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Dunque, Keanu Reeves aveva già gettato le fondamenta di questo mondo qua con una serie a fumettiBRZKR. Vorrei potervene parlare ma non l’ho letta e quello che sono in grado di dire è che Unute – il berserker del titolo – è disegnato per evocare una certa somiglianza con Keanu Reeves, anche se non abbiamo la corrispondenza perfetta che si è manifestata con Cyberpunk. Se ci mettiamo dentro pure John Wick – celebre per la sua allergia alla morte e il suo vasto talento per lo sterminio di nemici, amici e semplici passanti – mi viene da pensare che Keanu Reeves gestisca la sua produzione creativa all’interno di un vasto trope a metà tra il funereo e il metafisico. Ne siamo felici? Personalmente sì. Per The Book of Elsewhere si è fatto prestare tutte e due le mani da China Miéville, che del fantastico “letterario” è un nobile esponente e che in libreria mancava ormai da un decennio. Il risultato finale di questo incontro di mortifere ambizioni meditabonde somiglia più a Evangelion che a Kentarō Miura e, pur avendo un respiro piuttosto cinematografico e una base zarra indiscutibile, resta un esperimento cervellotico e misterioso, direi degno della curiosità che ha inevitabilmente suscitato.

Una dadolata di elementi di contesto: c’è questo tizio che non può morire e che è al mondo da circa 80.000 anni. Nato in circostanze quantomeno leggendarie – sei figlio del fulmine! -, vaga ramingo e invulnerabile per il pianeta cercando risposte e seminando occasionalmente distruzione. Legami? Pochi, se escludiamo un maiale particolarmente aggressivo – anzi, un babirussa. Unute accetta di farsi “studiare” e di collaborare con un’unità militare segretissima nella speranza che qualcuno trovi il modo di garantirgli la mortalità. Unute non vuole morire, vuole avere la POSSIBILITÀ di morire. Può sembrare una strana ambizione, ma io non sono una specie di semidio che campa dai tempi del Neolitico, quindi cosa ne posso sapere. E cosa ne sanno Reeves e Miéville? Il giusto, direi.

I libri con personaggi che gestiscono l’eternità o l’immortalità sono quasi sempre ridicoli o, ben che vada, poco appaganti. Ogni volta che il personaggione eterno apre bocca ci aspetteremmo chissà quale rivelazione, ma finiscono spesso per donarci delle cretinate conclamate. O li si ammutolisce – TROPPO INSONDABILE È IL MISTERO CHE MI AMMANTA, ECCOVI UN SILENZIO CHE DOVREBBE FARMI PASSARE PER SAGGIO MA È SOLO UN MALDESTRO ESPEDIENTE! – o li si rende oracolari fino all’ingestibilità – insomma, non si capisce niente – o la si butta dichiaratamente in caciara, trasformando tutti quanti in macchiette e buonanotte. Con Unute, qua, c’è una dignitosa via di mezzo. Aiuta il contesto, che funziona su molti registri diversi, e aiutano i flashback che esplorano diverse epoche e fasi della lungherrima vita di Unute – e aiuta quello che lui sostiene di sapere sul funzionamento della memoria. C’è una trama con indagini, cospirazioni, doppiogiochismi e spazi decenti dedicati alla relazione “umana”. Unute crea frizioni, paura e discordie, perché non controlla quello che fa durante la “trance” e non ricorda cos’ha fatto.
È un mostro?
È una divinità?
È uno scherzo del cosmo?
È unico nel suo genere?
È l’araldo dell’apocalisse o una “semplice” forza della natura?
Va distrutto o va aiutato?
Là fuori potrebbe esserci di peggio?
Chissà! Ma mi farebbe piacere se Reeves e Miéville continuassero a domandarselo – supercazzolandoci magari un po’ meno sul finale.

[Una nota pratica: com’è in inglese? Non proprio una passeggiata di salute – Miéville non può non oracoleggiare e il nucleo complessivo è leggenda o speculazione filosofica. Se non volete affannarvi eccessivamente, forse conviene attendere la traduzione.]

Ma dov’ero quando La canzone del mare è stato candidato all’Oscar come miglior film d’animazione? E che cosa avevo di così importante da fare due anni fa, quando strabiliava le genti al festival di Toronto?
Nel recinto delle capre, ecco dove stavo.
Meglio tardi che mai, però. Consoliamoci così.
La buona notizia è che questo splendido lungometraggio animato arriverà al cinema alla fine di giugno anche in Italia – perché il tempismo è sempre il nostro forte – grazie al provvidenziale intervento della Bolero Film.

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La canzone del mare di Tomm Moore (quante M può ragionevolmente contenere un cognome?) è una storia di onde, conchiglie, tristezza da sconfiggere, civette, storie da tramandare e giganti pietrificati. I protagonisti sono Ben, la sua sorellina Saoirse, un cane adorabile megapeloso e una solidissima impalcatura di miti irlandesi.
Saoirse, infatti, è una selkie, una bambina magica capace di trasformarsi in foca e di liberare, grazie al suo canto miracoloso, la scintilla delle emozioni dimenticate. Ma mica è facile, perbacco. Ogni selkie ha bisogno di un mantello e di una voce… e per Saoirse le cose saranno un po’ più complicate del previsto. Ad aiutarla ci sarà Ben e, insieme, si imbarcheranno in un’avventura fiabesca, un lungo viaggio che avrà il potere di ridare vita alle leggende che sonnecchiano sotto la superficie del mondo visibile.

la canzone del mare 1

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Era tanto che non mi capitava di scoprire qualcosa di così bello dal punto di vista visivo e di così toccante, delicato e ben orchestrato da quello narrativo.
Sarà il folklore irlandese, saranno le fochine, sarà la musica – la colonna sonora è un misto di composizioni originali e di motivi tradizionali interpretati dalla band Kila -, sarà che ogni tanto è bello vedere che la tristezza e la paura non possono vincere, sarà che non lo so – ma ho adorato profondamente questo film. E ho pianto come una pecora sgozzata per una mezz’ora buona. Pensavo di essermi rincoglionita – sei gravida e non sei più in grado di gestire la tua emotività -, ma all’improvviso ho scoperto di essere circondata da una vasta platea di giornalisti sessantenni che singhiozzavano fortissimo. E ho capito che per il mondo c’è speranza. E che le selkie, alla fine, cantano un po’ per tutti.
Trovate il modo di vedere La canzone del mare. È una meraviglia vera.