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Inizi a tradurre e, come romanzo d’esordio, ti assegnano Le correzioni di Jonathan Franzen. Anzi, non proprio. Silvia Pareschi aveva firmato un contratto per Il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy – un altro signore di scarsa rilevanza, insomma – e si era messa di gran lena a lavorarci, ma poi era spuntato Franzen e Marisa Caramella – l’editor Einaudi che aveva preso Pareschi sotto la sua ala durante il “praticantato” – le aveva intimato di piantare tutto lì e di cominciare subito a occuparsi delle splendide rogne della famiglia Lambert. Dev’essere andata più che bene, perché sono passati venticinque anni e Pareschi può fregiarsi di aver tradotto alcuni dei nomi più illustri della narrativa angloamericana contemporanea, mostri sacri e classici compresi. Visto che è dalle più brave che conviene industriarsi per imparare qualcosa, mi sono immediatamente procurata Fra le righe – in libreria per Laterza – e ci ho trovato dentro del confortante pragmatismo, insieme a un vivacissimo amore per una professione resa spesso ingrata da condizioni “ambientali” non proprio auspicabilissime ma sempre strabiliante per inventiva, rigore, sensibilità e cocciutaggine.

Tra autobiografia professionale e collezione di dilemmi (risoltissimi), Pareschi condensa in questo saggio parecchio di quello che succede quando si traduce un’opera letteraria nel “mondo reale” – dai giochi di parole agli ibridi linguistici, dall’addomesticamento ai dialetti, dall’approfondimento delle più minute circostanze fattuali all’importanza della revisione e, quando si può, del dialogo con autrici e autori. Non c’è scelta che non affiori sulla pagina come la minuscola puntina di un vasto iceberg sommerso, che resta invisibile ma deve esistere per consentire a ogni decisione “strategica” di non colare tragicamente a picco, trascinandosi dietro il resto del libro. La traduzione è una pratica guizzante, fatta di innumerevoli micro-decisioni a loro modo SEMPRE campali. Si fa il possibile per restituire quello che c’è scritto – la componente letterale del testo – ma anche come suona quello che c’è scritto, sia a livello stilistico che di contesto culturale, spostandosi lungo un continuum di senso molto più ingarbugliato, ricco e fascinoso della tritissima dicotomia che contrappone graniticamente una traduzione “bella” ma infedele o una “brutta” e fedele. E come si fa? L’unica risposta può essere un bel DIPENDE. Pareschi, qui, si fa le pulci da sola e ci dona una carrellata di gustose gatte da pelare incontrate nel corso della sua carriera, dalle freddure lapidarie all’arduo compito di ritradurre un classico – Il vecchio e il mare, in origine curato da Fernanda Pivano… una passeggiata di salute, ancora una volta.

Se il tema v’incuriosisce e se siete in cerca di riferimenti che ben bilanciano la teoria a un approccio “pratico”, il laboratorio di Pareschi potrà rivelarsi un ottimo punto di partenza. Magari continuerete a lamentarvi a caratteri cubitali delle traduzioni che “fanno schifo!111!!11”, ma prima di esprimere indignazioni così perentorie vi verrà voglia di ripensare al processo… e ci guadagnerete qualche riferimento critico in più, oltre a utili red flag per distinguere una traduzione “umana” da quella prodotta da una macchina. Perché sì, come ci racconta anche Pareschi nella sezione conclusiva del libro, le macchine sono abbondantemente qui. Spesso con risultati comici e maldestri… ma per quanto ancora? Ci raccontiamo storie per spiegarci il mondo e, per trasportarle lontano con amore, buonsenso e rispetto, potrebbe ancora aver senso sedersi qui e procedere con la calma che si deve alle cose preziose e importanti… una parola alla volta.

Quante delle usanze che diamo per assodatissime sono in realtà costrutti sociali o “riti” relativamente recenti? Non so stilare un elenco completo, ma fra queste lente sedimentazioni storiche c’è senz’altro la misurazione del tempo che trascorre secondo scansioni convenzionali/condivise e l’abitudine di festeggiare il compleanno, considerandolo sia come una ricorrenza o un giorno “speciale” che come rigoroso traguardo periodico che ci consente di dichiarare con precisione la nostra età anagrafica.
Perché per secoli non si è sentito tutto questo gran bisogno di sapere con esattezza quanti anni avevano le persone?
In un più vasto ordine delle cose, era ritenuto più importante a livello simbolico il momento della nascita, quello della morte o il battesimo?
Qual era il rapporto tra tempo “collettivo” e tempo individuale?

L’invenzione del compleanno di Jean-Claude Schmitt – un saggio snello e curioso, supportato da un ricco apparato iconografico che un po’ ci assiste nel controbilanciare un’esposizione non proprio spumeggiantissima – ripercorre le tappe che ci hanno gradualmente condotti a spegnere le candeline su torte di varia foggia mentre intoniamo (ragliando allegramente) canzoncine assortite.

Dalle feste pagane alla “censura” introdotta nel Medioevo dal cristianesimo – che considerava il giorno in cui moriamo il vero inizio della vita, perché è della dimensione ultraterrena dell’anima che è più opportuno occuparsi -, Schmitt scartabella illustri diari, minuziose cronache di corte e calendari pieni zeppi di santi per tracciare la rotta evolutiva del compleanno “moderno”, svelandoci – fra le altre cose – l’insospettabile legame tra Goethe e la torta con le candeline.