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Con Nicoletta Verna non ho badato granché alla cronologia delle pubblicazioni, temo. L’ho incontrata per la prima volta con I giorni di Vetro – che trovate anche qui insieme a un meraviglioso giro per i luoghi del romanzo, nella “sua” Castrocaroe ho recuperato solo in queste settimane Il valore affettivo – uscito sempre per Einaudi Stile Libero. Un esordio di rara densità e fluidità di comunicazione fra il dentro e il fuori dei personaggi… anche se, per la sua Bianca, quel che succede è quasi tutto dentro, perché è nascosti alla vista e all’intuizione di chi ci sta accanto che i segreti macerano e si trasformano. Anzi, Bianca è sostenuta da un piano assurdo costruito sulle fondamenta di un grande mistero: la verità sulla morte di sua sorella, l’evento che ha deformato per sempre – e irrimediabilmente – la sua famiglia. 

Bianca ha sette anni, quando Stella muore. Pare essersi trattato di un incidente in una tremenda giornata tempestosa, una fatalità sinistra ma priva di macchinazioni – se escludiamo quelle del destino. Stella, la maggiore, è sempre stata il suo punto di riferimento, un rifugio sicuro e una fonte di inesauribile ammirazione. Anche Bianca è bella, ma non sarà mai magnetica come Stella. Mai così perfetta, universalmente adorata, magnanima nel gestire tutti i doni che le sono stati dispensati. Nulla, senza di lei, sarà più come prima. La madre sprofonderà in una pesantissima depressione che pare comporsi di mesi passati davanti alla televisione e repentini tentativi di suicidio, mentre il padre si farà sempre più evanescente, fino a levarsi di torno. L’evento inspiegabile e improvviso che ha eliminato Stella dall’equazione contamina il presente e rende il futuro impossibile da immaginare – a patto che ci si voglia arrivare, poi. Bianca, che non ha più una guida, cresce portando con sé un fantasma, una domanda destinata a non ricevere risposta e una muraglia invalicabile di ossessioni e stratagemmi che dovrebbero donarle l’illusione di poter controllare la sua presa sul mondo.

La Bianca che ci parla in “presa diretta”, però, è una persona all’apparenza lontanissima da quella bambina disgraziata. Sposata con un cardiochirurgo di fama mondiale – pure bono -, ricca e finalmente padrona della sua bellezza – che le ha donato pure un angolino di celebrità -, Bianca vive in un appartamentone degno di un editoriale da rivista patinata e conduce un’esistenza di agio e successo. Cos’è capitato in mezzo? Quel che c’è lì ci aiuterà a capire il “prima”? Verna colma gradualmente le lacune, descrivendo la caparbia metamorfosi di un personaggio che avanza senza mai spostare il proprio cuore dal punto nel tempo in cui si è spezzato. Bianca non vive per sé o per collezionare traguardi o vendicare un’umile origine: Bianca vive per restituirsi Stella. 

Il valore affettivo è un libro ipnotico e, temo, anche un libro che difficilmente vi donerà spensieratezza. Verna è abilissima nell’avvilupparci, trascinandoci nella testa di Bianca: siamo i suoi unici confessori, le uniche persone che davvero possono intuire quello che nasconde, quello che spera e quanto è fonda la spaccatura nell’ordine “corretto” delle cose da cui ci parla. Questo punto di vista privilegiato è gestito con grande equilibrio e sì, il mistero di Stella non rimarrà in sospeso. Mi sembrava utile dichiararlo, perché i cerchi che si chiudono offrono sempre una certa soddisfazione. O forse no? Sapere – sapere davvero – potrà mai bastare a Bianca? La verità ha il potere di ridare la vita? Ve lo lascio volentieri scoprire. E occhio a come differenziate i rifiuti.

Assegnato ogni anno a Capri a una personalità notevolissima del mondo letterario internazionale, il Premio Malaparte è stato conquistato nel 2024 da Rachel Cusk, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero e particolarmente amata e nota per la trilogia di Resoconto – titolo a cui sono poi seguiti TransitiOnori

A Cusk piacerebbe molto trasformarsi in purissima immagine astratta ma, per il momento, possiamo ancora chiacchierare con lei. Da Coventry. Sulla vita, l’arte e la letteratura – raccolta di saggi e riflessioni autobiografiche di fresca uscita – al suo discusso memoir sulla maternità – Il lavoro di una vita, di cui ho già riflettuto qui – fino alle tante superfici parlanti a disposizione della narratrice quasi invisibile della trilogia, ecco un angolino di tempo che abbiamo trascorso insieme, durante le due giornate fittissime del Malaparte. Conversare con Cusk è come vederla scrivere… e spero che un po’ di quell’esattezza limpidissima mi rimanga appiccicata addosso.

[Al fondo o qui trovate una versione video dell’intervista. Vi va di leggerla? Proseguite in serenità qua di seguito.]


Leggendo e ripensando complessivamente al suo lavoro, ho trovato molto calzante la presenza di Natalia Ginzburg in uno dei saggi raccolti in Coventry. Credo che ci sia qualcosa che vi accomuna, quello sforzo di estrarre dai dettagli più minuti della realtà e dei fatti della quotidianità un collegamento più vasto a quel che può significare vivere ed esistere nel mondo. Ma anche negli aspetti legati alla posizione che vogliamo assumere, a cosa significa creare e scrivere per spiegarci meglio quello che non è immediatamente comprensibile o semplice da afferrare. Si sente vicina all’approccio di Ginzburg? E quanto spesso si convince di non essere abbastanza “brava”, come spesso capitava a lei? 

Vero, lo diceva sempre! [sorride]

A me è sempre sembrato molto bizzarro, perché per quanto lo ripeta – e se lo ripeta di continuo – l’ho sempre trovata saggissima e mai presuntuosa o pretenziosa…

Credo che la mancanza di presunzione sia probabilmente la chiave dell’unicità della sua voce. Perché penso che, spesso, il sé intralci le sue stesse percezioni. E questa è davvero – e posso dirlo in base alla quantità notevole di libri che ho scritto – una presa di coscienza crescente: si vorrebbe assolutamente ridurre al minimo la presenza del sé, in un libro. Ad alcune persone – e lei era sicuramente una di queste – riusciva in maniera piuttosto naturale. L’umiltà è davvero una qualità artistica fondamentale, ed è un altro degli aspetti che si percepisce di lei. Perché ti consente di osservare ogni cosa e ogni luogo con un’obiettività straordinaria. Non cerchi di inserire te stessa e nemmeno di ritrovare necessariamente dei riflessi di te stessa, o di affermare la tua rilevanza. C’è qualcosa di davvero naturale nella sua presenza in un testo che nasce da questa posizione di umiltà.

Penso dipenda anche dal tono. Non “suona” mai minacciosa e sembra sempre fare uno sforzo sincero per mettere a proprio agio chi legge, ma senza scadere nella condiscendenza. Da dove può arrivare una scelta di modulazione così equilibrata dell’ego nella scrittura? 

Mi chiedo se si sia trattato di una questione di semplice sopravvivenza. Sopravvivere a determinate esperienze può smorzare gli eccessi, immagino, eliminando ogni traccia di esagerazione dalla tua voce e da quello che stai creando. Suppongo che il fatto che sia sopravvissuta abbia generato una sorta di senso del dovere, immagino, per continuare a farsi testimone delle cose.

A proposito di ego… la leggenda vuole che la scrittura sia una mastodontica questione d’ego. L’autore arriva per mostrarti quello che non vedi! Ecco una pagina che illuminerà la tua anima! Ringraziami, lettrice, per la verità assoluta che ti sto rivelando! Scrittori e scrittrici ne sono ben consapevoli e penso che di tanto in tanto si approfittino con disinvoltura di questa leggenda. Specialmente nella trilogia di Resoconto, però, la sua scrittrice si trasforma in una sorta di contenitore per una molteplicità di opinioni, eventi e punti di vista che ci vengono presentati senza giudizi o senza la necessità di proporre risposte “guidate” o di far necessariamente “vincere” le sue convinzioni. La protagonista della trilogia è e rimane un’osservatrice, che ascolta senza il minimo desiderio di prevalere. Che fine fa, allora, tutto quel famigerato ego? È diventato finalmente superfluo?

[Ride.]
Ciascuno di noi può individuare delle esperienze nella propria vita che hanno radicalmente minacciato o messo in discussione o ridotto il proprio ego. Quindi, forse, è qualcosa con cui si nasce e che ci viene dato, o riguarda il processo di formazione del carattere, qualcosa che la vita a un certo punto ti comunica.
Per certi versi, fa anche un po’ paura pensare che gli scrittori – e anche gli artisti, ovviamente – siano in realtà protetti da quel processo, in qualche modo. E che il loro ego resti intatto ben oltre il momento in cui dovrebbe essere stato eroso almeno in parte dalla vita. [ride]
Ora credo di essermi del tutto staccata da quello scenario. E lo descriverei, immagino, come un processo di perdita di fede nella realtà – intendendo la realtà come qualcosa che il sé struttura deliberatamente e in cui crede. E quando si spegne davvero questo motore di fede che cosa ti rimane? Ti rimangono delle superfici che puoi interpretare, che non sono affatto al servizio della trama della tua vita e che magari restituiscono il tuo riflesso e il riflesso della storia della tua vita in maniera indipendente.

Dove scrive, ora? In Coventry si discute della famosa “stanza tutta per sé” e degli spazi in cui si esercita la creatività o ci si cala in diversi ruoli – dal lavoro alla maternità. Tradizionalmente siamo abituate ad attribuire un luogo specifico a ogni diverso ruolo che siamo chiamate ad assumere. Per lei esiste uno spazio creativo dedicato? Ce l’ha, questa “stanza”?

Ce l’ho, ho finalmente una stanza tutta per me. E lì dentro lavoro davvero. [sorride]
Uno dei temi che affronto in Coventry è quest’immagine che mi ha tormentata parecchio. La si trovava in quarta di copertina nei romanzi pubblicati nella seconda metà del XX Secolo e ci sono sempre degli uomini in poltrona, con le loro scrivanie rivestite in pelle e lo sguardo puntato verso l’alto…
Il problema delle stanze tutte per sé è che devi essere tu a metterti al servizio di quelle stanze, devi fare in modo che abbiano quell’aspetto e devi sederti in poltrona e presentarti anche come la persona che scrive.
C’è un racconto meraviglioso di Doris Lessing… parla essenzialmente di una donna che sta provando a creare qualcosa e si sposta per casa da una stanza all’altra cercando un posto che non sia pieno di faccende che deve sbrigare, di gente che la insegue per chiederle di fare delle cose e, appena trova un cantuccio adatto, tutti quanti decidono che anche a loro piacerebbe molto stare lì e usare quello spazio.
Nel mio nuovo libro si parla parecchio non solo di scrittrici donne ma anche di artiste donne e di come ci siano esigenze di spazio estremamente diverse – perché lo spazio in cui si crea un oggetto è ben diverso. Nel libro parlo di un’artista americana che aveva cinque figli e li teneva sempre nel suo studio. C’erano sempre dei bambini piccoli in giro e ogni tanto creavano qualcosa per conto loro, altre volte aiutavano lei e, in un certo senso, la soluzione al problema era diventata quella: incorporare i bambini nell’atto creativo. Capirai bene che con la scrittura non funziona e, nel libro, la persona che racconta questo aneddoto afferma che, per quanto adori quella storia, resta solo un’immagine… e che non si possa realmente fare così.

Volevo concludere con un ringraziamento per Il lavoro di una vita. Mi ha aiutata a venire a patti con quel tipo molto specifico di solitudine che può toccare le neo-madri. La riassumerei come una forma di scollamento dai ritmi e dalle esperienze del resto del “mondo” accompagnata da una metamorfosi identitaria molto onerosa da elaborare. Nel libro ho trovato una voce che parlava a me – … e non solo del bambino o di cosa dovevo fare per il bambino – e restituiva dignità alle mie domande meno “pratiche”, meno legate agli aspetti funzionali del mio nuovo ruolo. Con quel libro mi è stata amica, insomma, anche se nemmeno io sapevo troppo bene di averne bisogno. 

Il lavoro di una vita è un libro interessante, per me. Mi ha insegnato che, nonostante tutti i discorsi che facciamo su come possiamo far leggere le persone, all’improvviso un libro riscuote grande successo e lo troviamo meraviglioso e tutti quanti si mettono a leggere questo libro… ma in fin dei conti continuo a credere che esista un libro in particolare per una persona specifica che si trova nella situazione in cui il libro che ha bisogno di leggere è proprio quello – e non l’ultima novità che stanno leggendo tutti gli altri. Il lavoro di una vita troverà sempre una donna che se la sta cavando da sola perché, in quell’esperienza, si è davvero da sole… e mi ricorda sempre di continuare ad avere fede, in un certo senso, in quell’idea. Non si tratta di inseguire la popolarità, ma di centrare il bersaglio a livello individuale.

 


Vi va di ascoltare tutto quanto dalla viva voce di Cusk? Ecco una versione video della nostra conversazione:

 

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Vi va di scoprire qualcosa in più sull’atmosfera del Premio Malaparte e su quello che è accaduto quest’anno in compagnia di Cusk? Ecco qua un “diario” basato su un ottimo esercizio d’osservazione che arriva per direttissima da Resoconto. 🙂

 

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Vi va di ascoltare ancora un po’ di Cusk? Ecco la puntata speciale di Comodinoil podcast del Post curato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti – dedicata all’autrice e registrata sempre a Capri per il Malaparte. Ho avuto il privilegio di godermi la chiacchierata in diretta, come potrei non linkarla? 🙂

Lara sale per la prima volta sul palco per interpretare il ruolo che le cambierà la vita quasi per caso. Sta dando una mano nella gestione delle audizioni di una produzione “dilettantistica” di Piccola città di Thornton Wilder e, piuttosto schifata dalle Emily candidate, decide di provarci lei. Lara è (e sarà sempre) una Emily perfetta e sarà proprio quel personaggio a portarla via dal New Hampshire e dalla sartoria della nonna per depositarla a Los Angeles e poi a Tom Lake, vivace centro del Michigan celeberrimo per le sue stagioni teatrali estive e trampolino di lancio per talenti emergenti d’ogni sorta…
Ma ci arriveremo per gradi, perché anche Lara ci arriva con calma, raccontando la storia della sua carriera di attrice – e della sua vita “prima” – alle tre figlie ormai grandi, tornate alla fattoria di famiglia all’inizio della pandemia. Anche la fattoria dei Nelson è in Michigan e con Tom Lake condivide la natura placida e maestosa, il lago immenso e gli alberi da frutto. Le Nelson raccolgono di gran lena acri e acri di ciliegie – tanti braccianti le hanno piantate comprensibilmente in asso per la stagione – e dipanano con gradualità i “segreti” di famiglia. Ogni famiglia ha leggende condivise, convinzioni, nodi e fraintendimenti di fondo che resistono con ostinazione alla realtà, in mancanza di un momento chiarificatore e del tempo necessario a rimettere insieme con cura il puzzle.

Insomma, mentre il padre fa su e giù col trattore e si fa aiutare dalla sorella maggiore (quella che ha studiato agronomia e ha sempre sostenuto di voler tornare a casa per prendersi cura della proprietà) a gestire la fattoria, Lara ricorda e consegna alle sue figlie la versione “autentica” del suo percorso. La grande figura mitizzata che aleggia sull’intera famiglia è Peter Duke, che Lara ha amato a Tom Lake e che, al contrario di lei, è diventato una star del cinema. Cos’è successo veramente? Perché è andata così? Perché la mamma ha smesso di recitare, brava com’era? Ci sarà sotto qualcosa? E papà quando è spuntato?

Il romanzo – in libreria per Ponte alle Grazie con la traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla – ci trasporta nella quotidianità “presente” dei Nelson e allestisce in parallelo uno spettacolo di rievocazione che offre un ulteriore livello di potenziale finzione – perché si può recitare su un palco a Tom Lake ma si recita anche per imparare a convivere con il dolore, il rifiuto, il rimpianto. Lara sembra non averne, di rimpianti, il che rende il suo racconto estremamente avvolgente: è una sorta di solida conferma dell’amore che tiene insieme la sua famiglia, della bontà di una catena di decisioni lontane ma rivoluzionarie. Potevi essere famosa! Potevi vincere un Oscar! Potevi diventare ricca! Potevi esserci anche tu, nelle videocassette che abbiamo guardato fino a consumarle! E invece hai un cesto al collo e raccogli la frutta con tre ragazze grandi che sono felici di esserci anche se non capiscono bene come sia potuto capitare. Per Lara è tutto chiaro, ma le sue figlie hanno bisogno di sentirselo spiegare senza reticenze e senza rete di protezione.

Ann Patchett è molto abile nel mescolare i piani temporali e nel tenere in piedi i vari “microcosmi” della storiaPiccola città compresa. Se vi intriga il teatro è un po’ come entrare a far parte di una produzione e se vi intrigano le vicende corali di famiglia avrete un buon intreccio in cui intrufolarvi. Non mancheranno i colpi di scena e le asimmetrie informative – perché si può mai davvero dire TUTTO? – e ho trovato assai confortante il fondamentale ribaltamento delle premesse: “ho scelto un destino e vi spiego perché è andata bene”, invece del più consueto (e angoscioso) ECCO IO CHE TUTTO POTEVO IO CHE ERO QUESTA FULGIDA MERAVIGLIA GUARDATE COME SONO RIDOTTA. Lara ha risolto, ha riconosciuto il suo posto e la sua gente. Può guardare al passato con franchezza e con una serenità quasi del tutto pacificata. E può raccontare, finalmente, quel che sa dell’amore a chi più ama. 

Qua non so bene come comportarmi, perché La spinta di Ashley Audrain – da noi uscito per Rizzoli con la traduzione di Isabella Zani – è un libro di una sgradevolezza rara. Succedono cose terrificanti, luttuose, traumatiche. E succedono nel territorio della maternità, una landa che già di suo presenta una gran quantità di garbugli e di potenziali pozzi oscuri. È un romanzo tremendo da leggere, difficile da sopportare e a tratti anche fin troppo calcato, ma eliminando tutte le tare del caso penso restino degli spunti di riflessione più che dignitosi. Certo, li si piglia e li si stiracchia fino al limite estremo del plausibile – per quanto possa aver senso stabilire confini -, ma pare quasi un esercizio speculativo. Che succede se deformiamo le domande basilari che una neo-madre può porsi? Da dove spuntano i mostri? Saremo capaci di fare quello che ci si aspetta da noi? Quanto possiamo ritenerci attendibili in situazioni di stress e isolamento? I “cattivi esempi” sono una profezia o un monito che può aiutarci a spezzare un destino fallimentare?

Blythe è il prodotto di una dinastia di madri che la società civile disapproverebbe. È sopravvissuta a un’infanzia infelice e al rifiuto costante, senza avere gli strumenti “anagrafici” necessari per decodificare i patimenti delle donne della sua famiglia. All’università conosce un ragazzo e, per la prima volta, riesce a immaginare un futuro tollerabile – anzi, un futuro felice. Sono innamorati, lui è convinto che in lei si nasconda una madre meravigliosa e lei ha un gran bisogno di crederci, di meritarsi questa vasta fiducia. Nasce Violet, ma Blythe ci capisce poco. Si ritrova inchiodata a casa – è Fox che lavora mentre lei prova a dedicarsi alla scrittura – con una neonata che pare richiedere più di quanto lei possa ragionevolmente darle. Nulla di quanto aveva immaginato trova specchio nella quotidianità con Violet, ma mostrarsi capace e padrona della situazione, dar prova di essere degna di quell’immagine di madre esemplare così cara al marito ha il sopravvento sulla realtà dei fatti. Chissà, magari Blythe esagera. Magari è lei che non ci sta dentro. Violet non sarà mica così terribile, dai. Perché la devi sempre dipingere a tinte così fosche? Verrebbe quasi da pensare che non le vuoi bene… ma sarebbe una mostruosità bella e buona. Sei un mostro, Blythe?

Blythe si convince, giorno per giorno, che in sua figlia ci sia qualcosa di anomalo, qualcosa che supera anche le sue potenziali inabilità nel “gestirla”. Chiaro, si sente in colpa per quattordicimila motivi e si vergogna pure di fare così fatica con lei, ma col passare dei mesi – e dei primi anni – quell’inquietudine di fondo resta. Violet è fredda, manipolatrice, crudele con gli altri bambini (e con lei). Insieme agli innumerevoli “ma dove ho sbagliato”, Blythe deve confrontarsi con suo marito, che Violet pare adorare e che vive un’esperienza di genitorialità completamente diversa dalla sua. Fox resta inserito nel mondo, fa carriera, arriva a casa la sera e viene accolto da sua figlia con evidentissimo entusiasmo. Fox, soprattutto, non accoglie i timori di Blythe. Anzi, li respinge con intransigenza. Il perché facciano un altro figlio è ben sviscerato nel romanzo – per quanto possa sembrarci controintuitivo. È come se Blythe avesse bisogno di riscattarsi, di dimostrare in maniera incontrovertibile che il problema è Violet e che lei è una madre capacissima – e capacissima di amare…

Audrain è abile nel gestire la tensione e i diversi piani temporali. Funziona così: sappiamo da subito che qualcosa è andato terribilmente storto, ma occorre l’intero libro per afferrare davvero l’estensione del disastro. Oltre al “piano temporale” di Blythe abbiamo a disposizione anche le storie di sua madre e di sua nonna che, pur in epoche e contesti differenti, rappresentano un precedente significativo. È come se tutto quello che circonda e “costituisce” Blythe lavori per corroborare la sua inattendibilità. È come se la spiegazione più semplice e valida, nel caso esista qualcosa di cui preoccuparsi, sia l’inadeguatezza della madre. Blythe è problematica a modo suo – e non è un personaggio che ispira chissà quali moti di simpatia -, ma non dispone mai di punti di riferimento accoglienti. Smette quasi di essere una persona e diventa una funzione, non ha più un posto o un’identità – a parte quella di madre, in cui sente esplodere tutto il suo fallimento. È un libro orrendo? Sì. Perché Audrain fa succedere orrori. È un libro potenzialmente utile? Anche. Perché può farci pensare, nonostante l’evidente situazione-limite che costruisce.

Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Sono in difficoltà. Anzi, fatico ad elaborare un parere razionale PERCHÉ SONO TUTTI INTOLLERABILI. Mi capita raramente, ma ogni tanto capita. Un personaggio solo si salva – e ho a più riprese cercato di gridargli SCAPPA ANIMA BELLA TU PUOI FARCELA ALTROVE, pur sapendo che non poteva sentirmi. Il tema è spinoso ma non sconosciuto da queste parti: Quello che non sai di Susy Galluzzo – che ho ascoltato su Storytel ma che trovate anche in libreria per Fazi Editore – è una storia di maternità e di assimilazione difficoltosa del ruolo. Ci sono responsabilità enormi che andrebbero rette insieme ma che finiscono solo per alimentare dei grandi dossier immaginari del “te l’avevo detto”, c’è il tema di un distacco impossibile perché c’è la paura di non servire più, c’è l’adolescenza e c’è l’abitudine orrenda di misurare col bilancino quanto ci si vuole bene, quanto si fa per la famiglia e a quanto si rinuncia – e non perché ci fa felici, ma per avere abbastanza elementi da rinfacciare alla controparte.

Il nostro punto di vista è quello di Michela, ex cardiochirurga di sopraffino talento che ora fa la mamma quasi a tempo pieno e deve gestire sostanzialmente per conto suo – perché suo marito Aurelio è ancora un medico impegnatissimo – una figlia protoadolescente “difficile”. Leggiamo quello che Michela sceglie di affidare a una specie di diario scritto per la madre, ormai scomparsa da una quindicina d’anni ma ancora ben viva nella memoria e snodo fondamentale della vicenda.

Tutti, qua, vivono gestendo un rancore invalidante.
Michela e sua figlia sono intrappolate in una simbiosi che soffoca entrambe e che si incrina sul tramontare dell’infanzia, lasciando la madre alle prese col vuoto e con una serie di gelosie meschine e la figlia sempre più avviluppata in rituali compulsivi e scatti d’ira. Michela non ne pare consapevole, ma sta facendo penitenza. Ilaria paga altrettanto involontariamente il fatto di non corrispondere alle aspettative, trasformandosi anche nel ricordo perenne di un grande abisso.L’evento che scatena una reazione a catena di scenate, aggressività e ostilità asfissianti è una macchina che arriva e sta per mettere sotto Ilaria, mentre Michela resta a guardare senza muovere un muscolo – pur avendo ampio margine per intervenire. Da lì e tutto finito, non c’è meschinità o colpo basso che si risparmino.

È un romanzo davvero indigesto ma potente – sarà anche l’ottima lettura di Teresa Saponangelo, che resta espressiva ma ben calibrata – da cui si riemerge quasi con disgusto, perché contrasta ogni immagine felicemente stereotipata e ci proietta invece in una dinamica basata sul risentimento e sull’impotenza, sul senso di colpa e sul bisogno asfittico di controllare tutto per non rischiare di tornare più in un angolo molto buio. Non lo so, forse funzionerebbe meglio se le circostanze di Michela non fossero così estreme, peculiari e fin troppo ben apparecchiate per utilizzare il trauma come spiegazione “plausibile”. Nell’essere tremendo e claustrofobico, però, è anche un romanzo spericolato e pieno di pietà, nonostante le numerose ruvidezze e la generosa distribuzione di situazioni iperboliche.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Dalla gestione domestica all’organizzazione della famiglia, dai compiti di “cura” alle operazioni basilari e ripetitive che garantiscono il buon funzionamento di una casa, con Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli) Annalisa Monfreda si interroga sulle corrispondenze generi-ruoli e sugli automatismi che tradizionalmente condizionano il nostro abitare la coppia, la famiglia, il mondo del lavoro e la dimensione collettiva.
Quale imperativo biologico dovrebbe rendermi più qualificata del mio partner a caricare la lavastoviglie?
In base a quali costrutti stratificati ci sono compiti “da donna” e incombenze “da uomo”?
Perché i “ti aiuto, basta che mi dici cosa devo fare” è una trappola, per quanto forse mossa da buone intenzioni?
Quali strutture di potere diamo per buone senza renderci conto dei confini che ci impongono?

Tra fonti autorevoli e cronache di scleri condivisibili, Monfreda esplora le radici del carico mentale – e delle disparità lampanti ma mascherate che il concettone nasconde – per provare a immaginare una prospettiva che affianchi alla basilare idea di ribilanciamento degli sforzi anche una comprensione meno “meccanica” delle fatiche.
Il perno continua ad essere la scelta, secondo me. Si può scegliere se ci sono alternative. Si può scegliere se esiste un margine di manovra e se resta energia da convogliare in una determinata direzione. Si può scegliere quando ci si rende conto che l’orizzonte dovrebbe essere comune – e raggiungibile da entrambe le parti in causa. Una riflessione sincera, utile, liberatoria e pragmatica che sarebbe bello non leggessimo soltanto noi… WINK-WINK.

[Bonus-track: Bastava chiedere di Emma, il fumetto che ha recentemente rianimato il dibattito sul carico mentale.]

 

Il fatto che nel nostro immaginario esistano Lila e Lenù – e che spesso e volentieri si sia approdati e approdate al resto della produzione di Elena Ferrante dopo aver letto L’amica geniale – genera indubbiamente un impulso quasi inevitabile al confronto, al parallelismo, alla comparazione, alla ricerca di temi comuni e del riflesso condensato di qualcosa di più vasto che vediamo gonfiarsi e propagarsi nelle anime della quadrilogia.
Ecco, nella Figlia oscura ho ritrovato molto più di quel mondo di quanto mi aspettassi, forse anche perché sono fresca di Lenù televisiva che diventa madre e che, come quasi tutte le giovani madri di Ferrante, mal digerisce il ruolo e ancor peggio accoglie la trasformazione. L’arrivo dei figli, qui come per Lenù o Lila, continua a comprimere identità e lavoro in una sorta di tenaglia che spreme capacità e intelligenze pregresse, riducendole ai minimi termini e tirando fuori quelle frustrazioni e quelle meschinità istintive che minano alla base la propensione ad accudire.

La figlia oscura - Elena Ferrante

Questo romanzo, pur nella sua relativa brevità, è di una potenza devastante. È come se individuasse i nuclei più problematici di Lila e Lenù per assegnarli a una protagonista anagraficamente più “grande” e meno impantanata in rioni, famiglie e origini da ripudiare o riconquistare, ma solo in superficie pacificata dal tempo. È una donna che ha tentato di tenere a bada la frantumaglia – già, anche qui – di identità che deformano la ricerca principale di chi siamo e che, negli anni, si è resa conto di aver bisogno dell’esistenza da cui credeva di dover scappare. Non è né una vincitrice né una sconfitta, non è virtuosa e non è buona, esige con inquietudine ondivaga uno spazio da riempire con più pezzi di lei di quanti ce ne stiano. Ma come si continua a vivere, quando ci si accorge che con tutti questi pezzi non si costruisce di più di quello che si ha già?

Per dovere di cronaca, una rapida ricognizione di quel che materialmente comincia ad accadere in questo libro. Leda, di base, va al mare. Prende una casa in affitto per conto suo – le figlie sono cresciute e si sono ormai trasferite in Canada col padre da un pezzo – e va in spiaggia con un po’ di libri e nessuno a cui badare. Insegna all’università, ha corsi da preparare e ricerche da portare avanti. Pare tutto tranquillo, ma in spiaggia arriva una grande famiglia rumorosa – quei “napoletani” dall’invadente e minacciosa cordialità che Leda sa inquadrare con precisione, perché da lì è spuntata anche lei -, una bambina “perde” una bambola e la nostra protagonista spalanca un vaso di Pandora di ricordi, fatiche comparate, sguaiataggini, omissioni sempre più ingestibili, mariti, prole, carriere accademiche, rimpianti, gente pericolosa e trappole domestiche. Leda sparisce a intermittenza, sia dalla spiaggia che dagli snodi cruciali della sua vita passata  – e mai sapremo se la sua mancanza sia stata avvertita con la medesima intensità che ha accompagnato la repentina scomparsa di quella bambola lercia, malconcia, eccessivamente umanizzata e piena d’acqua sporca di mare… ma amatissima. Come uno specchio, uno scudo, una zavorra che nel capirla meglio si fa più leggera. Si fa nostra. Anche se ci trascina sul fondo.

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Leda è una di quelle protagoniste che potrebbero farvi esclamare “no, è un brutto romanzo. Lei è troppo spiacevole. Come si fa”. Resto convinta che è con le brutte persone che si facciano i bei libri e vi esorto a dare a Leda una solida possibilità, soprattutto se avete apprezzato la quadrilogia. Dalla Figlia oscura è stato anche tratto un film – con Oliva Colman e l’esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal – che sicuramente vedrò, per quanto il cambio di “scenario” piuttosto radicale mi allarmi. Ultima nota sul fronte della “fruizione”, potete leggerlo o ascoltarvelo in audiolibro come ho fatto io – lo trovate su Storytel con la voce sempre calzante di Anna Bonaiuto. Per provare il servizio, vi ricordo come di consueto il link per il mese gratuito.

 

I fumetti si confermano un luogo efficace per affrontare l’argomento della maternità, soprattutto per quanto riguarda quel limbo complicato di trasformazione fisica e identitaria che si attraversa nei mesi immediatamente successivi a una nascita. Prendo spunto da una lettura recente, La sostituta di Sophie Adriansen e Mathou, per assemblare una piccola lista di narrazioni disegnate che in questi anni ho trovato preziose per esplorare il territorio della maternità e della genitorialità in generale.
Come spesso accade, non è necessario andare alla rigorosa ricerca dell’immedesimazione perfetta, ma mai come in quegli ambiti ancora soggetti a una forte attitudine collettiva al giudizio – più o meno corroborato dall’umana sensibilità e dall’empatia che ogni tema delicato meriterebbe – è prezioso poter contare su prospettive che sfiorano anche gli anfratti meno luminosi di uno specifico fenomeno. Siamo collettivamente educati ed educate a dimostrare competenza, padronanza della situazione, ottimismo e solide capacità, a impegnarci per superare le difficoltà e a non alzare disonorevoli bandiere bianche. Il trauma è un banco di prova, un’occasione per dar mostra di caparbietà, spirito di sacrificio e indomito coraggio. Si può fare tutto, se lo si desidera abbastanza e un’eventuale sconfitta (sovente assai più probabile di un trionfo) si trasforma in colpa, in una testimonianza di inadeguatezza o di demerito. In questo trappolone precipitano anche le neo-madri? Certamente, Vostro Onore. E probabilmente ci precipitano in maniera ancor più rovinosa e potenzialmente dannosa rispetto a quello che ci tocca in qualità di abitanti “normali” di quest’universo collettivo. Alle madri si fanno pochi sconti e perseveriamo nel trascinarci dietro un lungo e ingombrante retaggio popolato da angeli del focolare e sante martiri. Senza dilungarmi in ulteriori pipponi, ecco qua qualche potenziale lettura che può accompagnare – o aiutare a comprendere meglio – cosa succede mentre cerchiamo di assestarci e, soprattutto, di perdonarci quando non ci sentiamo brave abbastanza.

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La sostituta - Sophie Adriansen-Mathou - copertinaCon La sostituta – in libreria per BeccoGiallo –, una scrittrice e un’illustratrice uniscono le forze per raccontare un periodo di assestamento non idilliaco o consolatorio, ma pieno di quei dubbi che sintetizzano lo scontro tra aspettative e realtà, senso d’inadeguatezza e nuove responsabilità, istinto e paura di non essere all’altezza, pressioni “esterne” e sensazioni intime.

Non si tratta di “vendercela” bene o male, di atterrire con un eccesso di franchezza le aspiranti madri volenterose o di metterla giù dura per amore della spettacolarizzazione anche traumatica di un momento complesso, ma di prestare ascolto e restituire dignità a quel che si discosta da romanticizazzioni forzate o dall’obbligo di nascondere una difficoltà per non sentirsi ancor più “sbagliate”.

Il celebre e sempre celebratissimo “istinto materno” è azionato da un infallibile interruttore che si attiva nell’istante esatto della nascita? Quella sicurezza inscalfibile nelle proprie capacità è un congegno che si innesca immediatamente?
Per la mamma di questa storia – che arriva “felice” al parto dopo una gravidanza desiderata, all’interno di una coppia solida e unita da un grande amore e da una quotidianità appagante – c’è ben poco di automatico. Marketa passa mesi in compagnia del fantasma di una mamma perfetta – “la sostituta” del titolo – che altro non è se non la proiezione ideale di quel che vorrebbe fare ma non le viene, il prototipo della puerpera radiosa e straripante d’affetto che non fa fatica ad assimilare i cambiamenti, accetta il suo corpo senza battere ciglio (anzi, torna praticamente subito “come prima”), pare immune a stanchezza e dolore fisico e, soprattutto, è capace di gestire la situazione con accecante ottimismo e mano ferma.

Oltre alla cronaca pratica di quel che capita a Marketa, Clovis e alla minuscola Zoe, al cuore di questo fumetto c’è uno dei più avvincenti misteri che si affacciano alla vigilia di ogni grande evento che altera lo status quo: come la prenderemo, chi diventeremo. Si ascolta più volentieri chi non alza la mano per manifestare un disagio e si accoglie con più semplicità chi “sta bene”, forse. Ammettere che questo “stare bene” non è necessariamente un merito o un fattore che ci connota come esseri umani migliori – dotati o non dotati di prole – credo sia un buon passo per dare spazio senza stigmi anche a chi non sta beneficiando del medesimo stato di grazia. Perché si è più propensi a chiedere l’aiuto che serve (e a riconoscere di averne bisogno) quando il contesto che ci ospita non tratta con sufficienza o con intransigenza una difficoltà, convincendo anche noi di sbagliare se non ci sentiamo sufficientemente capaci.
Non ce la fai? Va così perché non sei abbastanza brava, non perché stai oggettivamente facendo una cosa difficile che può metterti di fronte a ostacoli e intoppi.
Accogliere un’esperienza di maternità che ingrana superando scogli più ditti e aguzzi di quanto ci sembri più rassicurante ritenere “normale” non toglie nulla alle puerpere felici ma, di certo, alleggerisce il bagaglio di quelle a cui sta andando (o è andata) meno liscia.

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Lucy Kinsley ha un tratto adorabile e la limpida capacità di scomporre con chiarezza e sentimento le cose “difficili”. In Molto più di nove mesi non racconta soltanto quello che accade dopo la nascita del suo biondissimo Pal, ma anche il percorso accidentato che ha preceduto il suo arrivo.
La narrazione è inframezzata da approfondimenti sul funzionamento del nostro corpo, informazioni sulla gravidanza e riflessioni sociologico-sistemiche sulla genitorialità e le trasformazioni della coppia. Per quanto si capisca già dalle prime pagine che un bambino alla fine è arrivato, Kinsley dedica ampio spazio alle fasi della gestazione e alle conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto spontaneo che ha subito prima dell’arrivo di Pal. Kinsley si concede il margine di manovra necessario a metabolizzare il colpo subito e, tra emotività da ricomporre e razionalizzazioni non sempre semplici da digerire, ci fa da guida in quel limbo di incertezza (e di fallimento) che precede il concepimento e che spesso le coppie affrontano isolandosi e negando dolori e legittima frustrazione.
È un libro che può contare su un senso dell’umorismo delicato, capace di rischiarare anche le parentesi meno liete. Ma è anche un libro spigoloso, che non indora la pillola e ha il coraggio di chiamare le cose orribili col loro nome.

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Marion Fayolle è una disegnatrice di relazioni. Tra cespi d’insalata ed evocativi lumaconi si è già occupata di coppie e sessualità e, in questo silent-book, ci trasporta sul pianeta dei figli. Talvolta sono giganteschi e ingombranti, altre volte fungono da collante o erigono barriere, giocano con i nostri pezzi o ne portano alla luce di nuovi. Modificano il paesaggio attorno a loro e producono nuovi equilibri. Senza bisogno di parole ma avvalendosi di immagini evocative e argute, Fayolle mappa la cura e la crescita di una famiglia intera che si destreggia in un paesaggio affascinante, accidentato e complesso, tra istanze protettive, nevrosi che proiettiamo su chi ci circonda e serenità ritrovate.

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Cenni rapidi ma attinenti.
Di Pigiama computer biscotti parlo spesso perché Alberto Madrigal produce su di me un effetto rassicurante. Qua racconta il suo apprendistato da papà con candore benevolo e disarmante sincerità: chi può insegnarti a crescere un figlio? Sarò capace di dargli tutto l’amore che merita? Ha senso percepirmi come uno che si limita ad “aiutare”? Cosa succede alla routine lavorativa, soprattutto per chi fa un mestiere creativo? Tra ricerca di nuove fonti di ispirazione, riclassificazione delle priorità e momenti di limpida meraviglia, Madrigal riordina i ricordi e schiude per noi uno spiraglio di calore.

Visto che un papà l’abbiamo incontrato, mi viene spontaneo piazzare qui anche Bastava chiedere. Le dieci storie che Emma raccoglie in questo volume palano di femminismo e di assurdità quotidiane con cui ancora ci tocca scontrarci. Il capitolo più “famoso” e di cui forse si è discusso di più è quello sul carico mentale. Non c’è stortura mappata in questo libro in cui io possa dire di non essermi immedesimata, ma è stato il capitolo sul carico mentale a far scattare quella scintilla di riconoscimento ulteriore che mi ha aiutata ad esternare davvero alcuni bisogni che inconsciamente stavo insabbiando. Ed è capitato proprio negli anni successivi all’arrivo del mio bambino, un momento che penso per molte tenda ad accentuare disparità già presenti ma probabilmente meno pesanti da gestire. Discutere di una fatica è faticosissimo, farla riemergere dal sommerso e non darla più per scontata – o non assumersene la responsabilità in maniera automatica, quasi con determinismo biologico – può creare fratture e disarmonia, ma alla lunga può salvare davvero e creare mondo più abitabile (per mamme e non).