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Gli uomini di Paolo Cognetti sono di poche parole, si sa. In Giù nella valle – in libreria per i Supercoralli Einaudi – si dicono ancora meno. È il libro stesso che sembra addensarsi, contrarsi e ridurre al minimo grandiosi scenari e chissà quali descrizioni. Siamo sempre in montagna, ma nello spazio presidiato dall’uomo. C’è un avamposto più remoto, ma ora non ci vive più nessuno: nel giardino di casa sono cresciuti i due alberi piantati per i figli, ma il padre non c’è più e di quel posto così significativo ma deserto bisogna disporre. Luigi non ha mai lasciato la Valsesia, ha rimediato un buon lavoro da guardia forestale e aspetta una bambina da Betta. Alfredo è andato a tagliare alberi in Canada, perché lì dalle loro parti si era già messo abbastanza nei casini. Il futuro che i due fratelli immaginano non potrebbe essere più diverso, ma in comune hanno un talento poco invidiabile per il bere. Luigi si è messo paura da solo, Alfredo non pensa d’aver molto da perdere. Si rivedono dopo anni ma non sapremo mai cosa si sono detti, anche se è in casa “loro” che si sveglieranno. Lassù non c’è traccia del presunto lupo che sta ammazzando i cani del fondovalle, ma è agli esseri umani mai del tutto addomesticati che Cognetti si avvicina. Cosa rimane di noi quando si spegne la luce? Chi possiamo dire di essere, quando riapriamo gli occhi senza memoria di cosa è successo la notte prima? Chi conta i danni e raccoglie i pezzi?

Non so se questo passo più “breve” e rarefatto funziona perfettamente per me, ma è una storia che nel restare ruvida e piena di solitudini fa balzare fuori dei calori improvvisi, anche se le mani tese che possiamo sperare di afferrare sono poche. Non siamo più in vetta, ma è lungo la Sesia – o IL Sesia, l’articolo d’elezione qualifica anche la nostra provenienza – che la montagna continua a farsi presenza che scava nelle faccende minuscole delle persone. È senza dubbio una storia di convivenza fra natura e gente, fra bestie “libere” e uomini selvatici. E su tutto si allunga l’ombra di quei progetti che ci vendono territori da “valorizzare” e che portano soldi ma portano via alberi, che modificano chi ha scelto di rimanere anche quando non conveniva. Che si tratti di cani, lupi o fratelli, forse si scappa più dal vecchio che dai timori del nuovo: è dalle radici che ci ricordano fin troppo bene chi siamo che ricaviamo le desolazioni più intricate.

[Colonna sonora d’accompagnamento – su “consiglio” tematico-spirituale dello stesso CognettiNebraska di Bruce Springsteen. L’album, anzi, è l’ossatura di questa storia.]
[Per ulteriori esplorazioni, qua sul blog trovate anche La felicità del lupo.]

Vorrei esordire con una personalissima constatazione: Paolo Cognetti mi infonde serenità.  Non c’è romanzo o cronaca del suo filone “d’alta quota” – da Le otto montagneSenza mai arrivare in cima – che non mi abbia avvolta in questa specie di sacco a pelo imbottito di calma, orizzonti sgombri e moti essenziali dell’animo. In un presente dove ogni minimo dettaglio si trasforma in un labirinto ipertrofico di cavillosità, incombenze invasive ed erosione inesorabile del tempo, Cognetti sfronda e ci offre uno spiraglio alternativo di mondo, senza però provare a venderci il sogno della vita semplice e della natura che salva. Nemmeno i suoi personaggi vagano per boschi e vette con l’adamantina certezza di sapercisi stabilire e di trovare fra le frasche tutte le risposte ai loro dilemmi, ed è proprio questa ricerca a renderli preziosi: si concedono lo spazio per pensarci, sono disposti a deviare dalla rotta che conoscono per mettersi alla prova in un ritmo nuovo. Tendiamo ad attribuire una valenza estremamente positiva all’imposizione della nostra volontà sul mondo che ci circonda, ma quanto possiamo dire di controllare davvero il nostro angolino di realtà? Che cosa succede quando ci spostiamo in un ambiente non addomesticato, in un posto dove la natura prevale ancora sulle nostre incursioni? Che cosa rimane di quell’ambizione di controllo, quando il paesaggio muta radicalmente di stagione in stagione e ci comunica la nostra sostanziale irrilevanza?

La felicità del lupo è un tentativo corale di riposizionamento e ricerca. Fausto, a quarant’anni, si separa dalla moglie e decide di tornare a schiarirsi le idee a Fontana Fredda, il paesino di montagna che conosce fin da bambino. Il fatto che il suo matrimonio si disgreghi senza particolari scenate o clamori è di certo il segnale eloquente di una fiammella ormai estinta da tempo, ma non semplifica le cose. Perché Fausto in montagna scappava già da un pezzo e Veronica non manca di rinfacciargli una frattura di fondo, che forse è sempre dipesa più da lui che da loro:

Ci pensi mai agli altri, mentre fai la tua decrescita felice?

A Fontana Fredda, una manciata di case attorno a una pista da sci, ci sono signore novantenni che raccolgono le erbe selvatiche nei campi, case da affittare a sparuti turisti, aste comunali per assegnare cataste imponenti di legname, “local” che si conoscono tutti e un unico ristorante aperto da una ex-ragazza di città che in montagna doveva rimanere poco ma che poi s’è lasciata convincere dall’amore. Babette offre a Fausto un lavoro in cucina per la stagione e Fausto, che ha più buona volontà che alternative a disposizione, si lascia reclutare volentieri. Babette smista sciatori, addetti al gatto delle nevi e manovratori di seggiovie mentre Fausto prepara da mangiare e Silvia serve ai tavoli. Silvia ha finito di studiare e sta inanellando una serie di esperimenti. Nel suo personale multiverso di tentativi c’è il ristorante di Babette, c’è l’idea di passare un altro pezzo della stagione “calda” ad accudire gli alpinisti che esplorano i ghiacciai del Rosa o a raccogliere le mele. Fausto diventa una fonte di tepore che potrebbe spegnersi o accompagnarla lungo la strada, ma per scoprirlo serve un tempo fatto di gesti essenziali e istintivi, che somigliano a ogni altra manifestazione della natura. La montagna si rivelerà gentile coi suoi nuovi e vecchi abitanti? Fontana Fredda diventerà il posto in cui si trovano finalmente le risposte che cerchiamo o il campo-base per scarpinare verso le domande veramente necessarie?

Se vi è garbato Le otto montagne, qua ritroverete una versione – forse ancora più essenziale – di “quel” Cognetti. È un romanzo che culla e avvolge, nonostante ci porti in paesaggi poco clementi e lungo crinali che franano tritandoci le mani. Ci sono corpi che faticano, che guariscono, che si spostano in uno spazio selvatico come molti pensieri che cerchiamo di non far riaffiorare. Essenzialmente, è un libro che molto indaga l’idea di cura – per gli altri, per la propria solitudine, per i legami col posto che ci scegliamo, per il bosco e le vette, per la semplicità dei gesti che ci assicurano le basi della sopravvivenza, per la ricerca (individuale) di una forma più abitabile di futuro. Si finisce per somigliare al luogo in cui decidiamo di stabilirci? Forse dipende da quanto fiato abbiamo: tendiamo a usarlo per continuare a ripeterci che serve troppo coraggio per cambiare e un po’ meno per sostenere i nostri passi verso alternative nuove. Non serve scalare una montagna per andare a cercarci, ma è anche molto vero che più si sale più diventa importante non limitarsi a camminare con le gambe: per non mettere un piede in fallo, per evitare i crepacci nascosti e per non accasciarsi stremati alla prima asperità ci vogliono una testa saldissima e la disposizione ad accogliere ogni appiglio che può esserci fornito. E coltivare certi appigli, molto umani e molto adatti al nostro cuore, è un atto di semplice fede che protegge anche dall’inverno più inclemente.

Il Trentino sta diventando una consolidatissima abitudine estiva. Ci siamo avventurati per la prima volta quando l’infante andava per i due anni – a Moena e dintorni – e siamo tornati nel 2020 per un’esplorazione più approfondita della Val di Fiemme. Visto che ci troviamo sempre benone, c’è fresco, si mangia in maniera superba, il panorama è splendido, i bambini vengono abitualmente accolti con grande sensibilità e sollecitudine e Cesare può esercitare con baldanza le sue fissazioni da naturalista, abbiamo raccolto con entusiasmo la prospettiva di passare qualche giorno in Valsugana, approfittando di ambienti lacustri balneabili che ancora mancavano nel nostro grande puzzle delle esperienze trentine e delle consuete vette da scalare per le nostre passeggiate blande – il passeggino da trekking dei tempi di Moena è un lontano ricordo, ma pur sempre scarpiniamo con un bambino di quattro anni. Insomma, escursioni semplici e godibili in mezzo alla natura.
Senza preambolare ulteriormente, ecco qua una piccola guida di quello che abbiamo combinato durante la nostra permanenza in Valsugana. Troverete giretti, animalini, navigazioni, arte sorprendente e anche un po’ di storia.

LOGISTICA E CAMPO-BASE
Abbiamo alloggiato a Levico al Parc Hotel Du Lac, comodo sia come punto di partenza per le escursioni che come base per goderci il lago. L’albergo è proprio sul lago, anzi. Le camere affacciano sull’ameno specchio d’acqua e c’è anche una bellissima spiaggia ombrellonata con pontili, pratino e famiglie intere di folaghe con la testolina bianca che risiedono nei canneti circostanti e che non disdegnano zampettare sulla riva. Si può ovviamente fare il bagno – il lago è Bandiera Blu e, certificazioni istituzionali a parte, è limpido e soave.

La nostra stanza non era nell’edificio principale ma nella “dépendance” più vicina all’acqua, nell’edificino che ospita il ristorante e i tavoli all’aperto. Anche noi siamo stati dotati di balcone panoramico d’ordinanza e di tutto l’occorrente per usufruire sia della spiaggia che della piscina esterna. Abbiamo cenato spesso in albergo perché dopo le giornatone in giro non volevamo strapazzare troppo l’infante e siamo sempre stati ben alimentati. Il menu – sia quello per gli ospiti dell’albergo che quello del ristorante La Taverna, che è contiguo e risponde alla medesima cucina – è un mix moderno di specialità locali (vini compresi). Al bar della hall, poi, sapranno deliziarvi con un’avvincente selezione di gin trentini. Perché sì, esistono anche dei gin trentini. Ben trovati, gin trentini.
Parcheggio? Ci sono posti riservati per gli ospiti e anche un garage coperto gratuito che si apre e si chiude con la tessera della stanza. Molto utile, visto che la zona lacustre spiaggiaiola può diventare molto frequentata.

COSA FARE E DOVE MANGIARE

La strada del pescatore a Levico
Proprio dal nostro albergo parte una passeggiata praticabilissima che, potenzialmente, può portarvi a costeggiare tutto il lago di Levico. Io e Cesare non abbiamo completato l’anello ma ci siamo spinti fino all’estremità del lago, stordendo di chiacchiere un signore che voleva pescare in pace e ammirando la vegetazione che si tuffa nell’acqua con gran poesia. Abbiamo camminato per un paio d’ore in mattinata, aiutati dall’ombra piacevole degli alberi. Portatevi l’acqua perché non ci sono baretti o punti di ristoro lungo il sentiero.

Malga Sorgazza e boscosi dintorni
La Malga Sorgazza è crocevia di numerosi sentieri di difficoltà variabile, oltre che un ottimo posto dove mangiare specialità tipiche in un’atmosfera super tranquillona. Per arrivarci, partendo da Levico, occorrono più o meno tre quarti d’ora. Dovrete guardarvi da un galletto prepotente – che però ha lasciato dormire Cuore quando è crollato su una sdraio nel prato – ma verrete salutati con calore dall’oca Rosy e pure dai cavallini pezzati che brucano sereni nei dintorni. Oca Rosy, sei vita.

Dopo pranzo siamo tornati al piazzale dove si parcheggia e ci siamo addentrati nella foresta in cerca di cascate. È un percorso da escursionisti piuttosto vispi, che il nostro stambecco di un metro e dieci ha affrontato con grande piglio e interesse. Siamo scesi fino al primo ponte (che non si può più attraversare ma offre comunque scorci splendidi sul torrente e i salti d’acqua) e abbiamo proseguito verso la seconda cascata. Anche in questo caso, c’è un percorso che vi porta a sbucare sulla strada principale a un paio di km a valle della malga, ma abbiamo deciso di accorciarlo e di ritornare su senza uscire dal bosco.

Malga Montagna Granda e super pascoli
La Malga Montagna Granda – a una trentina di minuti in auto da Levico – è una delle numerose malghe della Valsugana che propongono attività e visite per raccontare meglio il lavoro quotidiano con gli animali e la preparazione delle cibarie più disparate, dai formaggi alle conserve di frutta. Volendo cercare nel calendario degli eventi, le esperienze di questo tipo sono etichettate come “Malghese per un giorno” ed è anche possibile adottare una mucca “conosciuta” in malga, ritirando poi la vostra fornitura di bontà casearie prodotte col suo latte.

La Malga Montagna Granda è gestita da un trio di ragazzi giovanissimi che fanno il formaggio e badano a una mandria di splendide mucche e di capre vispe – nessuna capra ha urlato in mia presenza, purtroppo, ma le ho amate lo stesso. La visita parte con un giro nel pascolo al seguito dei garruli bovini e prosegue con una piccola degustazione e un po’ di backstage sulle prime fasi della preparazione casearia. Mettetevi le scarpe brutte e godetevi panorama accarezzando la mucca Bianca e le sue colleghe.

Barchetta elettrica sul lago di Levico
Non sono una gran navigatrice, banalmente perché soffro il mal di mare e patisco troppo per godermela. MA IL LAGO DI LEVICO È INOFFENSIVO, VITTORIA! BENESSERE! ECCO COSA PROVA LA GENTE CHE PASSA I POMERIGGI ALL’ANCORA A BERSI DEI PROSECCHI!
Tralasciando i miei entusiasmi per aver sconfitto questa difficoltà che m’affligge da una vita, potete recarvi al casottino che amministra la spiaggia dell’hotel Du Lac per noleggiare una curiosa imbarcazione. È una specie di pedalò a motore, alimentato a pannelli solari ed equipaggiabile con un ottimo cestino del pranzo di cui vi doteranno felicemente al bar. Armati di cestino e secchiellone del ghiaccio per tenere in fresco le birrette siamo partiti sulla nostra barchetta/pedalò e abbiamo mangiato contenti in mezzo al lago.

Artesella
Vale il viaggio intero? Secondo me sì.
Artesella è una sorta di museo a cielo aperto che, da ormai una trentina d’anni, indaga il rapporto tra arte, umano e natura. Artisti e architetti da tutto il mondo vengono periodicamente invitati ad aggiungere un’installazione o una struttura all’indagine collettiva, servendosi unicamente dei materiali messi a disposizione dall’ambiente circostante – legno, pietra, erba o la conformazione stessa dei luoghi. Una quarta dimensione che contribuisce a plasmare e a far evolvere le installazioni è anche quella del tempo – da intendersi sia come unità di misura di permanenza che come combinazione di condizioni atmosferiche. Il risultato è un vasto “parco” che cambia e si evolve col susseguirsi delle stagioni. Ci si passeggia senza mai smettere di stupirsi – quasi tutte le installazioni sono di grande impatto “dimensionale” e visivo – e di meditare sul posto che occupiamo in questo grande ciclo vitale.
La visita, se non volete correre e godervi un po’ l’atmosfera, dura un paio d’ore e vi conviene vivamente prenotare uno slot. Per arrivare, il parcheggio più vicino è rintracciabile su Maps con “Malga Costa/Parcheggio Carlon”. Si lascia la macchina lì e, seguendo le indicazioni, in una decina di minuti a piedi si raggiunge l’ingresso di Artesella.

Il pranzo ha sicuramente contribuito a non far afflosciare la meraviglia della mattinata. Proprio a fianco dell’entrata di Artesella c’è il ristorante Dall’Ersilia. Noi abbiamo avuto la fortuna di pranzare sotto al tunnel verde – che sembra un po’ una costola delle installazioni del museo vero e proprio – e, se capitate lì, vi esorterei a fare altrettanto. Il menu è piccolino ma basato su solidi caposaldi della cucina locale e, vuoi le cose buone assaggiate e vuoi l’atmosfera, credo sia stato il mio pasto preferito della vacanza.

Castel Pergine
Abbarbicato sul colle del Tegazzo, Castel Pergine è una fortezza risalente al XII secolo. A metà degli anni Cinquanta fu acquistato da un privato e, dal 2018, è di proprietà di una Fondazione che l’ha rimesso a disposizione della comunità locale e dei visitatori – con i suoi 800 sottoscrittori, è il primo bene storico d’Italia di proprietà collettiva. Il castello ospita frequentemente mostre, concerti e incontri e anche un hotel di grande charme. Si può visitare l’interno – rigoroso come ogni fortezza medievale che si rispetti – e il parco cintato dalle mura merlate. In tempi recenti è diventato meta di nidificazione per numerosi rapaci, che scambiano felicemente la pietra delle sue torri per pareti di roccia “naturali”.

Se volete fermarvi al castello per il pranzo, sempre all’interno della cinta muraria c’è la splendida Locanda Ca’Stalla, ospitata da un edificio del Cinquecento. Il tavolone di legno massiccio della sala interna è stato realizzato da un artigiano locale utilizzando il tronco di un albero cresciuto al castello e poi dipartito per cause naturali. Si può mangiare anche fuori, come vedette in agguato in cima alle merlature.

Il Forte Busa Granda e un bel panorama
Per chiudere in bellezza il nostro soggiornone e permettere al mio consorte di scatenare tutto il suo interesse da blasonato studente di storia per i conflitti mondiali, abbiamo passeggiato fino al Forte Busa Granda. Bisogna lasciare la macchina in Località Compet (da Levico ci si arriva in una ventina di minuti) e procedere per il sentiero – è ben indicato e si parte dal piazzale accanto all’Hotel Compet. Ci sono diverse alternative, in base alla “difficoltà” prescelta. Noi abbiamo optato per la camminata più lunga ma meno ripida (circa 1km), ma volendo ci si può anche arrampicare nel bosco dimezzando la distanza. Il forte è scavato nel fianco di un cocuzzolo e lo individuerete grazie a tre tettoie che riparano altrettanti sbocchi verso l’esterno. Si può visitare anche dentro per farsi un’idea decisamente vivida delle condizioni “logistiche” dei combattenti della Grande Guerra che presidiavano in quota la linea del fronte e amministravano il caposaldo d’artiglieria.
Una volta riemersi alla luce del sole non perdetevi il punto panoramico. Proseguite lungo il sentiero e arrivate in cima, c’è una vista splendida sui laghi di Levico e Caldonazzo.

Pranzo conclusivo prima di tornare a casa? Siamo stati in una sorta di istituzione della convivialità trentina – esportata anche in altri luoghi d’Italia -, la Fabbrica in Pedavena di Levico. Menu sterminato da birreria, allegria da birreria, cordialità da birreria e BIRRE DA BIRRERIA. Piattoni abbondanti e un consiglio spassionato: lasciate uno spazietto nello stomaco per assaggiare il birramisù.

Note più eno che gastronomiche
Per una degustazione (e un po’ di compere per rimpolpare le vostre scorte domestiche) in un luogo piacevolissimo a Levico, fate un salto alla Cantina Romanese, patria di un Trento Doc – il Lagorai – che viene affinato sott’acqua, sul fondo del lago. Giuro. Prendono le bottiglie, le imballano in una sorta di gabbione e le calano nel lago di Levico.
Per le grappe, sempre a Levico, nei pressi della via principale trovate Vettorazzi, istituzione locale.

Risorse aggiuntive? Eccole qua
Qui si possono rivedere tutte le Stories sfornate durante la visita in Valsugana. L’utile circoletto contiene anche i vari geotag e i recapiti dei luoghi, che a livello organizzativo di pare sempre comodo.
Sul profilo Instagram ci sono anche diverse testimonianze fotografiche, ma vi rimando con lena innanzitutto al Reel dedicato ad Artesella.
Gli account di riferimento per chiedere ulteriori informazioni e/o consigli pratici sono @visitvalsugana e l’ammiraglia @visittrentino. Ne approfitto anche per ringraziare il magico squadrone di Valsugana che si è preso cura di noi con sollecitudine, gentilezza e sapienza. È sempre una gioia passare del tempo da voi.

E ora, godetevi (e godiamoci) laghi, monti e malghe. :3

Ciao Trentino, che bello tornare a girovagarti. La nostra precedente esperienza estiva era già stata particolarmente felice. Siamo stati due settimane a Moena con l’infante, che al tempo viaggiava verso i due anni e saettava in giro come una capretta impazzita. Ci siamo arrampicati ovunque spingendo con coraggio un passeggino da trekking e sonnecchiando nell’erba quando anche lui si addormentava. Ora che va per i quattro – e che cammina come un piccolo bersagliere – ci siamo cimentati in una serie di percorsi diversi, approfittando dell’ospitalità della Val di Fiemme e dell’attenzione sempre assai spiccata che ogni meta riserva anche ai visitatori più piccoli.
Vista la felicità che abbiamo sprigionato, ecco qua una guidina che riassume un po’ quello che abbiamo visto, fatto e mangiato nei nostri 3 giorni e rotti di permanenza.
Procedo!

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CAMPO BASE

Panchià – Hotel Rio Bianco

Comodo per gli spostamenti ed estremamente cuoroso – a cominciare da Lara, la proprietaria. C’è un bel giardino con piscina esterna e sdraio qua e là, più vasca riscaldata e sauna (in una botte gigante da villaggio Hobbit). Parco giochi in un giardino B, piscina interna e parcheggio dedicato. La nostra stanza affacciava direttamente sul prato e in camera avevamo una spa mignon, con cabinetta per la sauna e vasca idromassaggio gigante – entrambi gli elementi si sono rivelati assai piacevoli e propizi e SIGNORA MIA CHE BENE CHE SI STA.

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PARCO DI PANEVEGGIO

Che si può fare? Parecchio. Noi abbiamo esordito con un saluto ai cervi che pascolano e galoppano. Un sentierino costeggia il loro territorio e lo si può percorrere fino al Centro Visitatori, da cui parte un circuito di diverse passeggiate.

Il sentiero che abbiamo collaudato – sia due anni fa che a questa nuova visita – è il Marciò. È un anello pianeggiante che vi permetterà di addentrarvi nella foresta e di superare diversi ponti arrogantissimi. A tal proposito, il ponte sospeso sulla Forra del Travignolo è senza dubbio il più spettacolare. Se volete spararvi tutto il Marciò, ci vogliono un paio d’ore (a passo di bambino curioso che si ferma ogni dieci secondi a guardare pure i licheni), ma se volete anche solo cimentarvi col ponte sospeso, basta imboccare l’anello al contrario – la Forra è alla fine.

Passeggini? Partendo dal presupposto che col passeggino da trekking andate sempre sul sicuro, il Marciò si può fare anche con un passeggino “normale”, nella foresta c’è più terriccio compatto che ghiaia. Il ghiaietto è più problematico vicino al sentiero dei cervi e lì un po’ potreste smadonnare.

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ALPE LUSIA – BELLAMONTE

Cesare in visibilio dal minuto uno. La cabinovia si prende dalla Località Castelir e tutto quello che si trova in cima è una specie di gioia generalizzata naturalistico-ludica. Se vi va di rendere più interessante la salita, aspettate l’ovetto numero 73: ha il fondo trasparente e risponde all’adorabile nome di NIDOPLANO. Creerà aspettative devastanti nei vostri figli, che a ogni impianto vorranno vedere cosa succede sotto, ma penso riuscirete a gestire la faccenda.

Scendendo alla stazione intermedia, potrete liberare la prole al Giro d’Ali, un parco giochi acquatico che, oltre a fornire intrattenimento, è pure circondato da un percorsino formato da diverse stazioni che puntano a insegnarci qualcosa sulla fauna svolazzante delle Dolomiti.
Il Giro d’Ali, in pratica, è un corroborante ruscelletto intervallato da diverse pozze e attività. Termina con un laghetto che ospita una zattera semovente e, in generale, è popolato da bestioline osservabili da vicino – girini che si trasformano gradualmente in rane? ECCO QUA.
C’è anche una pista sonora per biglie in legno che vi farà ben comprendere perché per fare i violini usano gli alberi del Trentino.

Consigli pratici: asciugamano e cambio. Il Giro d’Ali è divertente se i bambini possono sguazzare. Cesare è partito semi-vestito e ha concluso le operazioni in mutande, reclamando il permesso di adottare una rana adolescente. Se anche voi volete rilassarvi nei dintorni dell’area-gioco, il pendio è fornitissimo di piattaforme di legno e sdraione ondulatone di rara piacevolezza.

Vi è venuta fame? Non c’è problema. Riprendete la cabina, arrivate fino in cima e seguite le indicazioni per la Baita Ciamp de le Strie. In una mezz’oretta – considerando sempre la velocità di crociera di un bambino che si ferma a conversare con ogni sasso che incontra – arriverete a un rifugio a dir poco fiabesco, corredato di terrazzona panoramica. Il sentiero è super ameno, molto scenografico e anche facile, l’unico pezzetto di salita “vera” è quello conclusivo, brevissimo.
Al Ciamp si mangiano ottime specialità. Consiglio con veemenza gli spatzle allo speck e i canederli.

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LATEMAR – MONTAGNANIMATA

Qua in cima ci si può passare anche una settimana intera, credo. Le attività sono numerosissime. Si prende la cabinovia da Predazzo (l’impianto Predazzo-Gardoné) e si arriva al campo base della Montagnanimata. Cosa si può fare? Di tutto. Ci sono sentieri tematico-didattici per diverse fasce d’età. Noi, con una creatura di tre anni, ci siamo specializzati in fiabe e draghi. Volevamo imbarcarci anche nel percorso del Pastore Distratto o del Dahù, ma temevamo di stancare troppo l’infante. Per i bambini più grandi c’è anche il Geotrail, che pur non risultando pesante a livello cognitivo, ha un’impronta più didattica a tema geologico.

Comunque. Funziona così: la Foresta dei Draghi è bella e percorribile anche senza supporti aggiuntivi, ma di sicuro diventa più divertente e “ricca” se vi fate aiutare da uno dei librini. Tutti i sentieri della Montagnanimata sono corredati da storie illustrate che utilizzano quello che oggettivamente c’è sul sentiero per costruire una sorta di caccia al tesoro narrativa. Il libro racconta una storia e voi ci camminate dentro, seguendo gli indizi e intortando sapientemente il vostro bambino. Cosa si vede, oltre al panorama? Ci sono uova di drago, falene mitologiche, ali, denti, ossa. Noi abbiamo letto la storia di Rogos, ma i draghi disponibili a farvi da guida sono una vasta schiera. Nota rilevante: Cesare si è invasato. Già di suo è un virgulto propenso a farsi leggere cose, ma in tutta onestà siamo rimasti sorpresi dalla sua accorata partecipazione. Una volta arrivati al termine del sentiero – e se avrete seguito tutte le istruzioni del libro prescelto – ripassate al chiosco delle informazioni per ritirare un piccolo premio e riscuotere un doveroso timbrino.

Sempre all’arrivo della cabinovia, troverete anche il portentoso Alpine Coaster. In pratica sono montagne russe. In montagna. INCEPTION. È bellissimo. Vi caricano su un carrellino, vi issano su un cucuzzolo e via, potete fiondarvi giù. La possibilità di poter governare autonomamente il vostro carrellino biposto è salvifica: AVETE I FRENI. Dato il mio proverbiale coraggio, li ho azionati con grande generosità. Potete scegliere se andare a cannone (evitando di tamponare chi se la sta prendendo più comoda) o se procedere con grande calma per godervi il panorama.
Nota pratica: se i vostri figli sono più bassi di 105 cm non possono salire. Non fate l’errore che abbiamo fatto noi. DAI CESARE SALIAMO SU QUEST’AFFARE STUPENDO! Ah, no. Sei troppo basso. Lacrime.

Per godere di un superbo panorama, prendete la seggiovia per Passo Feudo. In cima c’è un rifugio per mangiare qualcosa beandovi della vista. Per i camminatori più carrozzati, da lì partono anche sentieri assai appaganti. Noi, disponendo di un bambino piccolo e non di Paolo Cognetti, ci siamo limitati a bere un grappino.
La seggiovia è praticabile anche da chi è stato ripudiato dall’Alpine Coaster.

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CENE

Di mio, preferisco non cenare in albergo perché mi piace avere occasioni aggiuntive esplorazione. E i dintorni di Panchià – per quanto costellati di autovelox – si sono prestati parecchio.

Tito – Il maso dello speck

A Daiano, a pochi minuti da Cavalese. Istituzione culinaria locale, dotata anche di portentoso spaccio dove acquistare prodotti tipici di varia prelibatezza. Si mangia all’interno, ci si nutre e si bevono distillati e birrone nei tavoli fuori, ci si può aggirare nei dintorni e i bambini hanno a disposizione un parco giochi di rara estrosità architettonica, tutto di legno. Senza ombra di dubbio la serata più piacevolona della vacanza.

Ristorante Miola

Strada che si arrampica nel bosco con bonus-track tramonto dalla terrazza. Il maso appartiene dagli anni ’50 alla stessa famiglia, che continua a gestirlo e a preservarne le tradizioni. Anche qui, deliziosi piatti tipici preparati con ingredienti locali e un’ottima selezione di vini altoatesini.

E se piove?
Non siamo riusciti a goderci a pieno l’itinerario che avevamo previsto per il Cermis, ma abbiamo salvato la giornata con un pranzo “lungo” al Maso Corradini, altro punto di riferimento solidissimo. Gestito dalla famiglia Corradini dagli anni ’70, è stato uno dei primi agriturismi aperti in Trentino. Oltre al ristorante e ai terreni limitrofi – il giardino è bellissimo -, si può scorrazzare per il celeberrimo lamponeto e si può visitare l’azienda agricola. Bambini che guardano caprette, mucche, galline, coniglietti: a posto. Se non basta, c’è pure il parco giochi – Cesare ha deciso di andare a convivere nella casetta con una bambina di nome Maria Vittoria. Non lo biasimo, Maria Vittoria era molto simpatica.

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Un suggerimento pratico: chiedete al vostro albergo di attivarvi la Fiemme Guest Card. Ci sono un sacco di agevolazioni e sconti sul fronte dei trasporti, degli ingressi e – aspetto fondamentale – dei biglietti degli impianti di risalita.

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Se capiterete da quelle parti, fatemelo sapere. E alla sera portatevi una felpetta, che grazie al cielo FA FRESCO.
Spero di aver sprigionato dell’utilità per le vostre meritatissime ferie. :3

Sciare è un’attività umana di difficile gestione. Se provi a pensarci razionalmente, a sciare non ci vai. E basta. Fa freddo – se non freddissimo, ti devi svegliare presto, ti viene un mal di gambe inaudito, puoi romperti le ossa, capita di schiantarsi contro i pini, la seggiovia fa paura, c’è scomodità, si puzza, ti cola sempre il naso, ti si ghiaccia la faccia, bisogna combattere per un posto sullo skibus, il burrocacao non è mai sufficiente, fare la pipì è laborioso, è necessario trasportare oggetti pesanti, la vestizione è complessa, ti si ammaccano gli stinchi, ti si staccano le mani e devi passare una giornata con i piedi negli scarponi. Non ha alcun senso. Ecco perché si comincia a sciare da piccoli. Perché, quando sei piccolo, riesci ad accettare con maggiore disinvoltura anche le assurdità più madornali – tipo il catechismo al sabato pomeriggio. Io, che devo sempre essere più bionda e più speciale degli altri, da piccola sciavo, ma proprio come sport. Durante la settimana avevo tre allenamenti di tennis e, non paga, trascorrevo i miei weekend al Tonale. Ma non sulle piste civilizzate, con la pausetta per la cioccolata calda e il pisolino sulla sdraio al rifugio… noi ci svegliavamo all’alba e andavamo sul Presena, dove l’unico impianto di risalita era un’ancora installata dal Dio dell’Antico Testamento in mezzo a una bufera orizzontale di giavellotti di ghiaccio.
L’ancora.
Se non sapete che cos’è un’ancora non ve lo spiegherò. Perché darvi un dolore, quando potete continuare a vivere serenamente la vostra vita, lontani dalla sofferenza e dal mal di culo?

baby tegamini sciatrice

Comunque.
Nonostante passassi a un metro e mezzo dai pali, la mia luminosa carriera di piccola sciatrice non fu malissimo. Conquistai un secondo posto ai campionati provinciali del Piacenzashire – dove di femmine che sciavano ce n’erano all’incirca sei -, un secondo posto in slalom speciale – solo perché fui l’unica, a parte la vincitrice, a non inforcare – e un secondo posto in gigante ai campionati italiani Libertas, categoria Cuccioli. Io, in realtà, avevo un anno in più e dovevo gareggiare nei Ragazzi, ma s’era ammalata la mia compagna e mi avevano utilizzata come controfigura. Nella mia categoria non mi ricordo come andò a finire, ma da Cucciola conquistai una medaglia d’argento che mi proibirono di andare a ritirare. Trascorsi il resto della serata a nascondermi nell’ombra, come un ninja col pile. A scanso di equivoci, poi, i miei amici più impressionabili continuarono a chiamarmi Valentina per il resto della settimana.
Insomma, prima di abbandonare l’approssimativa pratica agonistica che aveva caratterizzato gli anni più belli della mia esistenza, non sospettavo che lo sci potesse anche avere una valenza ludica. Fu soltanto dopo, con le settimane bianche messe in piedi con i miei compagni delle superiori, che mi resi conto della verità. Sciare non era solo sofferenza, schienate in terra, cunette assassine e vomitate sui tornanti (dal finestrino di un Ducato). Sciare poteva anche essere divertente. Grappini alla mela verde. Palle di neve. Sole in faccia a marzo. Sveglia alle dieci meno un quarto. Copricaschi rosa con le orecchie da coniglio. Tavolette di cioccolato.
Favola!

Una foto pubblicata da Francesca Crescentini (@tegamini) in data:

Il risultato, una ventina d’anni dopo aver messo gli sci per la prima volta, è che a sciare ci vado volentieri. Sono consapevole dell’improbo sbattimento che mi attende, ma sono comunque presa bene. Anzi, mi piacerebbe poter andare in montagna più spesso. Poche settimane fa, in un impeto di decisionista che raramente si ripeterà, abbiamo addirittura prenotato una stanza a Canazei e siamo partiti. Io e Amore del Cuore, per onore di cronaca, non siamo mai andati a sciare insieme. Anzi, lui si è cimentato con lo snowboard per un totale di tre volte in vita sua. Pur preoccupandomi assai della sua effettiva capacità di arrivare incolume in fondo a una pista, ho deciso di fidarmi del suo ottimismo – Ma certo che vengo giù. Al massimo me la faccio a piedi. Capirai. – e di riporre ogni speranza nella sconfinata potenza dei suoi gamboni. Ma ripercorriamo insieme i principali HIGHLIGHTS dei quattro giorni trascorsi in montagna della famiglia del Cuore.

Mi sono ostinata a sciare con i miei sci. I miei sci potevano considerarsi nuovi nel 2004. Erano i primi carving, con le punte e le code appena appena spalettate e una lunghezza assolutamente incomprensibile per gli standard attuali. Le persone, oggi, hanno gli sci più bassi di loro. Io no. L’unica cretina nell’intero comprensorio del Sellaronda con gli sci di una spanna più alti. Vero, ti senti un sacco stabile, ma non li giri mai. Anzi, li giri finché sei giovane e sportiva. È quando diventi trentenne e impiegata che sulle cunette insulti i santi.

Amore del Cuore ha trascorso quattro giorni a pendolare. Credo sia riuscito a produrre, in totale, un massimo di cinque vere curve. Per il resto, si è spostato come una benna spalaneve, oscillando da un gambone all’altro – indipendentemente dalla natura del pendio – e affrontando con una discreta sicumera ogni genere di difficoltà. Visto che stavamo badando all’efficacia e non di certo allo stile, la sua performance è stata nobilissima. Ad un certo punto, vista l’indiscutibile efficacia della Tecnica Pendolo, lo mandavamo avanti a spianare i maledetti dossi. L’unico problema, come può testimoniare questo prezioso documento filmico, erano i pianetti. Amici snowboarder, ma chi ve lo fa fare. Sul serio.

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Nonostante sia il mio posto preferito per sciare, non sono ancora riuscita a capire come funziona il Sellaronda. Non posso farci niente, il Sellaronda è troppo per me. Mettetevi ovunque e in un paio d’ore capisco come funzionano le cose, ma con il Sellaronda è tutto inutile. Panico e disorientamento. Il risultato è che devo sempre essere accompagnata da un adulto e, da sola, non ho speranza di sopravvivere.

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Cado poco, ma tendo a cadere in maniera piuttosto plateale. A questo giro, per dire, ho affrontato un mucchio di neve con eccessivo entusiasmo, sono decollata e sono atterrata dall’altro lato della stradina – a ventiquattro centimetri dalle code di un tizio che, seppur con le sue difficoltà, passava di lì per caso. Decisa a salvargli la vita, ho frenato bruscamente. Non l’ho travolto, ma ho perso uno sci e, come una catapulta, ho superato il bordo della pista, rotolando con un certo impeto giù per un piccolo pendio che conduceva all’incirca al letto di un torrentello. Non mi sono spaccata la testa e non ho riportato danni di alcun tipo, anche se – a ben pensarci – sotto a quella nevona sofficiona poteva esserci praticamente di tutto. La scena si è conclusa con Amore del Cuore che, brandendo lo snowboard, correva minaccioso verso l’incolpevole sciatore-passante gridando – in maniera assolutamente immotivata – VATTENE CHE ALTRIMENTI T’AMMAZZO.

Sciare, comunque, ci trasforma tutte in scaldabagni.

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Grazie ai numerosi falsopiani che, ad intervalli regolari, impedivano ad Amore del Cuore di avanzare alla nostra velocità, sono riuscita a fotografare un casino di paesaggi e mirabili scorci naturalistici che mai al mondo avrei pensato di poter immortalare. L’impresa è stata ancor più facilitata dalla fortuita scoperta di una FEATURE fondamentale dei miei guanti. I miei guanti nuovi, infatti, hanno gli elastichini per bambini. C’è un braccialetto con un cordino cucito al guanto, così tu te lo puoi sfilare senza che ti precipiti dalla seggiovia. O giù per la Sasslong come una scatola di sgombro. La vita. La pace. La comodità. L’agio. L’abbondanza fotografica.

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  Uno dei motivi per cui la gente dovrebbe andare in montagna, secondo me, è la roba da mangiare. In montagna si mangia bene. Ad un certo punto, vergognandomi abbastanza della quantità di cibo che avrei potenzialmente potuto postare su Instagram, mi sono auto-censurata… ma non ho sicuramente smesso di masticare. Anzi, colta da un’improvvisa caldana da polenta con il capriolo, mi sono levata il maglione con eccessivo trasporto e, nel bel mezzo di un ristorante molto tipico, molto affollato e molto frequentato da gente a modo, ho inavvertitamente suonato un campanone da vacca – che lì si trovava per valenze ornamentali – sgomentando l’intera sala. Grazie, capriolo. Grazie per avermi fatto scampanare.

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Oltre a una commovente carne salada, a piatti di ravioli coi finferli (ravioli grigi, anche se non mi ricordo più il perché) e a poderosi taglieri di salumi, sono riuscita a incamerare anche diversi quintali del mio piatto montanaro preferito: UOVASPECKEPATATE. Visto che con “Uova, speck e patate” non credo di rendere al meglio l’idea, ho deciso di scriverlo maiuscolo e tutto attaccato. UOVASPECKEPATATE ammazzerebbe anche un arrotino bielorusso, ma vi assicuro che è possibile mangiarne una porzione a pranzo per tre giorni di fila e tornare comodamente a sciare. Quando vi ricapita di poter usufruire di UOVASPECKEPATATE? Mica c’è, a Milano. E, anche se ci fosse, a Milano mica avete l’alibi dello sci. Ah, mi serve un po’ di energia! A sciare si brucia un sacco! Non risparmiatevi, dunque. UOVASPECKEPATATE ogni venti minuti.
L’esemplare più interessante di UOVASPECKEPATATE l’ho mangiato in un rifugio adorabile, pieno di addobbi di fiocchi di neve in gommapiuma. E mi è arrivato insieme a una specie di infrastruttura lignea reggipadella – visibilmente superflua ma molto coreografica. Padroneggiare l’hardware non è stato un granché semplice, ma ho amato fortissimo ogni secondo del pranzo. E, come potrete facilmente desumere dalla qualità della foto, non avevo sbatti. Quando ti trovi davanti una cosa pazzesca da fagocitare, anche Instagram passa in secondo piano.

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Per concludere, vorrei dire che sì, mi sono riconciliata con lo sci. Ne comprendo gli evidenti svantaggi, ma sono comunque in grado di apprezzarlo. Sarà che, quando cominci a lavorare, la cosa peggiore del mondo diventa all’improvviso il dover stare in ufficio… e anche una bufera di stalattiti, in confronto, è subito FAVOLA. Questione di prospettiva? Questione di ferie – che sono già belle proprio perché SONO ferie? Chi può dirlo. La roba migliore dello sciare, comunque, è sempre la stessa: levarsi gli scarponi e bersi una birra – in calzamaglia di lana – per festeggiare l’impresa (e l’integrità dei propri arti a fine giornata).
CHEERS, amici della neve.

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