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lutto

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Non so come sia crescere in una casa piena zeppa di fratelli e sorelle. Forse si impara a fare un gran chiasso per emergere in quel pandemonio di altri bambini, calzini, piatti e carabattole – specialmente se i genitori che ti toccano somigliano un po’ a quelli di questa storia. O forse ci si ritira nel proprio guscio come chioccioline pazienti, perché gestendo un perimetro più piccolo si può imparare a sottrarsi al caos circostante o a patire di meno la noncuranza dei grandi. Non si sa nemmeno se i grandi, qui, siano sbrigativi e distaccati per necessità pratiche o per indole, ma tra i figli che ci sono già e quelli che arrivano a ciclo continuo resta più margine per il lunario da sbarcare che per grandi slanci sentimentali. Le braccine dei bambini servono ad aiutare e grava sulla casa una cappa di disordine, di fatica rassegnata, di uomini che perdono bestie utili a carte e che quando escono chissà dove vanno.

La bambina silenziosa di Un’estate – piccolo gioiello di Claire Keegan in libreria per Einaudi Stile Libero con la traduzione di Monica Pareschi – si prepara a cambiare aria per un po’. L’ennesimo fratellino sta per nascere, la mamma sarà indaffarata e un’estate senza scuola è lunga da sfangare. La bambina viene caricata in macchina e portata dai Kinsella – una coppia insieme vicina e lontana alla famiglia. Mandano avanti una fattoria prospera e, anche se si fanno un mazzo così, la bambina intravede in loro una serenità che non conosce e che non è abituata a “sentire”. Saranno davvero così contenti? È possibile che decidano di cacciarla via all’improvviso? Perché l’estate non può durare per sempre? Perché sono così diversi dai suoi genitori?

È una storia fatta di gesti semplici e di parole misurate, delicatissima nel rivelare pian piano una ferita insanabile. Ci vuole coraggio a voler bene di nuovo così come ne serve tanto per lasciarsi amare, se raramente qualcuno si è preso cura di noi. E quell’amore “di base”, così ovvio ma anche elusivo, può attecchire fortissimo anche se mancano legami di sangue, rivendicazioni di “proprietà”.
Si legge in un paio d’ore – meno di quanto occorre a preparare una crostata al rabarbaro, penso -, ma credo vi farà compagnia a lungo, consolandovi anche un po’. Perché sì, comunque vada, l’amore che si riceve non si dimentica.

[Ma c’è altro di Claire Keegan? Certo, ecco qua Piccole cose da nulla.]

The End di Anders Nilsen – in libreria per Add con la traduzione di Francesco Pacifico – ha conosciuto diverse iterazioni, revisioni e limature. Descrive un sentimento complesso – la perdita – e l’ha fatto negli anni cercando di rendere giustizia ai nuclei più significativi di quella circostanza, avvalendosi di volta in volta di quel prezioso “senno di poi” a cui sarebbe bello potersi appoggiare per non affrontare con strumenti irrimediabilmente inadeguati il peggio che può succederci. Ogni lutto è di tutti, perché la morte è un destino comune, ma chi rimane lo assorbe come se fosse un evento unico e incomparabile rispetto alle esperienze altrui, perché quel che perdiamo non è un concetto astratto ma una persona vera, che ha occupato uno spazio “pratico” e ideale nel nostro orizzonte concreto.

Nilsen ha messo insieme The End, disegnando e scrivendo, dopo la malattia e la morte della sua fidanzata – una morte che tenderemmo a definire inopportuna e precoce, data la giovane età – nel tentativo di ricavarci consolazione e anche una sorta di messaggio “universale” capace di attutire l’insensatezza delle condanne irreparabili e arbitrariamente distribuite. Tra metafore visive e documentazione delle minuzie di una quotidianità che pare aver smarrito il suo centro, Nilsen analizza il rapporto con un’assenza inaccettabile e con la fatica di abitare un presente monco, perché per concepirci davvero nel punto mediano tra passato e futuro deve esistere un futuro possibile, una vita da costruire con la persona che amiamo e che non c’è più.

È legittimo continuare a vivere? È rispettoso? È auspicabile? Nessuno verrà a rilasciarci un’autorizzazione in carta bollata, ma quel che si apprende qui è che abbiamo tutti diritto a dettare delle condizioni di sopravvivenza “gestibili” e che, molto spesso, è complicato lasciar andare il dolore, perché il dolore riempie ed è pur sempre meglio del vuoto completo.
Non è un libro allegro, ma è onesto e prezioso proprio per la testimonianza di lungo periodo che offre, per il discorso che si sviluppa facendosi sempre più rarefatto e libero dal caso specifico, nella benevola ambizione di poter diventare fonte di conforto in una moltitudine di altri casi. Non si dimentica, ma si impara a tenere la fiamma accesa e a portarla vicino al cuore, dove ci scalda anche se non produce più la luce brillante e visibile che eravamo abituati a seguire.