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I “libri-esperimento” mi piacciono quasi sempre. Che sono? Sono quei libri che raccontano un’impresa individuale e che, nel delinearne una sorta di cronaca o di diario di bordo, esplorano anche un tema specifico e cercano di documentare un percorso di trasformazione. L’esperimento che Pietro Minto si infligge in La seconda prova – in libreria per le Frontiere Einaudi – riguarda la matematica: da pessimo studente dello scientifico che è stato, Minto si mette in testa di imparare da capo e “da grande” la matematica delle superiori. Vuole scoprire che cos’è andato storto, vuole capire se ne sarà capace, vuole vendicarsi, cerca una rivincita o anche solo una risposta. Cos’è che non digerivo? Perché ho sempre fatto così fatica? Il mio cervello riuscirà finalmente a far pace con gli integrali?

Io e Minto abbiamo in comune la scelta scriteriata del liceo da frequentare. Era chiarissimo che le mie attitudini puntassero altrove e già dalle medie la matematica era la mia materia più debole, ma eccoci qua iscritte a una bella sperimentazione Brocca.
Vai, Francesca, vedrai che ti fortifica.
Mi son diplomata con 95 perché prendevo dei 6 risicati nelle materie d’indirizzo – con tanto di ripetizioni da due professoresse gemelle che insegnavano entrambe matematica e avevano sempre la casa piena di derelitti tipo me – ma andavo così bene in tutte le altre che in qualche modo ce la siamo cavata. In prima ho beccato il debito, in seconda no perché il professor Torre è andato in pensione e credo non avesse più voglia di pensare a noi. Dalla terza in poi son stata a galla riuscendo a padroneggiare il TEMA X esattamente un mese e mezzo dopo la verifica sul TEMA X. Insomma, non capivo col giusto tempismo e non ho mai capito niente, ma prima o poi riuscivo almeno a simulare una vaga padronanza dell’argomento: non so cosa sto facendo ma c’è della roba che posso imparare a memoria e piuttosto crepo ma è a quello che devo aggrapparmi. “Ma quindi… con voi è così? Scusatemi, non ci ho mai voluto credere” è stato a grande linee quel che ha detto la mia professoressa di italiano ai suoi colleghi delle materie d’indirizzo alla fine dell’orale della maturità. Io alla seconda prova ho preso un miracoloso 11/15, perché ho disegnato una funzione mostruosa ma immagino di aver avuto miglior fortuna coi problemi. E non ho pianto perché era già tutto totalmente irreparabile, cosa piangiamo a fare.

Insomma, questo sconclusionato amarcord serviva a esprimere la mia profonda vicinanza nei confronti di Pietro Minto. Io so chi sei, Pietro. Il tuo disorientamento è anche mio. Invece di farsi diagnosticare una sindrome discalculica – giuro, ci ho pensato, perché troverei conforto in una spiegazione clinica -, Minto ha deciso di riprovarci e si è messo a ristudiare da capo TUTTA la matematica della scuola. Pazzo? Masochista? Eroe? Chissà. E io, che con Ruffini al massimo mi sono scomposta la voglia di stare al mondo, ho letto con sincera partecipazione questa avventura assurda. Con una certa dose di tifo, addirittura. Mentirei se vi dicessi di aver capito delle cose che mi sono sfuggite in gioventù – mi dispiace, Pietro, tu sei stato molto chiaro nell’illustrare i concetti ma temo che il mio problema sia troppo profondo – ma ho apprezzato la componente “personale” e anche le incursioni storico-divulgative. Scorgere della passione, uno slancio risolutivo, il tentativo autentico di sconfiggere un demone antico è stato corroborante. Sono felice per Pietro Minto perché forse ha fatto – a scoppio ritardato – quello che mi è sempre stato rimproverato di non saper fare: metterci costanza, impegno, convinzione. Mai mi son sentita poco convinta come quando una ventina d’anni fa, alla lavagna, ho annunciato SCOMPONGO CON RUFFINI O ALMENO SPERO, ma che Minto lo sappia fare mi riempie di gioia. Io sto bene così. E spero che i miei bambini non mi chiedano mai di aiutarli coi compiti di matematica.

E’ una bella giornata, c’è il sole e il resto. Il tipo di giornata che ti fa pensare che va tutto bene. La giornata sbagliata per questo, sbagliata per noi che siamo stati insieme quando pioveva sempre, dal 5 ottobre al 12 novembre. Ma adesso siamo a dicembre e il cielo è limpido e mi è tutto chiaro. Ti dico perché ci siamo lasciati, Ed. Te lo scrivo qui, in questa lettera, tutta la verità del perché è successo. E la stramaledetta verità è che ti ho amato tantissimo.

Daniel Handler, “Perché ci siamo lasciati”
Salani Editore

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Daniel Handler di solito va in giro a dire di chiamarsi Lemony Snicket e gli piace tantissimo far succedere cose agghiaccianti agli orfanelli. Orfanelli che non solo soffrono, ma vengono anche presi per mitomani per un buon tre quarti dei tredici libri che li vedono protagonisti. Loro e quel gran bastardo del Conte Olaf. Ma non siamo qui per compiangere i poveri fratelli Baudelaire, anche se si meriterebbero tutta la nostra solidarietà… dall’alba al tramonto. Siamo qua perché Lemony Snicket ha scritto 360 pagine di croccantissimi spezzamenti di cuore. Spezzamenti di cuore che vi faranno ricordare tutte le vostre disgrazie, ma al momento giusto… perché adesso è tutto passato e ci potete quasi ridere sopra. Per dire, a me sono tornate in mente centoseimila cose spiacevoli che cerco di dimenticare da quasi un decennio. Ma che cosa capita, in questo libro che vi farà preoccupare molto e sperare di aver bruciato tutte le vostre fotografie del liceo?
Succede che c’è Min che mette tutti i ricordi della sua storia con Ed dentro a un grande scatolone e va a scaricarglielo davanti alla porta di casa.
All’apparenza, Min non ha niente di speciale. Anzi, sa un po’ troppe cose per essere una ragazza popolare. È fissata col cinema e con i vecchi film, beve caffè con panna e tre cucchiai di zucchero e le piacerebbe fare la regista.
Ed è un bellone, vicecapitano della squadra di basket – con relativo stuolo di ragazzine che gli tirano dietro le mutande di pizzo – e una mandria di amici che si sbronzano ai falò post-partita e ruttano in coro la Nona di Beethoven.
Ed e Min sono sbagliatissimi, insieme. Non hanno niente in comune. Ed non capisce le battute di Min. A Min fa schifo il basket e ha sempre pensato che la cosa più triste del mondo sia andare sulle gradinate a vedere il proprio fidanzato che cerca di fare canestro. Eppure, c’è dell’eppure. Una sera Ed arriva – senza invito – al compleanno del migliore amico di Min e, tra una torta al cioccolato troppo amara per essere mangiata e un paio di birrozzi – che Min svuota nell’erba perché le fa schifo pure la birra – finisce a bigliettini con “Non riesco a smettere di pensare a te” e ciao, è amore. ADDIO.
Il libro è fatto di tutto quello che Min si ricorda di lei e di Ed. Di tutto quello che è successo nella loro storia-meteorite e delle cose che le sono rimaste in tasca, o nella borsa o nel cuore in quel breve periodo passato insieme. Ogni oggetto che Min restituisce – un cappotto comprato in un negozio di seconda mano, i biglietti del cinema del loro primo appuntamento, degli assurdi tagliauovo cubici, roba così – si trasforma in una spiegazione del perché è tutto finito. E finisce per qualcosa che tramortirà sia Min che voialtri. E ci rimarrete male. Malissimo. Perché dopo un po’ ci crederete anche voi, che magari le cose potrebbero aggiustarsi. Che tutto quel super-amore non andrà davvero a farsi benedire.
Il libro è accompagnato – anzi, è più che accompagnato – dalle bellissime illustrazioni di Maira Kalman, che ci fa vedere tutto quello che Min ha buttato nella scatola, capitolo dopo capitolo.

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Insomma, indipendentemente dal livello di felicità delle vostre adolescenze, fatevi del male con Ed e Min. Sarà un esercizio salutare. Vi farà venire in mente tutto quello a cui siete sopravvissuti. E sarete contentissimi di non doverne più sapere niente. Anche se, a voler proprio essere sinceri, ci saranno anche molti stomaci pieni di farfalle che avevate dimenticato… e torneranno a galla anche quelli. Che poi, quegli stomaci lì, erano anche un po’ il motivo di tutta la fatica che avete fatto.