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granchi tegamini

Se siete stati attenti e seduti belli dritti, saprete di certo che su Tegamini c’è una paginina con un elenco di libri ragguardevolissimi. Sono assai fiera delle mie recensioni delle cose da leggere… mi sembra di servire a qualcosa. Ecco, ma allora non passo proprio tutto il tempo a dire delle stupidaggini! Consiglio anche dei fantastici libri! Non sto qua a lagnarmi e basta, genero CULTURA. Dov’è il mio invito al party dell’Accademia dei Lincei?
Molto bene.
L’estate si avvicina, le celluliti fremono, le zanzare ci assalgono, i MOITI si moltiplicano e le pubblicità dei deodoranti impazzano – “Più sudi, più sai di fresco!”… Se qualcuno è riuscito a trasformare il sudore in freschezza me lo dica, poi, che la mia è proprio curiosità scientifica. Insieme all’eterno ritorno – su ogni genere di settimanale e mensile – dell’impraticabile e stupidissima Dieta del Gelato, in questo periodo salta fuori anche un’altra faccenda, che non si sa bene se sia vera o no. C’è questo mito che in vacanza tutti leggono perché – finalmente – hanno il tempo di farlo. Gente che non sfoglia neanche la Gazzetta al bar che, all’improvviso, sostiene di voler andare in ferie solo per spararsi un mattone di 800 pagine dopo l’altro. Vado a Ibiza coi miei amici. Niente, ci siamo io, Bomber, il Manfo, Poldino e il Lollo. Ma i culetti sodi non ci interessano. Andiamo a Ibiza per stare sul balcone a leggere il grande romanzo americano. O Guerra e pace, finalmente. Non si limonerà mai, ma sarà l’estate più bella di sempre. Ecco. Per risultare credibili, intanto che siete lì a dire delle enormità del genere, vi conviene pianificare un po’. Perché l’editoria è vasta e infida, e non potete mica telefonare a Baricco ogni volta che vi smarrite. Insomma, cosa sarebbe saggio leggere? Io non ne ho la più vaga idea, onestamente, ma posso dirvi che cosa è piaciuto a me (più o meno di recente). Allo scopo, potete andarvi pescare qualcosa dalla sempre fantasticissima Pagina Tegaminica della Suprema Utilità Letteraria o spulciare un po’ i libri che vi appiccicherò qua sotto. Ed è subito Pietro Citati.
Procedo, và, che poi avete da comprare i solari e creiamo ingorgo.

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Aleksandar Hemon
Il libro delle mie vite
Einaudi
Traduzione di Maurizia Balmelli

Aleksandar Hemon è un po’ un miracolo, secondo me. Il libro delle mie vite è un’autobiografia a racconti, è un giro nella stranissima vita di una persona che ne vede di tutti i colori. C’è l’amore, c’è lo sradicamento, ci sono mille problemi d’identità, c’è la guerra e ci sono momenti di una gioia così limpida che ti siedi in terra e dici ma perché non ci vado anch’io, a giocare a pallone al parco con degli sconosciuti. E alla fine ci si commuove profondamente e ci si dispera come ci si dispererebbe per qualcuno a cui vogliamo bene. Hemon dice le cose in una strana maniera. Se vuole parlarti, che ne so, di un cuore, inizierà dai remoti capillari che ti si rompono dietro al ginocchio. Se vuole parlarti, che ne so, di Sarajevo che cade a pezzi, inizierà dai cani che ha avuto nella vita. E si capirà tutto lo stesso. Anzi, si capirà meglio.
Vi consiglio con passione e grandi scuotimenti di pon-pon anche Il progetto Lazarus, ma vi va di lusso anche se cominciate da qui. Che poi a settembre arriva Amore e ostacoli, che sarà altrettanto mirabile. Fate riscaldamento.

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Shirley Jackson
Abbiamo sempre vissuto nel castello
Adelphi
Traduzione di Monica Pareschi

Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!

Se la vostra famiglia vi sembra un casino, non siete ancora andati a cena a casa Blackwood. E se il vostro paese vi sembra un orripilante covo di bastardi ignoranti e impiccioni, non avete ancora conosciuto i concittadini di Merricat e Connie.
Uno spasso, insomma.
Perché, adesso che ci penso meglio, mi è tutto più chiaro. Questo qua è un libro sulla tortura psicologica, la follia, la solitudine, l’invidia e l’emarginazione. Solo che è bello da leggere e pieno zeppo di ammirevoli ingranaggi di una precisione quasi inquietante. Che è una discrepanza che può trarre in inganno, ogni tanto. Constance e Mary Katherine vi spaventeranno a morte – mica serve un’abbazia falciata dalle intemperie per inventarsi due perfette eroine gotiche -, ma sarete ben contenti di accompagnarle a raccogliere l’insalata mentre tutto precipita, si sbriciola e si fa sempre più intollerabile. Voi, in barba al senso di minaccia incombente (giuro, non ho mai visto tanta roba che incombe come in questo libro), gongolerete. Ma è meglio se non tirate sassi.

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Anthony Marra
La fragile costellazione della vita
Piemme

La guerra in Cecenia! Repressione! Povertà! Un freddo boia! Tortura! Soldati che ti bruciano la casa! Punti di sutura col filo interdentale! Spioni! Contrabbando!
Come potete chiaramente vedere, Piemme ha cercato di buttarla un po’ sul ridere. Bei colorini in copertina, bimbe e anemoni di mare. Che poi è tutto vero, tecnicamente, ma non è che regni proprio la spensieratezza. Lì per lì non c’è molto da stare allegri, ma vi accorgerete all’istante che saranno i protagonisti – nonostante abbiano già le loro belle sfighe – a tenervi su. Sono tre figure quasi mitologiche, nella loro forza, innocenza e imperfezione. E Marra fa dei numeri non indifferenti per farci capire chi sono davvero e come siano riusciti ad arrivare fin lì. Le strade, gli eventi e le coincidenze che li portano ad incontrarsi – con tutta la conoscenza e le cicatrici che comportano – riescono a dare un senso anche alla tragedia peggiore, riordinano sentimenti e idee. Perché tutti quanti – anche quelli che somigliano di più a delle comparse – sono personaggi ricchissimi, gente che ti interessa, che vorresti sapere come sta. Oltre all’ingente partecipazione umana che suscita, questo libro bisognerebbe leggerlo anche solo per la struttura. Ci sono degli incastri meravigliosi. Ti metti lì e dici proprio ma che bello, allora è così che è andata. Forse fa anche diventare coraggiosi, questo libro.

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Philipp Meyer
Il figlio
Einaudi
Traduzione di Cristiana Mennella

Oltre ad un affascinante corso accelerato su come diventare indiani e/o trovare il petrolio, questo libro è una specie di monumento. È un’avventura epica, la storia di una famiglia lungo tre generazioni e un ritratto dell’America che cambia. È brutale, schietto, nemicissimo dei luoghi comuni e delle polpettonate auto-consolatorie e scritto in una maniera straordinaria. Le voci sono tre – il capostipite, il figlio rinnegato e l’ultima erede dell’impero – e ogni capitolo è un nuovo frammento della loro vita e, insieme, dell’epoca che abitano. Anzi, ogni capitolo è un po’ un pozzo piantato in mezzo a una di quelle pianure vastissime, con il cielo che sembra fuori scala. E in fondo ai pozzi ci sono delle anime molto pesanti, che fanno di tutto per rimanere a galla.
Bonus track: per capire meglio che cosa si prova, Philipp Meyer ha davvero scuoiato un bisonte e mangiato non so più quale organo interno della derelitta bestiona. Si è anche costruito un arco. Nulla si sa su come abbia digerito o sulla sua mira, però.

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Sylvia Plath
The Bell Jar
(questa qua è l’edizione Harper dei cinquant’anni)

Di Sylvia Plath sapevo tre cose in croce (quelle che sanno tutti, immagino), ma non l’avevo mai letta. Neanche le poesie, Tumblr a parte. Sentendomi in difetto nei confronti di Lisa Simpson, che con The Bell Jar ci si sventolava alle elementari, ho deciso di cominciare da qui. E non mi aspettavo che fosse così bello. Così “vicino” e moderno, anzi. La Plath me l’immaginavo molto più parruccona e ingessata. Un po’ aulica, pure. Sono scema io, che associo la poesia a roba che fa fare fatica. Eh, il romanzo di una poetessa, sarà un pacco. E invece no, mi è piaciuto immensamente… e mi sono anche andata a cercare i rimandi autobiografici, con la mamma che scrive all’editore che sarà un casino, se lo pubblicheranno negli Stati Uniti, e tutta la faccenda delle giovani donne super promettenti che vanno a lavorare a New York. Sono così contenta di averlo letto che non voglio farvi prendere male con la storia – “brillante studentessa cerca d’ammazzarsi e finisce in manicomio”, vedo già partire la ola -, ma vi basterà sapere che anche le tristezze più nere, se raccontate così, diventano qualcosa che vale la pena affrontare.

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George Saunders
Dieci dicembre
minimum fax
Traduzione di Cristiana Mennella

Va bene, va bene, l’avete già letto tutti. Ma lasciatemi divertire. Lasciatemi dire che io Saunders già l’avevo scoperto con Il declino delle guerre civili americane, in un momento di folle e limpida lungimiranza. Le adoro le storie surreali. Mi piacciono le meditazioni sghembe su chi siamo e su cosa desideriamo. Mi piacciono i racconti con le persone “normali” che cercano di fare del proprio meglio – finendo solo per peggiorare le cose -, mi piacciono i racconti-boomerang, coi disastri che incombono nonostante l’impegno, il coraggio e l’amore. Sarà che mi aspetto sempre che un pianoforte mi precipiti sulla testa, sarà che Saunders ha un occhio magicissimo per gli eventi minuscoli pronti a trasformarsi in valanghe, sarà che inventarsi un mondo in cui le belle ragazze indigenti si fanno appendere agli alberi come decorazioni da giardino è piuttosto interessante, insomma, non so bene il perché, ma questa raccolta è speciale, indipendentemente da quello che vi mettono nella flebo.

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Può andare?
Vi garbano?
Vi sentite meno perduti?
Stavate bene anche prima?
Leggerete sul serio?
Farete buone vacanze?
Siete pronti a giurare solennemente che no, voi il magazine di Barbara D’Urso non lo comprerete mai?
Non so come finirlo, questo post.
Spero di avervi consigliato bene. Mi siete simpatici, ecco perché nell’agile lista non c’è neanche una polpettonata tipo Il cardellino. Tante cose mediamente rapide e assolutamente folgoranti da leggere a rullo, come meritano. Che fa anche un casino autostima, leggere a rullo (voi e i vostri amichetti sul balcone di Ibiza). Insomma, spero vi divertirete. E se avete voglia di raccontare al mondo che cosa metterete in valigia, ci sono sempre i rutilanti commenti.

Fate finta che quella copertina lì sia uno scherzo. Non fateci caso, se potete. Copritela con qualcosa di elegante e arguto, tipo una volpe che vi guarda mentre prendete il tè in giardino. Ricordatevi il parasole, se ce l’avete… è anche vero che passerà di moda man mano che girerete le pagine, ma per qualche tempo – anzi, a intermittenza – potrà tornarvi utile. Grazie al cielo, però, non è neanche così importante che il fuori di questo libro somigli al dentro, perché il dentro vi stupirà comunque. Qua dalle mie parti di di Kate Atkinson non s’era ancora letto niente, quindi non so granché stabilire se pure gli altri suoi romanzi siano così. Facciamo che me lo auguro, perché Vita dopo vita mi è proprio piaciuto. Sono quelle sorpresine che fanno bene a chi legge volentieri. È un romanzo delicato e strambo, di quelli che appartengono alla grande famiglia felice delle fantasticherie che invadono il concreto. E bisogna essere bravi bravi a scrivere, per far stare in piedi una storia del genere. Bisogna metterci tonnellate di particolari, bisogna descrivere le cose con precisione e rapidità – tipo uno che ti spara al momento giusto -, bisogna cacciarci dentro un po’ di cose che sono successe per davvero e, soprattutto, bisogna distribuire cuori e cervelli ai propri protagonisti. Vita dopo vita è una magnifica assurdità fatta di universi paralleli, che Ursula Todd – trascinandosi dietro l’intera famiglia e una girandola di comparse che si rifiutano categoricamente di farsi dimenticare, sia da lei che dai noi che leggiamo – percorre più o meno faticosamente, rimanendoci secca parecchie volte. Ursula nasce in una notte di neve e di scomodità. Muore ancora prima di venire al mondo, muore strozzata dal cordone ombelicale, muore perché il dottore e la levatrice, bloccati da qualche parte in mezzo alla campagna, non arrivano in tempo. Il tempo, però, decide di piegarsi a fiocco e di donarle sempre un’altra possibilità. Che si tratti di annegare su una spiaggia mentre fa i castelli di sabbia, di scivolare da un tetto o di beccarsi l’influenza spagnola da una domestica che è andata a divertirsi a Londra per festeggiare l’armistizio post-Prima-guerra-mondiale, Ursula riapre immancabilmente gli occhi. E la notte di neve continua ad essere la prima della sua vita.
Idea fascinosissima, soprattutto se – crescendo – sei una personcina che si accorge che il mondo non è proprio nuovo di pacca, e che certe catastrofi si possono magari evitare (o prevenire, per il bene di chi ci sta simpatico). La Atkinson fa capitare a Ursula le cose più disparate. Ci racconta quello che ha già vissuto cambiando prospettiva – venghino, siori, venghino! Non ci si annoia! Nemmeno quando si torna a un episodio che conosciamo! – e aggiunge, passettino dopo passettino, cambi di rotta piuttosto giganteschi o impercettibili variazioni. Passiamo da Ursula che si sceglie il marito sbagliato a Ursula che va in vacanza con Eva Braun (e il suo affabile fidanzato), da Ursula grigia-impiegata a Ursula-volontaria-londinese che tira fuori la gente dai palazzi bombardati. E non è mica come giocare con le Barbie, che cambiano abito ma rimangono sempre degli stoccafissi. Ursula accumula vite, senza perdere per strada quello che ha imparato. Non sempre è consapevole di quello che può fare, ma riusciamo sempre a riconoscerla, malgrado le circostanze e il tempo che passa. Quello che viene fuori, tra sfiga nera e pericoli scampati, è un puzzle circolare, un ingranaggio interessante fatto di caos, storia, fatalità, libero arbitrio e amore.
E caddero le tenebre.

 

michele mari roderick duddle tegamini

Dopo FantasmagoniaDi bestia in bestia, ho cominciato a pensare a Michele Mari come a una specie di destinazione turistica. Per la precisione, Michele Mari era diventato una di quelle grotte incredibilmente buie, ingarbugliate e interessanti che uno va a vedere quando è in ferie in qualche posto un po’ fuori mano. Quelle con un’escursione termica dentro-fuori di circa novemila gradi centigradi, le stalattiti e le stalagmiti che non smettono mai di crescere e ampi tratti ancora inesplorati, pieni d’acqua e assolutamente letali. In quelle caverne lì, che siano fatte di calcare o di chissà che altro, c’è sempre un sentierino calpestabile e moderatamente illuminato che serpeggia docile in mezzo a forme e strutture improbabili. A me, in quei posti, viene sempre in mente la roba da mangiare. Ci sono le formazioni sedimentarie a forma di cannelloni, ci sono quelle più grevi che sembrano dei mucchi di profiterole. E tutto sembra quasi innocuo, se per un attimo ti dimentichi che sei sottoterra, che c’è un freddo innaturale e che si scivola. O che dipendi dai quei quattro fari in croce puntati sul tuo sentierino, che sta in mezzo a chissà quali indicibili anfratti, in un labirinto di cunicoli, sale e abissi che mai potrai percepire nella loro interezza. La cosa peggiore, però, è sentire la guida che ti dice che là sotto c’è la vita. Al buio, nel silenzio più completo, ci sono delle cose vive.
Ecco. Michele Mari, per me, somiglia un po’ a un ecosistema sotterraneo di quel genere lì. Uno che scrive dei libri che se li apri in spiaggia viene nuvolo. E te rimani seduto sul tuo asciugamano e ti prendi il raffreddore, perché sei così travolto dalla meraviglia che ti dimentichi di metterti la maglietta.
…temo di aver rotto i coglioni con queste metafore. Anzi, come direbbe Salamoia, vi sto facendo venire uno scaciorbio, con le benedette metafore. E gli altri personaggi di Roderick Duddle gli darebbero ragione.
La Badessa, donna pratica e poco incline ai giri di parole, ordinerebbe al Probo di farmi sparire.
Il signor Jones, tanto per cominciare, mi metterebbe a servire ai tavoli.
Lennie non capirebbe che cos’è una metafora, ma forse mi regalerebbe un topolino morto da accarezzare.
Moriarty si approprierebbe dei miei pochi averi con un tortuoso ma impeccabile atto giudiziario.
Suor Allison, probabilmente, si alzerebbe le gonne.
Scummy commenterebbe con un laconico Yuk Yuk.
E Roderick? Roderick vorrebbe delle spiegazioni, credo. E un bicchiere di latte e qualche ossicino di gabbiano.
Ma voi, che magari siete personcine esigenti e ben abituate, potreste avere voglia di uscire dalle grotte – per quanto piacevoli e affascinanti – per mettere le mani su qualcosa di avventuroso, nobilissimo e perfettamente ingarbugliato, su una storia che sembra arrivata da lontano apposta per farvi divertire e per prendervi in giro. Dovrebbe venirvi voglia di leggere Roderick Duddle, secondo me, anche solo per annotarvi su un foglietto tutti i modi in cui Michele Mari sceglie di chiamarvi, o esigenti e sapidi lettori. Perché capita che uno scrittore, dopo un piatto di orecchiette salsiccia e ricotta, si diverta a inventare un romanzo d’appendice pieno di canaglie, equivoci, esecuzioni sommarie, intrighi, fortune contese, meretrici leggendarie, scarpe rotte, suore che vi menano con una spranga, cantine umide, strade costiere malfrequentate, gendarmi, avidi manigoldi, raggiri, bambini muti, scherzi della natura, polene e locande piene di scarafaggi. Imparerete un casino di insulti desueti, ammirerete la precisissima assurdità dell’intreccio e finirete per invitare qualche nuovo ospite ai vostri pic-nic. Perché Mari ha deciso di portare in vacanza tutti quanti i suoi mirabili mostri… e a voi conviene farveli amici, intanto che sono così di buonumore e villeggiano felici tra una pagina e l’altra di questo libro.

:3

P.S. se non siete tanto convinti – crastúmberli, com’è possibile! -, andatevi a leggere quest’intervista bella bella. C’è anche una mappa. E dove c’è una mappa, lo sanno tutti, c’è anche un tesoro.

Ci sono molte cose belle che uno scrittore può fare per te. Per dire, a me piace quando uno scrittore mi prende il cervello e ci gioca. E decide di lanciarlo in un posto lontanissimo, strano e possibilmente immaginario. L’idea che ci sia una persona che si siede lì, si inventa un mondo e mi ci porta a spasso, ma proprio così, come se quel posto sia stato costruito apposta per me, ecco, mi sembra un regalo meraviglioso, da amicone che sa fare le sorprese. E va bene, non sarai l’unico lettore dell’universo, ma per il tempo che passi con il libro in mano un po’ pensi che sia così. E ti senti molto allegro e assolutamente felice di far parte di quell’invenzione sorprendente e stranissima. Succede raramente, ma quando succede ti metti comodo e dici “perbacco, ci sono un sacco di cose a cui potevo affezionarmi, ma ho fatto proprio bene a decidere di diventare una persona che legge”. Ecco, ho letto Tito di Gormenghast di Mervyn Peake e mi sono fatta un milione di complimenti. Brava, cara mia, leggere è un’ottima idea, perché ci sono dei libri fatti così.

Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo.

Tito è il primo libro di una trilogia. E non somiglia a niente. O meglio, somiglia a parecchia roba che – nel suo non essere Tito – è immensamente meno interessante. C’è un po’ di gotico, un po’ di fantastico, un po’ di romanzo d’avventura, un po’ di grottesco, un po’ di saga magica. E, allo stesso tempo, non c’è nulla del genere, perché il mescolone finale è qualcosa di sghembo e specialissimo. E’ così strano – e diverso da non so nemmeno bene io che cosa – che rimarrete lì un po’ frastornati, ma vi sentirete anche un po’ dei piccoli pionieri dell’ignoto.
Non si capisce niente, però. Facciamo un po’ di cornice.

tito di gormenghast tegamini
Gormenghast è un regno, che ha il suo cuore polveroso in una fortezza gigantesca e labirintica. C’è Gormenghast, su questa specie di rupe nebbiosa e inospitale, e ci sono gli Esterni, che vivono in un villaggio di capanne di fango e passano la vita a scolpire statue di legno per i signori del castello. Il diavolo sa perché. Sia quelli dentro al castello che quelli fuori sono personaggi con evidenti e devastanti problemi. I signori di Gormenghast sono i de’ Lamenti, una stirpe di scherzi della natura. C’è il conte Sepulcrio, depresso e silenzioso. C’è la contessa Gertrude, una donnona che sta al mondo per coccolare pennuti di ogni forma e dimensione e per accarezzare un’armata di gatti bianchi, che si spostano come un’onda silenziosa e fedele. C’è la contessina Fucsia, scarmigliata e selvatica. Ci sono le gemelle Cora e Clarice, identiche, vestite di porpora, stupide come un paio di ciabatte e assolutamente inespressive. C’è la servitù, con il ripugnante e obesissimo cuoco Sugna, il fedele Lisca – valletto del conte Sepulcrio, un tizio alto e affilato, con le ginocchia che scrocchiano -, il dottor Floristrazio – leccaculo patentato – e il decrepito maestro di cerimonie con la barba piena di nodi. Sono tutti personaggi esagerati, personificazioni del proprio ruolo nel castello e, nel caso della famiglia reggente, veri e propri “pezzi” di Gormenghast. Nulla può cambiare, Gormenghast deve sopravvivere, secolo dopo secolo, così com’è, conte dopo conte. Le mura si sgretolano, le soffitte si riempiono di roba vecchia e dimenticata, ci sono saloni in cui nessuno mette piede da generazioni, ma la fortezza rimane dove è sempre stata, perché così deve essere.
Cosa superba, però, per un posto dove l’unico valore è soffocare il cambiamento, è che di cose ne succedono parecchie.
C’è chi sprofonda nella pazzia, chi cerca di impadronirsi del “potere” – per quanto incosistente -, chi sogna di scappare, chi trama e manipola per conquistare un angolino tutto per sé, chi fa del male alle biblioteche e chi affila coltellacci nell’ombra. Gormenghast è una scatola di splendida insensatezza, una specie di puzzle infinito fatto con la pietra nera, il buio e il paradosso: Peake si inventa alberi che crescono fuori dalle finestre, cerimonie surreali, l’ambizione sfrenata di conquistare un gigantesco nulla. E c’è un’ironia sorprendente… sorprendente nel senso che appare all’improvviso, come una pentolata in testa da uno che ti vuole male, in mezzo a pagine di bellissima tetraggine. E ad un certo punto, all’ennesimo angolo inesplorato del castello in cui l’astuto Ferraguzzo vi farà arrivare, avrete la sensazione che Gormenghast continui all’infinito, stanza dopo stanza, un cumulo di macerie e ragnatele dopo l’altro. E vorrete che Tito, con i suoi occhietti viola e la sua nascita inaspettata (SACRILEGIO!) salvi Gormenghast… o decida di raderla al suolo una volta e per sempre. Per come mi è piaciuto il primo libro, però, propenderei per l’ipotesi conservativa. Anzi, per Gormenghast patrimonio UNESCO.

 

byatt ragnarok tegamini

Dunque. Dipende un po’ da come siete voi. Se desiderate accumulare una conoscenza enciclopedica e puntigliosissima sui miti nordici – con tanto di spatafiata etimologica per ogni parola che incontrate, gioiosi percorsi tematici trasversali, profili accuratissimi sulle principali figure e divinità, storia delle bestie, storia del mondo, usi e costumi e becchime prediletto dei corvi spioni di Odino -, ebbene, se avete bisogno di tutte queste cose potete comodamente lanciarvi sui Miti nordici di Gianna Chiesa Isnardi. Lo pubblica Longanesi e male non vi farà. Se, invece, siete personcine un po’ trasognate e meravigliabili, pronte a rimanere a bocca aperta davanti a un gigante di ghiaccio, allora vi conviene leggere fortissimo Ragnarök di A. S. Byatt.

Ma che succede in questo libro? Niente, madama Byatt ci racconta la storia di una “bambina magra” che fugge da Londra allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Va in campagna con la sua mamma, per stare più al sicuro. Suo padre è partito per l’Africa e tutti a Natale gli fanno un brindisi propiziatorio di torna-presto-sano-e-salvo, ma senza particolare convinzione… che è meglio non sperarci troppo, quando qualcuno fa l’aviatore. La bambina magra passeggia per i prati, guarda i fiori che crescono, va a scuola, va in chiesa a farsi venire dei gran dubbi e, soprattutto, legge Asgard e gli dèi. È un librone che comincia con la creazione del mondo – ci sono Odino, Vili e Vè che fanno a pezzi un gigante d’argilla e ci impastano l’universo – e finisce con il Ragnarök – divinità che si annichiliscono vicendevolmente mentre la struttura della materia collassa in un ribollire di fulmini e abissi oscuri.

Odino prese Hel e la gettò verso Niflheim, la buia terra delle nebbie e del freddo. Lei rimase rigida, come una freccia tirata da un arco, un missile dalla punta aguzza, ancora e ancora, giú giú, cadde per nove giorni attraverso la luce del sole, della luna e delle stelle, oltre i cocchi in gara del Sole e della Luna, oltre le cime degli abeti e le loro radici, giú nei pantani e le paludi senza luce di Niflheim, attraverso il freddo torrente di Giöll e dentro Helheim, dove avrebbe regnato sui defunti umani che non erano abbastanza fortunati da morire in battaglia, un regno di ombre.
Il ponte sul fiume Giöll era d’oro, di ferro il recinto di Hel, alto e insuperabile. Dentro il tenebroso palazzo, un trono attendeva quella creatura ammaccata, livida, la dea, la figlia mostruosa, e su un cuscino nero c’era una corona, fatta con oro bianco, e pietre di luna, perle come lacrime congelate e cristalli, come brina. Quando sollevò la corona, e la bacchetta posata lí accanto, i morti cominciarono a confluire nel palazzo come pipistrelli sussurranti, innumerevoli, insostanziali. Lei diede loro il benvenuto, senza sorridere. Quelli le giravano intorno, fischiettando debolmente, e lei fece portare piatti, con i fantasmi di frutta e carne, e ampolle, dentro le quali aleggiavano fantasmi di idromele e vino, con bollicine fantasma all’orlo.

Che gioiona immensa.
Madama Byatt
, che riuscirebbe a rendere avvincentissimo anche un sasso, usa la storia e la sensibilità della bambina magra come super cornice e, tra fonti della conoscenza, fronde luccicanti, pellicce ispide e spettacolari terrori, riscrive per tutti quanti noi i miti più significativi della mitologia nordica. Se pigliate la Gianna Chiesa Isnardi, vi accorgerete che in Ragnarök non c’è tuttotutto, perché non serviva che ci fosse niente di più. Ci sono i miti indispensabili, quelli che fanno procedere il carrozzone delle divinità verso l’inevitabile cataclisma finale. Ci sono i grandi pilastri del mondo (il frassino Yggdrasil, l’uncinone sottomarino Randrasill, il ponte-arcobaleno), c’è la storia dei tre figli di Loki (la serpentessa di Midgard, Fenris e Hel, la regina bicolor dell’oltretomba), c’è la morte di Baldur e c’è la devastazione totale, coi lupi che divorano gli astri e il buio che si mangia pure le belve. Tra dèi che gozzovigliano, valchirie che garriscono, cavalli a otto zampe ed esplosioni di pura cialtronaggine ultraterrena – perché gli déi sanno che il mondo finirà, ma non hanno la forza di fare niente per evitarlo… e continuano a bersi delle birre imponenti e a tirare addosso roba a Baldur, che tanto lui è invulnerabile -, questo librino è un beato galoppo in un universo magico, una saggia riflessione su quello che di più tremendo potrà mai capitarci e una bellissima collezione di fantasie pure. Alcune sono luminose, altre fanno paura, come se le nostre teste – come quella del gigante che ha prestato la calotta cranica a Odino per farci la volta del cielo – fossero piene di lupi che corrono coi dentoni aguzzi di fuori. Insomma, se avete bisogno di qualche sano OOOH e anche di qualche AAAH, questa inesorabile discesa verso il crepuscolo degli dèi vi farà splendere gli occhioni ben più della chioma di Frigga. E vi farà diffidare per l’eternità del vischio. E dei salmoni.

Vi sentite in dovere di leggere Infinite Jest perché la gente generalmente reputata intelligente dice di saperlo a memoria e siete stufi marci di tutte queste vanterie?
Volete leggere Infinite Jest perché vi piace David Foster Wallace ma non ce la vedete dentro?
Eravate lì lì per leggere Infinite Jest ma poi un vostro carissimo amico vi ha detto che si è arenato a pagina 30 e vi siete scoraggiati?
Siete personcine tenaci e piene di buone intenzioni, ma la prospettiva di affrontare 1280 pagine in questo momento della vostra vita vi atterrisce e sgomenta?
Animo!
Leggere Infinite Jest non è troppo difficile, se qualcuno decide di incoraggiarvi un po’. Non dico che diventi una passeggiatona liscia liscia, ma non sarà nemmeno l’incubo quadridimensionale che potrebbero avervi raccontato. Le note hanno delle note! L’ho iniziato sei volte e volevo morire con la testa nel microonde! Per carità, in quel tempo lì leggo altre venti cose! Figurati, non si capirà nemmeno come finisce!

Obiezioni rispettabilissime. Ma siamo lettori, mica pavidi opossum, e si può fare.

In questo post – che ha il preciso intento di innalzare di una tacca il livello di meraviglia media contenuta nell’universo -, troverete alcuni utili mattoncini base per affrontare Infinite Jest con la serena caparbietà di una gigantesca nave rompighiaccio. Senza frottole e infiocchettamenti, ma con la sincera e autentica fierezza del lettore che ce l’ha fatta, tra innumerevoli OOOH e AAAH di gioia e divertimento. Perché se ci sono riuscita io, che ho lo span di attenzione di una locusta, non vedo perché non ci si possa riuscire in un po’ più di gente. Che così poi ne parliamo… o andiamo in riabilitazione tutti insieme.
Pronti?
Pronti.

L’Infinite-Guida è fatta così:
– Un confortante preambolo d’esperienza personale
– Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest
E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest
– Ma alla fin fine, di che parla?
– Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest
Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

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Un confortante preambolo d’esperienza personale

Ho letto Infinite Jest in un mesetto e mezzo. Ho cominciato in spiaggia (fase riposante della vita) e ho finito l’altra sera sul divano di casa (prolungata fase di spossatezza da lavoro che ricomincia). L’ho iniziato all’improvviso: dovevo andare in vacanza e l’ho buttato in valigia, gridando qualcosa tipo COWABUNGA. Ne avevo ben due edizioni, in attesa sulla polverosa lavatrice-libreria, e continuavo a passare di lì senza decidermi. Ma no, adesso sono troppo stanca. Ma no, non è ancora il momento giusto. Non ho tempo, non ho tempo. La verità è che non credo ci sia un momento giusto. È un’impresa che vi conviene intraprendere con una certa incosciente impulsività, e con grande fiducia. Il libro non vi renderà le cose troppo difficili, è bello da subito. E non ho detto chiaro e pieno di mappe TUSEIQUI con le freccione rosse, ho detto bello. Lasciatevi portare a spasso, anche se non sapete dove finirete.

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Spezzettiamo l’universo: mini-geografia di Infinite Jest

Il mondo di Infinite Jest è, in buona sostanza, molto simile al nostro, solo peggiore. Tutto è familiare, ma deformato da una serie di catastrofi puntualmente accadute. Dall’inquinamento alle relazioni umane, tutto quello che poteva andare male è andato male. Il risultato è una specie di parodia triste e super geniale di quello che conosciamo.
Ma facciamo un po’ di cornice geopolitica.
Gli USA hanno “inglobato” il Canada e il Messico, dando vita a una bizzarra confederazione che si chiama ONAN (un nome, un perché), guidata da un presidente fanatico dell’igiene che, in tempi non sospetti, cantava a Las Vegas in mezzo alle paillettes. Per non offendere nessuno, sulla bandiera dell’ONAN campeggia l’aquila degli Stati Uniti con in testa un sombrero, una foglia d’acero in una zampa e una scopa nell’altra. La scopa ha senso, non temete. La crociata pro-pulizia assoluta del presidente Gentle, infatti, insieme allo sviluppo di un dannosissimo processo di produzione dell’energia (diciamo che l’idea di usare i rifiuti come combustibile ad alta efficienza va a farsi benedire e i rifiuti, sempre più tossici, aumentano invece di diminuire), finisce per devastare un’ampia zona di confine tra Canada e USA. La Concavità – così si chiama questo non-luogo – diventa una distesa fosforescente e inabitabile. La gente è costretta a fare fagotto e a scappare a gambe levate da questa spaventosa Concavità, che si trasforma in una gigantesca discarica. Per dire, nelle città ci sono delle CATAPULTE che sparano la spazzatura fin lassù. I costi ingentissimi per far funzionare tutta la baracca (e per traslocare quantità incredibili di persone dalla Concavità a zone meno letali, posti dove i fiumi sono blu cobalto ma ancora si tira il fiato) vengono coperti dall’amministrazione Onanita con un astuto stratagemma: gli anni non sono più anni coi numeri, ma diventano anni sponsorizzati. Un’azienda compra un determinato anno e lo battezza col suo nome o con il nome di un suo prodotto. Per farvi capire, ecco il calendario di Infinite Jest:

visore infinite jest

Non è fantastico?
L’anno più denso di avvenimenti, per la nostra storia, è quello del Pannolone per Adulti Depend, ma tenetevelo comunque lì, il calendario, che vi fa del bene quando vi sentite un po’ persi.
E non venitemi a dire che non siete già molto impressionati.

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E le persone, come la prendono? Mini-sociologia di Infinite Jest

Tornando alle storie geopolitiche di prima, è vero che c’è l’ONAN, ma non è che i canadesi siano proprio felicissimi della situazione, con tutta quella spazzatura che gli arriva in casa e annichilisce boschi e prospere fattorie di patate. I più arrabbiati e bellicosi sono gli abitanti del Quebec. E fra gli abitanti del Quebec, i più rancorosi e incazzati e vendicativi sono gli AFR – Assassins des Fateuils Rollents -, una cellula terroristica composta esclusivamente da assassini sulla sedia a rotelle che non solo combatte per l’indipendenza del Quebec (dall’ONAN e pure dal nativo Canada) ma ha anche una gran voglia di fare del male agli USA. Gli AFR sono così letali che l’espressione “udire un cigolio” (insomma, le ruote cigolano) è entrata nel linguaggio comune per indicare una morte imminente e cruenta.
Se invece vogliamo dare un occhio a tutti quanti gli altri, Infinite Jest è pieno zeppo di gente che beve, si droga, ruba borsette, picchia bambini, perde la dignità, guarda cartucce senza mai schiodarsi da casa e tenta con grande caparbietà di non deludere qualcuno. C’è solitudine e c’è un silenzioso andare alla deriva – prevalentemente dentro la propria testa e lontano dagli altri. Si può fare tutto, si può scegliere tutto quello che si vuole e si può disporre di una libertà sconfinata – all’apparenza – ma alla fine si cerca di scappare fortissimo. E le occasioni offerte dal mondo sono, anche qui, innumerevoli: vi farete una cultura sul funzionamento di ogni genere di stupefacente. Vi farete una cultura sull’offerta sterminata delle cartucce d’intrattenimento (l’era post-tv è intricata e avvincente). Cercherete di capire che cosa si può arrivare a sacrificare, in nome di queste felicità artificiali e solitarie, di questi bisogni onnipresenti che capottano il senso di quello che si fa. Che cos’è davvero il divertimento? E’ qualcosa che possiamo controllare? Come dare un senso alla propria vita, quando nulla di quello che ci circonda sembra avere un contenuto e un cuore?
Sono domande, gente.

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Ma alla fin fine, di che parla?

Infinite Jest è fatto a capitolozzi, più o meno omogenei. Il libro funziona a macchina del tempo, come un puzzle cronologico che ci spiega da dove arriva quello che sta succedendo ai personaggi e ai loro pensieri. Conosceremo genitori, nonni, dottori, vicine di casa matte, e sarà sempre per il nostro bene. E parecchio succede anche nelle note, quindi leggetele, se non volete scoprire dopo 200 pagine che qualcuno a voi molto caro, magari, è vivo invece che stecchito come sospettavate o se vi preme capire come faccia un innocuo giovane canadese in camicia a quadri a finire su una sedia a rotelle assassina.
Comunque.
Direi che ci sono tre tramone, due corrispondono ad altrettanti luoghi e l’ultima è il filo conduttore di tutto quanto. Che faccio, uso l’elenco puntato?

  • l’Enfield Tennis Academy (ETA) di Boston > l’ETA è un’accademia per giovani tennisti di eccezionale talento. E all’ETA abitano/giocano/lavorano/si aggirano i superstiti della famiglia Incandenza, che l’ETA l’hanno anche fondata. Senza di loro, non ci sarebbe Infinite Jest, e i nostri pallonetti sarebbero molto peggiori. Il libro segue, mese per mese, quello che succede all’accademia, che a me – poi magari sbaglio – è sembrata un piccolo laboratorio, una specie di simulazione controllata, di quello che capita nel resto dell’universo di Infinite Jest.
  • la Ennet House di Boston > la Ennet è una casa di accoglienza per tossicodipendenti. Visto che tutti hanno problemi di Sostanze – così si chiamano, le Sostanze – e svariati gradi di dipendenza da qualcosa, i centri di recupero e le riunioni degli Alcolisti Anonimi sono qualcosa di normale e diffusissimo. I residenti della Ennet vi regaleranno un mosaico di storie incredibili, orrende e tragiche, storie che portano alle estreme conseguenze tutte le riflessioni sul “che diavolo vogliamo ancora? Perché non è mai abbastanza?” del mondo di Infinite Jest. Alla Ennet imparerete a conoscere meglio tutti quanti, anche quelli che non ci abitano.
  • l’Intrattenimento > è una cartuccia letale. E’ un film così ipnoticamente rasserenante e felice che se lo guardi non puoi più smettere. E’ l’ultimo desiderio che si avvera, per l’eternità. Chi lo guarda non riesce più staccarsi, chi lo vede dimentica di mangiare, dormire, andare in bagno e parlare. E’ così bello che uccide e spiaccica il cervello.
    Ad un certo punto, l’Intrattenimento comincia a circolare. C’è chi cerca di controllarne la letale meraviglia, c’è chi vuole usarlo come un’arma, c’è chi non ne sa niente ma lo vorrebbe vedere, c’è chi ci ha recitato ma non l’ha mai visto (e ha già i suoi bei problemi) e c’è chi, tipo voi che leggerete Infinite Jest, ci finirà davanti.

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Facciamo amicizia: chi c’è dentro a Infinite Jest

Tutti i personaggi servono a qualcosa. Nessuno sprizza felicità e nessuno sembra fiero del proprio passato. C’è chi è lì per raccontare una nevrosi, c’è chi – per puro egoismo e incontrollabile irrazionalità – funge da motore involontario per eventi giganteschi, c’è chi si porta sulle spalle aspettative irraggiungibili, senza volere niente per davvero. Partendo dal fatto che incontrerete solo figure di una complessità terrificante – direi che c’è gente vera che è meno complicata e interessante di questi umani inesistenti di Infinite Jest -, i personaggi più importanti sono anche quelli più “utili”, quelli che fanno succedere le cose e che vorreste tenere con voi. Avrete la certezza della sorte di moltissimi di loro ma, proprio quando si tratterà di capire che cosa succede ai più cari, ci sarà di che lambiccarsi.
Facciamo un minimo di presentazioni?
Il nucleo di strabiliante follia di Infinite Jest è la famiglia Incandenza.
Il papà, Lui In Persona, era un genio alcolizzato e un uomo inconoscibile, alto due metri e passa. Pioniere dell’ottica e astruso regista – quasi sempre – incompreso, Lui In Persona ha fondato l’ETA e ha creato l’Intrattenimento – insieme a una montagna di altre opere filmiche che potrete leggere con soddisfazione immensa in una nota più che esaustiva. Da vivo non lo incontrerete mai.
La madre, Avril – detta la Mami – è una donna altissima e stranamente magnetica di origini canadesi. Perseguitata da ogni fobia al mondo, la Mami è così ossessionata dall’ordine da riuscire a riordinare anche le sue fobie più paralizzanti. E’ cortese ed empatica fino all’esasperazione ma mai davvero capace di un autentico gesto di amore assoluto.
I figli di Lui In Persona e della Mami sono tre – anzi, due e mezzo… ma più per vere origini che per morfologia. Il maggiore è Orin, ex promessa del tennis che, in maniera del tutto accidentale, diventa il più grande punter di tutti i tempi. I punter sono quei giocatori di football che calciano la palla e basta. Orin ha un rapporto quantomeno ambiguo con la verità (e una ripugnante strategia per rimorchiare le donne, sua personale Dipendenza), ma per molte cose dovrete contare sulla sua parola.
Hal Incandenza è il secondo miglior giocatore under 18 dell’ETA – e tipo il sesto dell’ONAN -, ha una memoria fotografico/enciclopedica e un’intelligenza labirintica che non gli servono a niente. Quello che impara e quello che ottiene giocando a tennis non gli procurano alcuna vera gioia. Hal è il nostro “protagonista”, credo, un personaggio che si svuota pagina dopo pagina. Lui ve lo confermerà, che è fatto di niente, ma voi e tutti quelli che gli stanno attorno – pronti cogliere ogni sua prodezza – faticherete ad accettarlo. Perché Hal non vi vuole deludere e, nel farvi felici, fingerà di non capire che cosa vuole davvero. Sempre che ci sia, qualcosa da desiderare.
Mario, l’Incandenza di mezzo, è deforme e minuscolo. La sua passione è fare riprese con una camera speciale, vuole bene a tutti – ricambiato – ed è incapace di mentire. Innocente, sempre felice, è il figlio che ha passato più tempo con Lui In Persona, senza poterci capire niente ma portandogli un casino di borse piene di attrezzatura da cinema.
Altre due creature (tra le mille) che vale la pena conoscere sono Don Gately e Joelle.
Don Gately è un ex tossico grosso come un armadio a muro. La sua storia vi aprirà le porte degli AA di Boston e della Ennet House, dove lavora come sorvegliante, dopo aver completato il suo percorso di riabilitazione da residente. Diventerà un po’ il vostro eroe e la vostra speranza per un futuro migliore. Vi farà fare fatica e vi farà preoccupare.
Joelle, La Ragazza Più Bella di Tutti i Tempi, è un enigma. Joelle sarà uno dei motivi che vi farà girare pagina. E’ ancora bellissima? Perché va in giro con un velo sulla faccia? Perché lei e Orin si sono lasciati? E’ colpa sua, se l’Intrattenimento è così letale?

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Tutto chiaro. Ma PERCHE’ dovrei leggere una roba del genere?

Per lo stupore.
Io non riesco ancora a credere che una persona vera abbia scritto questo libro. Gli incastri, l’immaginazione, il controllo, l’intelligenza nel trasformare la realtà in qualcosa di assurdo, ma plausibile. L’idea dell’Intrattenimento, la tristezza. Se mai nella vita siete stati tristi, capirete che cosa vi è successo per davvero. Se non vi è capitato, imparerete a rispettare le ombre.
Leggetelo per lo stupore. E perché non c’è niente di simile.
Leggetelo perché sarà il primo libro che vi farà stancare sul serio, e non perché è lungo, ma perché è un mistero che somiglia molto a quello che ancora non capite del mondo e di quello che dovreste farci voi, al mondo.
Non è facile. E non è sempre piacevole. Alla sesta pagina di una nota, vi verrà da gridare un legittimo “che palle!”, ma vi accorgerete che la frustrazione non dipende dal font corpo 4 della nota, ma dall’allegro desiderio di poter leggere più pezzi contemporaneamente.
Che nervoso.
Non so se si è capito.
Non so se vi ho INFUSO sufficiente curiosità.
Non so se ci sono riuscita, a tirarvi addosso qualche polpetta di Infinite-Meraviglia.
Comunque vada, però, e tenetemi informata sulle vostre decisioni e su come procede la lettura, insomma, comunque vada usate due segnalibri, che se no è un casino. E buona villeggiatura. E state alla larga dai neonati carnivori alti come palazzi che infestano la Concavità! E se avete problemi di scarafaggi, fatevi dare qualche buon consiglio da Orin, che almeno su quello è affidabile. E se qualcuno ha voglia di sfidare due gemelle siamesi in doppio, me lo faccia sapere, che porto a incordare la racchetta.

Dunque, a casa abbiamo questa vecchia lavatrice che usiamo come libreria. Dovevamo portarla in cantina, ma poi era greve e l’abbiamo lasciata in salotto, autoconvincendoci che faceva arredamento. Prima ci abbiamo messo sopra i pesci, ma poi i pesci sono schiattati e abbiamo cominciato ad ammucchiarci su i libri da leggere. C’è di tutto… e la cosa bella è che ogni tanto passi e trovi qualcosa di splendido che ti eri pure dimenticato di avere. L’altro giorno ero lì che cercavo di capire che costume da bagno portarmi al mare – non ho deciso, li ho cacciati tutti nella borsa e ciao – e intanto che c’ero ho preso su Drown di Junot Díaz (che è uno Strade Blu della nave-madre Mondadori, tradotto da Roberto Agostini e Patrizia Rossi). E perbacco, La breve favolosa vita di Oscar Wao mi era molto garbato, ma avevo completamente rimosso questa raccolta di racconti, che poi è anche la prima cosa che ha scritto, tra i meritatissimi OOOH e AAAH del vasto mondo. Sono dieci storie, tutte incastrate fra loro e ancora più incastrate negli sconvolgimenti di una famiglia dominicana molto complicata. C’è sempre un pezzo che manca. Può essere il papà che li pianta lì senza un soldo e va negli Stati Uniti dopo aver tradito la moglie con una cicciona del barrio. Può essere la tranquillità, che non c’è mai anche quando tutti quanti approdano nel New Jersey. Possono essere i soldi, che Yunior raccatta spacciando negli Stati Uniti mentre prova ad amare una ragazza troppo devastata per stare in piedi da sola. Può essere anche una buona parte della faccia di un ragazzino del villaggio vicino, che porta una maschera perché, quand’era piccolo, un maiale gli ha sbranato una guancia. Non sono delle storie allegre, ma sono meravigliose. E continui a portartele a spasso anche quando hai chiuso il libro.

A leggere ero su questo scoglio.

E dopo lo scoglio ci siamo messi nella pancia queste cose qua, alla Cantina del Polpo di Sestri Levante, che ormai sta diventando uno dei miei posti-allegri del mondo.

Insomma, una giornata di luminose soddisfazioni. Anzi, oltre ad ordinare un altro piatto di ravioli al baccalà, credo proprio che mi leggerò anche È così che la perdi. E quando arriverà sulla lavatrice, prometto solennemente di non lasciarcelo troppo a lungo.

Dopo aver appurato che non saremmo riuscite a incrociarci – come le vere donne di mondo, che hanno sempre degli impegni precedenti -, abbiamo elaborato un piano infallibile. Ilaria doveva lasciarmi allo stand di Compagine, al Salone, una preziosa copia con dedica del suo Vintagismi, che così poi passavo e me la compravo. Poi però si è dimenticata, ma fa niente, sono comunque successe delle coccole. Me l’hanno passata al telefono – super imbarazzo, che io non so telefonare – e sono stata accolta con grande affetto, in un tripudio di foto e tolleranza. Tolleranza e immenso garbo, anzi, perché sono riuscita a esclamare “Ma che carine queste noci! Ma perché avete un cestino di noci, qua in mezzo ai libri?”. Senza battere ciglio, mi hanno indicato il gigantesco logo appeso al muro. Che poi è questo qua.

Lo so, lo so.
Con me ci vuole un po’ di pazienza.
E forse vale la pena cambiare argomento… che siamo qua per commuoverci con Vintagismi.

È un librino tenero, pieno zeppo di ricordi,  scoperte e ciuffetti storti. Ci sono le lumache, le scarpe con gli occhi, un giardino con piantata in mezzo una pietra gigante, un papà iperattivo, i pomodori dell’orto, una nonna pettoruta e abilissima nel distorcere la realtà, un divano-nascondiglio, la foto di classe di prima elementare e la tragedia dell’abbigliamento anni Novanta. Sulla pagina dell’OUTFIT natalizio è come se ci fossi anch’io, con collettone di pizzo e calzamaglia rossa che prudeva tantissimo. MADRE contribuiva al folklore complessivo trasformando la gonna scozzese in una gonna-PANTALONE scozzese, tanto per farmi capire da subito che il mondo è un luogo tetro, ingiusto e inospitale. Vi torneranno in mente i passamontagna e gli inspiegabili fuseaux con le ghette, insieme a tutti gli sport che vi hanno fatto fare anche se non ne avevate voglia e pativate come dei cani. Poi ci sono i cantanti del cuore – che ve li immaginavate bellissimi ma poi erano tutt’altro – e le estati di noia, in cui si impara a leggere per divertimento e non ci si annoia mai più.

È proprio un librino felice. Si va in giro per i ricordi di un’altra persona e, senza neanche pensarci troppo, cominciano a venire a galla anche i tuoi. Fa nostalgia allegra, ecco, anche per le cose più surreali e le passeggiate di venti chilometri in salita – sia all’andata che al ritorno.
Poi quando capisco se sono più adorabili le illustrazioni o i testi torno indietro e ve lo dico.

Dovete sapere che voglio molto bene a Giovanna Gallo. Le voglio bene praticamente da subito… cioè dal 2009, per quelli che non c’erano. A Torino non avevo nessuno con cui fare niente, e poi all’improvviso avevo una Giovanna Gallo. È quindi con grande gioia e autentico orgoglio che vi esorto a schiacciare forsennatamente sul bottone COMPRA vicino al suo ebook nuovo di zecca. E non perché i disegnetti-sgorbietti che ci trovate dentro li ho fatti io, ma perché Eroine multitasking (Emma Books) è proprio uno spasso pazzo.

Gallo del Cuore farà per voi parecchie cose utili, oltre ispirarvi del felice e sano ridere. Anzi, del sorridere. Che quando c’è l’ironia bisogna dire che si sorride, mica che si sghignazza cascando dal divano. Cosa che a me, poi, è sempre sembrata degnissima.
Comunque.
Gallo vi spiegherà che non dovete credere alle commedie romantiche e che le dichiarazioni d’amore sotto la pioggia non esistono, nemmeno quelle con  gli unicorni che vi brucano vicino alle Manolo Blahnik mentre un aitante bellimbusto vi appesantisce l’anulare con una gigantesca roccia splendente. Vi dirà che non aver voglia di fare niente la domenica è un vostro diritto, così come riempirvi la casa di inutili alzatine di vetro per torte. Torte che non sapete fare, ma anche quello va bene, perché tanto di cose che vi riescono ce ne sono altre centoseimila, e tutte insieme. Si parlerà di ciabatte a forma di cane, di passioni travolgenti, rudi energumeni e fidanzati che – giustamente – amano farsi la doccia prima di prendervi tra le braccia. Troverete chiacchiere su lavoro, amore, sogni d’indipendenza, uomini che non capiscono lo smalto per le unghie (e ancor meno il senso del top coat, che manco si vede), MADRI perfette, agghiaccianti ricordi della scuola media e convivenze che funzionano. Vi divertirete e vi riconoscerete in cento modi. E se già siete anche solo un pocopoco portate, la felice trasformazione in eroina multitasking sarà garantita. Tanto vale che vi andiate a comprare un costume.

Viva Gallo. Sono proprio contenta. In alto le tisane al finocchio – ma solo se avete finito i ghiaccetti per il gin tonic.

 

Per approfondire:

Il blog di Giovanna.
Le twittate di Giovanna.
Giovanna.

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Che cosa è successo nelle puntate precedenti.
Dunque.
Lo scorso anno, a luglio, ho improvvisamente deciso di leggere Anna Karenina. Ma così, presa da uno slancio inspiegabile e repentino. Senza un particolare allenamento, una missione filosofico-letteraria o precedenti incontri con poderosi romanzi russi.
…in realtà avevo iniziato Guerra e pace… e mi piaceva immensamente, ma ce l’avevo diviso in tomi e, non mi ricordo per quale motivo, ad un certo punto mi sono dimenticata l’ultimo in una città che non era la mia. E addio, ho perso il ritmo, ho scordato la faccia di Pierre e non l’ho mai più finito. Ero anche a buon punto, per dire.
Comunque, a parte la sfortuna logistica patita con Guerra e pace, Anna Karenina sarebbe stato il mio primo, vero incontro con un illustre superclassico russo. Ce la farò. Non ce la farò. Ci saranno slitte, manicotti di pelliccia e svenimenti? Fortune sperperate? Figli bastardi? Insomma, l’ho cominciato con la sensazione di essermi messa lì a fare qualcosa di importante. Non so bene come spiegarlo, ma mi sembrava una faccenda solenne, una lettura che sarebbe stata diversa da tutte le altre della mia vita. Ero proprio emozionata.
In mezzo a questo turbine di aspettative, senso di responsabilità e timore reverenziale, non so bene con quale motivazione, mi sono messa a twittare quello che mi veniva in mente mentre leggevo. E man mano che andavo avanti, c’erano sempre più particolari che non avrei voluto dimenticare o impressioni da condividere, o moti di funestissima indignazione che non potevo in alcun modo tenermi per me. E #annasottoaltreno cresceva e si riempiva di citazioni, di impressioni, di stizza, preoccupazioni, cose buffe e immagini. Insomma, si è trasformato in un diario di lettura molto spontaneo e scanzonato in cui ci si augura che Vrònskij si spacchi le tibie cascando da cavallo e che Lèvin la smetta, una buona volta, d’ammorbarci con la falciatura dei campi. Senza alcuna ambizione “classificatoria” o equilibrio rispetto alle varie parti della narrazione, #annasottoaltreno è un piccolo frammento di quello che mi è successo mentre leggevo un romanzo meraviglioso, un libro pieno di pensieri – inclusi quelli dei cani da caccia – e di decisioni complicate.
Che è accaduto poi?
Anna è finita sotto al treno e la timeline di Twitter ha imparato a vivere senza di lei.
Anzi, Anna è stata sepolta dal resto della mia timeline.
Ma poi, magimagia. Il download dell’archivio di Twitter! Pure per noi italiani.
E allora ho pensato, ma che cavolo, perché non scolliamo dalle rotaie i suoi derelitti resti?

#annasottoaltreno (reloaded) è diventato un lunghissimo e strambo Storify.
Con voragini che non mi spiego (possibile che non ci sia davvero niente su Anna che ritorna da suo figlio?! Dov’ero, in un posto senza 3G?), grande affetto per particolari minuscoli che fanno perdere la visione d’insieme, plateali antipatie e un gran gusto dell’assurdo. Intanto che recuperavo i pezzi e li ricomponevo, poi, ho deciso di cacciarci dentro un’allegra confusione di immagini cinematografiche (e no, l’ultimo film non mi è piaciuto… i costumi, però, erano bellissimi), riferimenti geografico-mangerecci, commenti e chiacchiere.
E questo è quello che è venuto fuori.