che gravitano su un concetto di “accettabilità” che muta con le norme condivise in un certo periodo). Però ci penso, ogni tanto, a mia madre che si mette nel parcheggio della Società Canottieri Vittorino da Feltre a fare volantinaggio con le mie foto di Natale.
Noi, di contro, possiamo scegliere come approcciare la questione (nessuno ci obbliga a “comunicare” i nostri infanti), ma molto spesso continuiamo a non poterne controllare a pieno le conseguenze.
Io, per dire, quando voglio farmi del male vado a leggere cosa scrive la gente sotto ai post della Ferragni col figlio. Se voglio provare del furore vero apro i commenti sotto agli status di qualche amica che ha incautamente dichiarato di dover portare un neonato a fare l’esavalente o, peggio, che si è proclamata felice per il passaggio al latte artificiale.

Ma lasciando perdere i temi ritenuti scottanti o i personaggi famosi – che tirano sempre fuori il meglio dai frequentatori della rete, proprio -, nemmeno coi racconti più innocui e tranquilli si va via lisci. Perché in mezzo ai tanti “ma che bel bimbo!” e “ma che tenerezza!” c’è sempre, se ci fate caso, almeno una voce inopportuna che sceglie di staccarsi da coro per ricordarci che le vicine di casa rompicoglioni continuano a esistere. O per domandare con finto interessamento “ma scusa perché non fai così e così?”. O per farti notare una mancanza, un deficit, un “potevi farlo meglio”. O per esplicitare l’irritazione che i bambini suscitano immancabilmente quando vengono a contatto con situazioni non pienamente strutturate per loro, ma che comunque fanno parte della realtà e del vivere comune.

Racconti una marachella?
Non sei una persona responsabile, stai crescendo un criminale, siete un pericolo per l’ordine pubblico.
Racconti un momento di fatica?
Eh, capirai. Io ho scalato il K2 con due gemelli nello zaino da trekking. E avevo anche il cagotto.
Racconti un traguardo?
Awwww, che bello. Due righe sotto: ma scusa, ha un anno e mezzo e non camminava ancora?


Quando voglio raccontare qualcosa di felice mi chiedo sempre “ma non sarà TROPPO coccoloso?”. Perché è un attimo. Diventi LA MAMMA RIMBECILLITA.
È come se non ci fosse una via di mezzo ancora codificata.
Ci sono dei costrutti e dei nessi causa-effetto prestabiliti. Dei “modelli” di mamma che in un dato periodo sono da ritenersi più accettabili e digeribili – o meno fastidiosi – di altri.

Se ti lamenti troppo era meglio se i figli non li facevi, se non ti lamenti neanche un po’ stai sicuramente fingendo che la tua vita sia un idillio, se parli troppo di bambini sei pesante, se ne parli troppo poco vuol dire di certo che nascondi qualcosa o che non li ami abbastanza. Se dici che sei contenta di come te la stai cavando vuol dire che te la meni GUARDA CHE NOI QUA NON DORMIAMO DA SEI ANNI, se dici che sei scoraggiata stai sputando sul dono più grande che il cielo poteva farti, se lavori come hai sempre lavorato sei una che non sa dare la giusta priorità alle cose, se vai in vacanza lasciando il bambino ai nonni sei un’egoista, se vai in vacanza e ti porti il bambino dovresti prendere in considerazione che anche gli altri sono in vacanza e forse è meglio se stavi a casa tua con quel neonato che strilla, se non vai in vacanza stai chiaramente privando una giovane mente delle esperienze necessarie al suo arricchimento, se racconti tre delle ottantasei cose buffe che ha fatto tuo figlio durante la giornata sei una che se le inventa perché è in cerca di attenzione.
Tutto questo accade contemporaneamente.
E accade, soprattutto, quando sei sincera. Quando non stai cercando di dare spettacolo o di somigliare a un canovaccio noto.
In generale, mi pare che le mamme si dipingano con molto più cinismo e distacco di quello che provano veramente. O che, all’estremo opposto, entrino in modalità “mamma onnipotente” – quella sempre bella, attiva, che lavora, che va a pilates, che s’abbona a teatro, che ha tempo per la famiglia ma anche per farsi i fattacci suoi e che ha sfornato solo bambini prodigio.
Non escludo che nelle due categorie ci siano davvero mamme sinceramente ciniche o mamme sinceramente onnipotenti, ma entrambi gli schieramenti – nelle loro varie sfumature di autentica adesione al principio cardine – hanno il sacro terrore di poter in qualche modo ricascare nello standard della mamma lobotomizzata dalla prole, occupando un punto qualsiasi all’interno dello spettro che va da “sono due anni che proviamo a invitarla fuori ma sai… col bambino… dice sempre che non ce la fa” e finisce con “presa per il culo conclamata su tutte le piattaforme perché ha cucinato la placenta”.

Sembra che non esista nulla di più disdicevole di una donna precedentemente in grado di funzionare all’interno di un contesto socio-lavorativo che, dopo aver avuto un figlio, dà segni di essere in qualche modo stata modificata dall’esperienza. È come se, inconsciamente, cercassimo costantemente di dire “ah, sì, sono mamma. Ma sono ancora una persona normale! Non lasciatemi indietro!”.


Sono andata a rileggermi alcune cose che ho scritto in questi due anni sul tema della maternità. E lo ripeto anch’io, immancabilmente: un mio grande obiettivo, tra i tanti, è quello di rimanere NORMALE.
Che volevo dire? Forse che è importante non dimenticare come eravamo prima. Che possiamo far lievitare la nostra identità per creare dello spazio nuovo che la maternità possa occupare senza sovrascrivere tutto quello che c’era già. O che, per qualsiasi cosa, vogliamo poter continuare a contare sulla rete di fiducia e di rapporti sociali che coltivavamo da nullipare.
Sono ambizioni legittime, mi pare.
Ma in quel SONO ANCORA NORMALE credo si nasconda anche un “non preoccupatevi, non vi ammorberò notte e giorno parlando di cacca. Lo so che è una rottura intollerabile”. Perché io, quello slancio empatico lo faccio. “Sarò menosa?”. “Come posso rendere sereno questo viaggio in treno?”. Il fatto è che, spesso, non percepisco uno slancio simmetrico che proviene dalla direzione opposta.

Per me, che ho passato a casa con Cesare un anno intero, in pratica, conservare la presa sulla normalità rappresentava un obiettivo importante. Perché, di punto in bianco, ti ritrovi a gestire tutto quello che sei in una maniera completamente diversa. Certo, hai nove mesi di gravidanza a disposizione per immaginare il cambiamento di paradigma che ti aspetta… ma poi, quando ogni mattina la porta si chiude e tuo marito va in ufficio, le ore che ti separano da un nuovo contatto con un adulto che ti racconta cos’ha fatto quel giorno sono parecchie. Si diventerebbe un po’ autoreferenziali anche ritrovandosi a gestire una responsabilità minore o un senso di meraviglia molto più limitato. E nemmeno una persona che tende a over-analizzare tutto – salve, eccomi qua! – riesce a prevedere davvero come la prenderà, come reagirà e quale sarà la portata dei suoi sentimenti. Perché sì, gli esseri umani si riproducono dall’alba dei tempi e la faccenda non dovrebbe causare un particolare scalpore, ma per il singolo (e specialmente per la singola nuova mamma) l’evento rimane rivoluzionario. Ma non perché, magari, l’hai presa un po’ troppo sportivamente e sei una che non si rende conto della portata del compito – massì, facciamo un figlio, in qualche modo ce la caveremo -, ma perché un bambino che nasce È un evento rivoluzionario.
C’è chi scopre una vocazione all’accudimento che non pensava di avere.
C’è chi abbandona la modalità Erode e si candida a rappresentante di classe al nido.
C’è chi diventa ferocemente intollerante verso i ventenni spensierati.
C’è chi si mette a chiacchierare in mezzo alla strada con chiunque stia spingendo un altro passeggino.
C’è chi si lamenta delle difficoltà CONTINUAMENTE, ma è felice lo stesso.
C’è chi si lamenta e lo sta facendo per manifestare un grande disagio sommerso.
C’è chi scopre di avere a fianco un padre inadeguato o un uomo che, di contro, “migliora”.
C’è chi riconverte ogni sua narrazione personale alla narrazione della maternità.
Che ne sappiamo. Succede di tutto.

Ci sono tanti racconti lontani da me. Così come ci sono tante esperienze che sono diventate, nei mesi, fonte di incoraggiamento, di utilità pratica e di supporto emotivo. La “normalità” da conservare, per me, è sempre stata un po’ un’arma di difesa. Perché, specialmente all’inizio, ti rendi conto che il resto del mondo procede mentre tu ti trovi in una bolla di tempo sospeso dove esisti – a lungo – quasi esclusivamente in funzione del tuo ruolo di mamma. Ci sono donne più pronte a votarsi alla causa, donne che non sapevano di essere così “adatte” a un compito del genere e donne che si riconfigurano con più difficoltà. E ogni incontro che facciamo, mentre cerchiamo di capire come cavarcela, è un incontro che ci segna un po’. Nel calderone vanno a finire le amiche che insistono per sapere TUTTO quello che sta succedendo, ma anche i colleghi che alzano gli occhi al cielo quando ti suona il telefono e dall’asilo ti dicono che il bambino ha la febbre e devi andarlo a prendere. Ci sono i ragazzi che ti aiutano a portare il passeggino su per una scalinata ma ci sono anche quelli col cane al guinzaglio che, su un marciapiede stretto, si piantano in mezzo e ti guardano infastiditi, senza capire che dovrebbero scendere loro, non tu che hai una carrozzina ingombrante.


Quello che volevo dire, forse, è che mi piacerebbe percepire un po’ più di cameratismo tra esseri umani. Detestare i bambini è un diritto sacrosanto, ci mancherebbe. Non capisco tanto, però, come proclamare il proprio odio per un’intera categoria umana – anzi, per due categorie: i figli e i genitori – possa tramutarsi in un tratto desiderabile. Ciao, sto dichiarando con fierezza di non essere in grado di empatizzare con questa fetta di mondo. Wow… complimenti.
Mi rendo conto che, spesso, la paura che abbiamo di risultare fastidiose e inopportune
– sia mentre ci raccontiamo che mentre “viviamo”, a livello pratico – frena un po’ la possibilità di condividere il bello. Quello su cui inevitabilmente è più difficile allinearsi e concordare è tutta la parte “felice”. Siamo più propense a far venire fuori le menate, perché le menate sono invariabilmente condivisibili. A chi piace svegliarsi quattro volte a notte? A chi piace la scarlattina? A chi piace l’assoluta irrazionalità di un bambino di due anni che strilla come un condor perché non può portare in giro un cane di plastica di due chili e mezzo? A nessuno, porca miseria. Forse, allora, è anche per quello che la felicità viene sempre descritta in maniera esagerata e stereotipata. La madre “soddisfatta” è un susseguirsi di frasi da Baci Perugina, nomignoli ultra-stucchevoli, luoghi comuni di ogni epoca ed estrazione, feste di compleanno faraoniche. La felicità dev’essere ENORME, dev’essere DI PIÙ per riuscire a farsi sentire o a suscitare una reazione.

Io, mio malgrado, appartengo più al partito del cinismo lamentoso. È questione di attitudini. Quello che mi piacerebbe, però, è poter fare a meno sia di una che dell’altra narrazione. Non so che cosa contribuisca, a livello tecnico e formale, a trasmettere quella sensazione posticcia che ti assale quando leggi o ascolti una mamma super cinica o una mamma super orsachiottosa. Non lo capisco, ma lo percepisco. E non ne abbiamo bisogno. Così come non abbiamo bisogno di sviluppare strategie per reagire al compatimento o all’ostilità altrui. I bambini devono piacere a tutti? No. Ma magari noialtre potremmo fare a meno di provare a piacere a chi, esercitando un suo diritto – per quanto discutibile -, la pensa così. E potremmo ricominciare a raccontarci – se ne sentiamo il bisogno -, come ci pare e quanto ci pare. A usare parole vere, che molto più del teatrino che allestiamo sanno trasmettere la bellezza in mezzo alla discreta fatica che ogni tanto facciamo.
Di che parla la gente, alla fin fine?
La gente parla, da sempre, di quello che ama.
Così com’è. 

 

Per la rubrica “là fuori c’è tutto un mondo di meraviglie inesplorate” – ma anche “l’universo conosciuto non termina nello stanzino degli accessori di H&M” – e con la complicità di numerose giovani donne piene d’entusiasmo che hanno deciso di scegliere per me dei regali molto belli, ho deciso di compilare (FINALMENTE) una lista incredibilmente esaustiva di splendori-handmade scoperti in questi mesi, mesi pieni di gioia ma quasi del tutto privi di salutari e terapeutici momenti dedicati allo shopping.
Ecco dunque, in ordine assolutamente casuale, un prezioso elenchino di talentuose artigiane, artiste e creative che dovreste immediatamente ricoprire di miliardi. Perché se lo meritano.

Juiceforbreakfast

Character-designer di rara coccosità, Giulia sviluppa VISUAL AIDENTITIES per chi ne ha bisogno (dai piccoli business a chi, semplicemente, deve spedire le stramaledette partecipazioni di matrimonio) e sforna una vasta gamma di teneri prodotti pieni di pattern adorabili.

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

Gioielli e Conigli

Esplorando ogni possibile sfumatura cromatica inventata dalla natura (e ogni tecnica esistente di combinazione delle perline) da Gioielli e Conigli troverete collane, orecchini, anelli, braccialetti e carinerie a profusione a base di pietruzze luccicanti, fiocchi e nappine. Belle, luminose, comode e solide – e per solide intendo resistenti alle manine infernali di un bambino di quattro mesi.

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Tamago Craft

Pupazzi grassi, giacche dalle fodere imprevedibili, pois minuscoli e animali coloratissimi (e glitterati, nel mio caso) che fanno capolino su ogni genere di micro-capo d’abbigliamento. Vestiti allegri per bambini ancora più allegri.

tamago craft drago

 

Some Wood Ideas

Arredamento, design e accessori pazzi, completamente in legno. Tra le ultime invenzioni, una collezione di animaletti-spilletta che rasenta la perfezione zoologica.

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Cicilla Handmade

Abbigliamento per minuscoli umani, con una magnifica selezione di stampe (CIAO NOI ABBIAMO I DINOSAURI), una grande cura nella scelta dei materiali e un saggissimo orientamento alla praticità. Troverete vestitini, pantaloncini, bavaglini, copertine e bustine (da riempire con i generi di prima necessità più disparati). Sto seriamente pensando di fregare il bavaglino a Minicuore e usarlo come FÙLAR.

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Nigutindor

Oggetti per la casa in ceramica e argilla, rigorosamente dipinti a mano – o decorati in bella calligrafia, come avrebbe detto la mia maestra delle elementari. Ciao, maestra Silvana. Si va dalle tazze piene di gatti agli scatolini portagioie che si fingono musicassette.

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Petit Pois Rose

Grafica, crafter e illustratrice, Clara cuce cuscini a forma di fette di pizza e ha la capacità di trasformare qualsiasi cosa in un unicorno. Il tutto, ovviamente, avvalendosi dei colori più pastellosi di sempre. Che qualcuno le affidi il restyling dell’intera civiltà occidentale.  

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Prettyinmad

Fatto a mano, con amore. Erika non ha praticamente più bisogno di presentazioni, ma una tote, una bustina o una fascia per i capelli con una stampa bellissima (in solido ed estroso cotone americano) è sempre una buona notizia. La gamma viene continuamente aggiornata con nuovi modelli e invenzioni… quindi andate e frugate. Io viaggio con fenicotteri e costellazioni nella borsa e sono una ragazza felice.

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

 

Bene. Rompete i porcellini e sbizzarritevi.
E cuorosità handmade a tutti.

La nascita di un infante viene solitamente celebrata da amici, congiunti e conoscenti con un profluvio di doni, di solito classificabili in tre principali categorie: vestitini, giochini, cremine. Il vasto mondo delle cremine può comprendere prodotti da bagno (e il bagnoschiumino delicato, e lo SCIAMPINO, e il saponino) e cremine a tutti gli effetti, inventate dai brand più disparati per combattere ogni genere di alterazione cutanea.
Ecco.
Io ho due tonnellate di cremine complicatissime che vorrei smerciare a qualcuno, visto che il deretano del mio bambino si è rivelato piuttosto resistente. Quasi antiproiettile. Dove dovrei spalmargliela, tutta quella roba? DOVE. Tegamini, vorremmo farti provare questi prodotti altoatesini mega naturali e super testati che si trovano solo in farmacia e nelle parafarmacie più illuminate, ti mandiamo uno scatolone pieno. MA IO CHE COSA CI FACCIO. MINICUORE NON HA UNA MAZZA DI NIENTE. TENETEVELI.
Ma a nulla è servito protestare. E ho ricevuto la mia eclettica fornitura di prodottini Mama Natura da collaudare.

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La gamma non è sterminata, ma decisamente ben costruita. L’idea di base è quella di fronteggiare, con soluzioni sicure e scientificamente architettate, i problemi più comuni che possono affliggere un piccolo essere umano. Ci sono le goccine Colikind a base di fermenti lattici e camomilla, il gel con l’estratto di malva per le gengive piene di dentini bellicosi che vogliono spuntare, lo spruzzino per combattere il raffreddore, l’olietto Sebokind con le mandorle dolci per la crosta lattea, la crema Dermakind con betaglucano, calendula e pantenolo per le irritazioni e gli arrossamenti. Insomma, poche cose ma assai mirate e progettate nei minimi dettagli, senza conservanti, parabeni, petrolati, coloranti e profumazioni aggiunte.

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Sull’integratore allevia-coliche non posso fortunatamente pronunciarmi – visto che non ne abbiamo mai avuto bisogno, che il cielo benedica l’apparato digerente di Minicuore – e per il gel-dentini è ancora presto, ma con l’olietto per la crosta lattea stiamo facendo amicizia (batuffolo di cotone sul cranietto e massaggi delicati) e la crema Dermakind, alla fin fine, si è rivelata utile. Vuoi il freddo, vuoi il bagno e le posizioni “nuove” – il culotto ora serve anche a sedersi, gente – qualche rossore e screpolamento da risolvere c’è stato. Visto che non è solo una crema lenitiva “da cambio” e che c’è pure dentro il sempre miracoloso olio di mandorle, l’ho usata anche come idratante. Sui polpacciotti. E sugli stinchi. Che temo abbia ereditato da me – “Tesoro, qua hai proprio la pelle secca come un serpente”, mi disse l’estetista in una giornata particolarmente buia. E lo spray per il raffreddore? Il Rimikind va usato da due anni in su. Cesare, in caso di bisogno, viene soccorso con i lavaggi di fisiologica, ma io ho decisamente più di due anni e il raffreddore mi viene. Quindi ciao, me lo sono sparato nel naso. E ho fatto bene. Anzi, me lo porto pure in giro, come un talismano… anche perché una roba che contiene aloe, acido ialuronico e acqua termale salsobromoiodica delle Terme di Monticelli deve per forza possedere una qualche proprietà salvifica.

Insomma. Bene. Testoline splendenti, nasi sturati e chiappette morbide a tutti.

DISCLAIMER
Questo post non contiene nemmeno l’1% di quello che ci è accaduto. E non ambisce a far meglio di così. Perché, in tutta franchezza, non si può.
Questo post, in sintesi, è un trailer. Ma di quelli fatti bene. Mica un trailer con già dentro tutta la trama, che cavolo.

***

BENE. PROCEDIAMO.

Pur continuando a non capacitarmi di come una persona – per quanto piccola – sia riuscita a raggiungere il mondo esterno transitando per la mia coraggiosa vagina, l’operazione “Riproduciamoci, orsù” si è conclusa con successo e, dal 24 settembre, abbiamo un Minicuore. 
Anzi, un Cesare.
E siamo felici come degli imbecilli.

Ora, potrei mettermi qua a dirvi cose poetiche e piene di sentimento. Potrei scrivere due cartelle sul potere salvifico della vita che sboccia. Potrei provare a farvi piangere con una minuziosa descrizione del primo battito di ciglia di mio figlio. Potrei intrattenervi con una moltitudine di sconfinate tenerezze… ma non è questo che ci serve.
Perché è tutto bellissimo, ma è anche un gran casino. E quello che ti preme all’inizio – oltre a non uccidere accidentalmente tuo figlio – è riprendere un vago controllo della realtà.
Nell’ambizioso tentativo di arginare l’entropia neonatale, ho dunque deciso di affrontare la faccenda con razionalità, mappando i fenomeni principali che si sono scatenati nelle prime settimane di vita di Minicuore. Perché sì, la gente non vi dirà mai che un bambino ha un mese e mezzo. I bambini hanno sei settimane. E nessuno capirà mai di che cazzo state parlando.

Misurazione del tempo in settimane

Comunque.
Partorire è un problema.
Sono entrata in ospedale alle 18 di un venerdì sera e ho trascorso i tre giorni successivi a vagare seminuda e dolorante in mezzo a sconosciuti di ogni tipo, sfoggiando una batteria di surreali camicioni da notte ereditati da mia nonna Lelia che, prevedendo un olocausto atomico circoscritto al solo abbigliamento da letto, ne aveva immagazzinati due container (senza mai mettersene neanche uno, visto che credeva nell’onnipotenza della sottoveste di seta nera – indipendentemente dalla stagione).
La mia stanza, poi, era sprovvista di bagno. Mi è dunque toccato trascinare la mia carcassa gonfia al cessetto dietro l’angolo per una quantità interminabile di volte, brandendo giganteschi assorbenti a forma di Toblerone e maledicendo a gran voce il mio utero tumefatto.
Insomma, passi una vita a riprenderti dalle umiliazioni dell’adolescenza, ma poi partorisci e ti rituffi nell’abisso.

Livello di dignità personale

Il vostro parto è stato soave, edificante e sereno?
Brave voi e bravi tutti.
Io ho patito così tanto che non ho neanche fatto in tempo a spaventarmi. Però avevo un’ostetrica argentina super rassicurante e abilissima che ha serenamente discusso di Harry Potter con Amore del Cuore mentre un’infermiera gigantesca mi spezzava le vertebre cervicali nel tentativo di immobilizzarmi e permettere a un’anestesista con dei capelli fantastici di piantarmi un tubo nella schiena.
Il risultato finale è che, in un istante di particolare ottimismo prodotto dall’epidurale, mi sono convinta di poter far uscire Minicuore in sette secondi netti urlando EXPECTO PATRONUM.
Non provateci, non funziona.
Ma l’epidurale ve la consiglio anche a scopi ricreativi.

Cose belle della vita per livello di piacevolezza sprigionato

All’epidurale, comunque, non ci si arriva agevolmente. Te la devi sudare. Devi meritartela, come il regno dei cieli. A me è toccato rantolare per una mattina intera (e vomitare parecchia roba fosforescente in un secchio) prima che il Dottor Futomaki mi elargisse la sua benedizione.
Io col Dottor Futomaki ce l’ho su davvero.
Un po’ perché non è carino irrompere in una stanza e infilare all’improvviso un braccio intero nella patata di una persona – ma così, senza nemmeno presentarti – e un po’ perché non puoi piantarti in mezzo al corridoio alle otto del mattino per raccogliere le ordinazioni del pranzo. Sushi, poi. In un reparto pieno di donne gravide che soffrono come dei maiali e che il sushi non lo mangiano da nove mesi.
Graziella, te cosa vuoi? Gli uramaki Spicy Salmon o i Rainbow Roll? Chiedi anche alla Diletta, che di solito prende quelli con le uova di pesce volante, ma lo sai com’è fatta. Cosa dite, aggiungo un po’ di tartare, che ce la mangiamo prima?
CHE TU SIA MALEDETTO, DOTTOR FUTOMAKI. UN GIORNO AVRÒ LA MIA VENDETTA!
Ma poco importa. Perché, dopo tanto patire, ti ritrovi con un neonato di tre chili e trecento grammi in braccio. E ti sembra di una bellezza prodigiosa.

Maternità e distorsioni percettive

Potrei raccontarvi com’è che si campa in un ospedale pieno di donne sconvolte che spingono carrettini-lettino con dentro dei bambini minuscoli e variamente terrorizzati, ma mi sembra di essermi già dilungata in particolari già abbastanza cruenti. Vi basti sapere che, se voi avete avuto dei problemi, le altre ne hanno immancabilmente avuti di più. E non vedono l’ora di farvi pesare anche l’ultimo effetto collaterale del loro cesareo.
Quindi niente, io passerei ai regali. I regali sono sempre fonte di grande stupore.
La nascita di un figlio è un evento giustamente festeggiato dalle genti di ogni cultura con un’esplosione di doni strabilianti. In prevalenza ricamati a punto croce.

Frequenza di utilizzo del ricamo a punto croce

Fare regali a un neonato è difficile. La nascita di un infante è un avvenimento di una certa rilevanza – quindi non vuoi arrivare con una cazzata -, ma non vuoi neanche passare per quello che bada troppo al sentimento e troppo poco al lato pratico. Pragmatismo e lungimiranza, dunque, ma anche affetto e coccolosità.
Il risultato?
Al grido di “tanto il bambino cresce e la roba per i primi tempi non gli va più bene dopo un secondo e comunque ho pensato che ne avrai già a pacchi e che era importante regalarvi qualcosa che potete usare anche fra un po’, no?”, vi ritroverete con mille tutine ADORABILI taglia 6-9 mesi e nulla di utilizzabile nell’immediato – che poi è più o meno il momento in cui il bambino si caga anche sulle scapole… e te hai in lavatrice tutto il vestiario che possiede perché le scapole se le riempie di sterco ogni tre ore.
Che il cielo benedica lo shop online di H&M. E quelle due persone che vivono nell’eterno presente.

Composizione del parco-doni

Comunque, visto che la cacca ha già fatto la sua inevitabile comparsa, direi di occuparcene. In ospedale siamo stati istruiti su come cambiare efficacemente un pannolino, detergendo con rapidità e perizia il deretano del nostro bambino. Ogni volta che andavi al Nido – è così che si chiama lo stanzone pieno di neonati dove si espletano le principali funzioni di accudimento mentre sei ancora ricoverata – e cambiavi tuo figlio, un’infermiera/dottoressa/puericultrice correva da te e t’interrogava sul contenuto del pannolino. La pipì veniva accolta con un benevolo cenno del capo, ma senza particolari entusiasmi. La cacca, invece, era festeggiata con salve di cannone e il passaggio in corridoio della fanfara dei Bersaglieri.
Io, nella mia angoscia neogenitoriale, interpretavo il tutto più o meno così.
Il bambino caga? Sei una buona madre.
Il bambino non caga? Sei un mostro e Studio Aperto verrà presto a stanarti.

La cacca è importantissima. Ti sorprendi a parlare così tanto di cacca – con tuo marito, con i nonni, con gli amici, con i semplici passanti – che, quando effettivamente ti tocca pulirla, non ti fa più nemmeno schifo. Certo, non ci verniceresti le pareti, ma non ti fa particolarmente impressione. Anzi, la cacca è una buona notizia, è un evento positivo. Come la piena del Nilo. Come l’arrivo della stagione delle piogge nella savana riarsa. La cacca è oggetto di dibattiti, tavole rotonde e bollettini dal fronte. La cacca, nuova grande protagonista. E pensare che, due mesi fa, potevi sederti a tavola a discorrere di viaggi, progetti, carriera e amicizie, come una persona normale. Ora no, parli solo di merda.

Frequenza e composizione degli argomenti di conversazione

La cacca, insieme al naso tappato, ha per noi rappresentato una grande incognita. Minicuore, pur non incappando mai in raffreddori conclamati, ha passato le prime due settimane a respirare come un piccolo mantice otturato, gettandomi spesso nel panico. ODDIO, SE DIVENTA TUTTO BLU E MUORE? ODDIO, MA AVRÀ QUALCOSA DI DEVASTANTE AI POLMONI? Dopo aver scoperto il potere salvifico dei lavaggini nasali con la soluzione fisiologica – manovra cruentissima da eseguire con una siringhina spuntata, da utilizzare tipo Super Liquidator per sparare acqua nelle minuscole narici tappate di vostro figlio -, sono felicemente passata a preoccupazioni di altro tipo. ODDIO, HA UN OCCHIO UN PO’ GONFIO, È SICURAMENTE GUERCIO! Ma anche IL BAMBINO NON CAGA DA QUATTRO GIORNI, ESPLODERÀ?
Ad ogni micro-allarme, ovviamente, rompevamo i coglioni a qualcuno. Ho telefonato al Nido dell’ospedale, alla guardia medica, alla pediatra, al collega pediatra della nostra pediatra, al pronto soccorso pediatrico e pure al neonatologo dell’ospedale – disponibile solo in risicatissime fasce orarie praticamente inaccessibili (che ci sia lo zampino del malefico Dottor Futomaki?). E che cosa ho scoperto, alla fine? Ho scoperto che devo stare molto calma. E che non esiste una via di mezzo. 

Tipologie di risposta a condizione di malessere

Al ventesimo È NORMALE che ti rifilano, un po’ ti senti scemo. Perché di fronte a un “è normale” non c’è soluzione. Devi aspettare che la situazione migliori da sola (come ti promettono immancabilmente) o ti viene concesso di intervenire in maniera blandissima e quasi certamente inefficace (“lavi l’occhietto con una garzina”, “massaggi il pancino o stimoli con delicatezza l’orifizio”). Non so voi, ma io funziono così: ho mal di testa > prendo un Moment > mi passa il mal di testa > FAVOLA! Ecco, se uno mi venisse a dire che il mal di testa “è normale” (perché agli esseri umani nella vita un mal di testa può anche venire), mi incazzerei come una bestia e reclamerei a gran voce un rimedio un po’ più significativo, possibilmente a base di sostanze stupefacenti. CERTEZZE, CI SERVONO CERTEZZE.
A volte, dunque, di fronte alla scarsissima propensione all’allarmismo degli operatori sanitari a vostra disposizione, vi sorprenderete a consultare con un certo interesse l’orripilante chat del corso pre-parto – chat alla quale avete messo SILENZIOSO 1 ANNO praticamente subito dopo la nascita dei primi bambini.
Ma perché sì, maledizione.
E per due macro-ordini di motivi.
Uno. Il continuo bombardamento fotografico perpetrato dalle madri degli infanti più raccapriccianti.

Curva dell'ingiustificata fierezza materna

Due. I nomignoli imbecilli.

Termini prevalentemente utilizzati dalle neo madri per indicare i propri figli

PUFFI?
NANI?
CUCCIOLI?
…ma io vi sfondo le costole a colpi di mestolo.
Non ho trascorso nove mesi nel disagio e nella scomodità per mettere al mondo uno GNOMO, accidenti a voi. Non ho patito le pene dell’inferno per una giornata intera per poi sentirmi dire “ma che belle zampine che ha!”. ZAMPINE UN CAZZO. SONO MANI, CRETINA. MANI!
Io non capisco, è come se a chiamarli col loro nome (BAMBINI) si facesse la figura degli insensibili. E lo dice una che è sposata con Amore del Cuore e che ha messo al mondo Minicuore. Ma quelli sono fattacci miei, che diamine – è come ho deciso di chiamare due persone specifiche, mica un’intera categoria di esseri umani. Non pretendo di andare in giro a dire “Oh, ma guarda quanti bei Minicuore ci sono in questa nursery! Sei una donna fortunata, il tuo Amore del Cuore sarà un papà fantastico!”. Dai, cos’è. Anzi, come direbbe mia suocera, MA CE LA FATE?
Comunque.
Il confronto con gli altri è sempre una grande incognita. Ma più per voi che per vostro figlio. Anzi, vi renderete presto conto che vostro figlio, incredibilmente, non è per nulla misantropo. 

Curva della finta serenità neonatale

Quei due o tre giorni che passi in ospedale con il bambino sono una specie di allenamento, ma poco realistico. Nonostante le ostetriche ti chiamino ripetutamente MAMMA – credo più per farti rendere conto di che cosa ti è appena capitato che per l’effettiva impossibilità di ricordarsi nome e cognome di ogni singola puerpera ricoverata –, cominci a capire veramente quello che ti è successo quando rimetti piede in casa. Noi siamo entrati, abbiamo appoggiato per terra sacchetti, valigini, mazzi di fiori, pacchetti e pacchettini e, dopo sette minuti di euforia da “Oddio, che bello, il mio bidet!”, abbiamo sistemato Minicuore sul divano, nella navicella del passeggino, e ci siamo domandati E ADESSO?.
E adesso niente, sono fattacci tuoi.
Non credo ci sia niente che può davvero prepararti a gestire la faccenda, a parte il buonsenso.
Perché prendersi cura di un neonatone è un po’ come conoscere una persona nuova, solo che questa persona si piscia addosso a ripetizione e non è perfettamente in grado di farti sapere che cosa le sta succedendo. O di soffiarsi il naso in autonomia, se è per quello. O di capire che ha le mani. O di distinguere il giorno dalla notte. O te da un materasso.

Mappatura dei luoghi del sonno per frequenza di assopimento

All’inizio, inevitabilmente, le questioni pratiche ti fagocitano. E cambiare la garzina al cordone ombelicale. E farlo mangiare regolarmente. E non lessargli il sedere sotto al rubinetto. E il freddo. E il caldo. E la copertina in faccia. E le calzine. E l’appuntamento dalla pediatra. E come si fissa l’ovetto al sedile della macchina. E la cuffietta. E mettilo a pancia in su. E giralo sul fianco. E starà crescendo. E se non cresce come facciamo. Ogni cinque minuti ne hai una. E ogni due ore e mezza il sistema operativo si azzera, BAMBINO.EXE si riavvia (girano con Windows, all’inizio) e la gioiosa tarantella ricomincia da capo: pannolino > tetta > rutti & secrezioni assortite > nanna (auspicabilmente). Nel caso ci sia da cambiare una tutina, poi, i tempi si dilatano notevolmente…

Legge di moltiplicazione falangea del neonato

Con il passare dei giorni, comunque, si diventa più bravi. Anche accudire un neonato, infatti, segue determinati schemi motorio/cognitivi. E l’allenamento, come insegna MADRE, aiuta sempre. Non avrei mai pensato, ad esempio, di riuscire a tollerare la cronica mancanza di sonno con la disinvoltura che sto dimostrando. Non avrei mai pensato di potermi rallegrare, alle quattro del mattino, per il sorrisotto storto che ti fa un bambino minuscolo quando lo prendi in braccio dopo un piantino. E non avrei mai pensato di potermi commuovere davanti a uno stendino, ma è capitato anche quello. Se lì con una vaschetta piena di tutine tempestate di pinguini e orsacchiotti e ti viene un po’ da piangere, tra una molletta e l’altra.
Insomma, ce la caviamo. Oserei dire che ce la caviamo bene. L’impegno, di sicuro, ce lo mettiamo. E Amore del Cuore è, come prevedibile, molto bravo. Se potesse, credo che mi solleverebbe anche dai doveri dell’allattamento. E io glielo lascerei fare volentierissimo. Tutti ti raccontano quanto è utile allattare e quanto fa bene al bambino, ma sorvolano un po’ sulle difficoltà iniziali. Io sono uscita dall’ospedale con i capezzoli ridotti peggio di una trincea di Verdun ma, a quanto pare, pure quello fa parte del pacchetto. Dopo essermi cosparsa di creme alla lanolina e aver protetto i miei preziosi rubinetti con paracapezzoli in argento 925 – roba uscita per direttissima da un film di Austin Powers -, le mie piastrine hanno finalmente deciso di mettersi all’opera e, dopo settimane di discreti patimenti, ho conquistato la libertà di annoiarmi di tanto in tanto. Perché i bambini piccolissimi mangiano dalle sei alle otto volte al giorno. E ogni volta ci mettono una mezz’oretta buona. Trovarsi un hobby è assolutamente fondamentale.

Allattamento - composizione delle attività svolte in parallelo

E niente.
Siamo qui.
Siamo in tre (più Ottone).
Stiamo ancora tutti quanti bene e ci amiamo fortissimo.
Ciò è sufficiente a fare di me una MADRE? Non credo proprio… ma da qualche parte bisogna pur iniziare.
Ben arrivato, Minicuore. Ti adoriamo. E ce la faremo, promesso.
🙂

***

Visto che mappare in maniera esaustiva i fenomeni principali dell’esistenza di un neonato e cacciarli tutti in un solo post è vagamente impensabile, l’ambizioso progetto procederà su Facebook – senza alcuna periodicità o criterio. Voi fateci un giro, però. Sarà bellissimo.

L’universo, quando ti riproduci, cerca sistematicamente di metterti addosso un’ansia intollerabile. Alcune sono paranoie indotte dalla comprensibilissima sensazione di non sapere bene che cosa stai facendo – “Sono a casa con un neonato… riuscirò a non ucciderlo?” – mentre altre, invece, sono frutto di anni di sedimentazione e, col tempo, si sono praticamente trasformate in temibili archetipi.
Tipo.
Ho vissuto fino ai vent’anni con una donna che credeva fermamente nell’onnipotenza della canottiera. Ma in qualsiasi stagione. Ci sono 36 gradi? Fa niente. Francesca, ti sei messa la canottiera? Mettitela, che se no t’ammali. Sei in Groenlandia è c’è -20? PERFETTO. Francesca, ce l’hai la canottiera pesante? Fammi vedere. Con questo freddo ti prendi un accidente! La canottiera: il campo di forza in grado di proteggerti da ogni avversità, germe, spiffero o morbo.
Sotto la giurisdizione di MADRE, dunque, ho docilmente indossato canottiere di ogni genere – ma mi sono ammalata comunque, come s’ammalano tutte le persone di questa terra. Il risultato finale della faccenda, però, è interessante. Perché la canottiera è solo la punta dell’iceberg, l’ambasciatrice di una vasta serie di preoccupazioni devastanti – che sono riuscita ad ereditare perfettamente. Possiamo riassumere tutto in un comodo quesito che mi perseguita sin dalla dimissione dall’ospedale: IL BAMBINO AVRÀ FREDDO?
Minicuore mi sembra un neonato sveglio, ma ha un mese e mezzo. E non posso pretendere che mi risponda. E non posso neanche tenerlo perennemente in casa sotto a due tonnellate di copertine. Equipaggiarsi. Quello che conta è essere equipaggiati, come le forze speciali, come Tony Stark. Il problema, all’inizio, è che non sai bene quello che ti serve. Anzi, non sai neanche che certe cose esistono e che sono fatte apposta per risolverti parecchie menate. Guardi fuori dalla finestra, t’accorgi che c’è la nebbiolina e che viene buio presto. E capisci che WINTER IS COMING e che ti devi ingegnare. Perché puoi anche non avere alcuna fiducia nei poteri delle canottiere, ma sui sacchi termici per minuscoli esseri umani si può tendenzialmente contare.

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Con il prezioso aiuto di Minicuore (nonostante russasse come un cinghiale) e il patrocinio di Picci, ho collaudato un adorabile sacco termico Mucki, un aggeggio morbidoso a prova di intemperie, glaciazioni, tempeste di stalattiti, titubanze da neomadre e broncio da lunedì di novembre. Nulla è peggio di un lunedì di novembre, fidatevi. #HateMonday per sempre (pure se c’è il sole).

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Che cosa c’è di bello e che cosa c’è da sapere.
I Mucki sono prodotti in Italia e sono molto poffosi. Sono fatti con materiali anallergici e godono di un alto indice di avventurosità – dovete andare in macchina? Mucki nell’ovetto (ci sono dei bucozzi trasformabili dove far passare le cinture di sicurezza. E se l’ho capito io, potete farcela pure voi). Dovete vagare a piedi? Mucki nella navicella o nel passeggino. La cosa intelligente – soprattutto per chi ha messo al mondo un bambino che si agita come un’anguilla elettrica – è la cerniera sul davanti. Aprite il sacco e ci ficcate dentro il vostro luminoso erede senza dover impazzire con maniche, muffole, piedini e soluzioni labirintiche di scarsa praticità. Vi rifugiate al chiuso a mangiare una fetta di torta? Aprite il sacco e lasciate sgambettare Minicuore senza che sudi come un maratoneta etiope. Vi rimettete in marcia? Chiudete il sacco e ciao. Le cerniere non vi piacciono perché temete che vostro figlio possa sfigurarsi e passare il resto della vita a terrorizzare gli abitanti di Gotham City? Le cerniere del Mucki sono foderate e perfettamente in grado di arginare l’effetto-Joker.
Ma veniamo alla cosa più importante: i Mucki sono pieni di giganteschi orsacchiotti sorridenti.
Ecco.
Potevo dirlo subito e risparmiarmi tutta questa fatica.

Per chi volesse documentarsi ulteriormente, qui trovate il sito di Picci e qui la pagina dedicata ai sacchi termici Mucki. L’esperimento, per noi, è riuscito. Non so se il Mucki basterà a farmi passare l’onnipresente angoscia da MIO FIGLIO POTREBBE SURGELARE, ma Minicuore ha apprezzato. Perché un bambino che ronfa mentre lo porti a spasso è un bambino felice. Pure di lunedì.
Potere agli orsetti coccolosi!