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Orbene, faccio parte di quella coraggiosa falange di lettrici tardive di Alba De Céspedes. Per ragioni anagrafiche non è che si potesse fare diversamente, mi viene da pensare, ma di sicuro posso accodarmi al recente movimento di riscoperta che sta interessando quest’autrice dall’indole spigolosa e dalla vita (altrettanto) romanzesca. Da dove ho cominciato? Da Quaderno proibito, che trovate in libreria per Mondadori o nel catalogo Storytel – dove l’ho ascoltato io.
Procediamo? Procediamo.

1950. Valeria Cossati compra un quaderno e comincia a usarlo per registrare gli accadimenti della sua vita. Scrive sentendosi in colpa, nascondendosi e nascondendolo, un po’ perché il tempo che dedica al quaderno è tempo sottratto ai doveri domestici e un po’ perché quello che scopre, scrivendo, è un grumo indigesto e contraddittorio di sincerità fin troppo limpide. Valeria ha di poco superato i quaranta e ha due figli grandi, un lavoro in ufficio e un marito. La famiglia la assorbe e la riassume, la definisce e la mangia, le garantisce un presente solido ma le impedisce di immaginarsi diversa… almeno fino all’arrivo di quel quaderno, comprato d’impulso e destinato a diventare l’unico posto in cui coltivare la solitudine necessaria a rimettere in moto i pensieri. Scrivere nel quaderno diventerà per Valeria un esercizio di identità, un’operazione di auto-smascheramento e di reazione autentica ai tanti urti minimi di una quotidianità fatta di automatismi, conformismi e rospi inghiottiti in silenzio.
La chiarezza che Valeria sembra raggiungere è paradossale, perché è un insieme di umanissime contraddizioni che mettono in crisi convinzioni radicate, ruoli predeterminati, aspettative di rispettabilità e costrutti sociali. Valeria è fiera di lavorare in un ufficio, ma vorrebbe non averne bisogno perché quale moglie davvero benestante (e con un marito di successo) è costretta a contribuire al bilancio domestico? È altrettanto fiera della sua indipendenza, ma quando si trova a bere il té con le sue antiche compagne di collegio – ricche – è quella vestita peggio e la più lontana dall’idea di “signora” che le piacerebbe incarnare. Vuole che sua figlia Mirella studi e sappia cavarsela da sola, ma la biasimerà spietatamente quando inizierà a fare quello che a lei è stato precluso. Rinuncia a una donna di servizio ma si sente schiacciata dalle faccende, anche se poter dire di mandare avanti la casa da sola la fa sentire indispensabile, importante, insostituibile.

È sgradevole, Valeria. Meschina, pure.
Con tutto quello che ho fatto per voi! Ho rinunciato a me stessa per permettervi di star meglio di me – ma adesso che siete diventati capaci di star meglio di me vi serberò rancore! I sacrifici! L’ingratitudine! Cosa dirà la gente? Senza di voi chissà chi sarei diventata!
Quella di Valeria è la crisi di una figura liminale ma anche la crisi di un paradigma femminile. Uno dei conflitti più significativi è potenti del libro è proprio quello con la figlia, che fa da portabandiera per una generazione “nuova” di ragazze. Valeria la ammira e la detesta, la invidia e la vorrebbe azzoppare, la guarda e si specchia nel suo fallimento, vede la gabbia che si è costruita e in cui ha imparato a sentirsi sicura e padrona. In questa perpetua sindrome di Stoccolma, Valeria incolpa i doveri famigliari della morte delle proprie ambizioni (sentimentali, economiche, materiali) ma è in quegli stessi doveri che si rifugia per sentirsi rilevante, “santa” e martire, unica e insuperabile.

Valeria è tutto quello che odio? Potete dirlo forte. Ma è anche un personaggio magnifico. Nel suo rancore, nel bisogno di far pesare come un macigno ogni gesto di cura che ha per gli altri c’è un rimpianto profondo e irrimediabile, c’è il confine invalicabile contro cui tante donne si sono schiantate, c’è la fatica di un’ingiustizia di fondo, ma c’è anche un autolesionismo deliberato, del compiacimento maligno, un gusto per il fallimento altrui che è lo specchio cattivo della propria ipocrisia. Sentitevi in debito con me, amatemi per tutto quello a cui ho rinunciato per voi, me lo dovete. E la cosa divertente – e superbamente giusta, nel senso proprio di giustizia cosmica – è che non interessa a nessuno. È una tragedia obliqua, che inizia e finisce nel quaderno.

Splendido, davvero.
Saranno anche gli anni Cinquanta, ma il conflitto tra generazioni, la difesa miope delle convenzioni, le dinamiche di famiglia, il discorso sui soldi, sul lavoro, sui ruoli, sull’ambizione e sulle “classi” sociali ha ancora parecchio da dirci. Valeria è vittima e supervillain, eroina minima e regina delle passivo aggressive, la suocera che non ci augureremmo per i nostri figli ma anche una povera illusa. Vorremmo tifare per lei… ma non lo facciamo, perché lei non tiferebbe mai e poi mai per noi. E la ruota continua a girare.

Ani e Bianca si sono avvicinate per rendere più sopportabile il presente e per ricostruire un’idea di famiglia, in un posto dove si arriva spogliate di legami pregressi, identità e futuro. Sono raccoglitrici di sale, prigioniere di un gigantesco campo di lavoro in cui centinaia di altre donne “indesiderabili” (e pericolose per il rigido ordine pubblico del regime) si spaccano la schiena in un susseguirsi di giorni sempre uguali, guardate a vista da guardie armate e private di ogni prospettiva di fuga, cambiamento, libertà.
Fuori si sta peggio, si sentono ripetere. Qui almeno si mangia e abbiamo un tetto sopra la testa. Non siamo nessuno, ma siamo vive. E provvediamo all’approvvigionamento dell’unica risorsa energetica ancora disponibile… quale onore più grande può esistere? Rese inermi dalla fatica estrema e anestetizzate dalla paura, le donne del campo vivono in un limbo che cancella il tempo, piega la volontà e distorce la realtà… ma Ani e Bianca non hanno mai smesso di domandarsi cosa resti del mondo oltre i confini di quella prigione. E sarà la loro alleanza – sghemba come il loro modo di stare insieme, nonostante le differenze – a cambiare tutto e a spalancare nuovi scenari: si muore davvero quando si smette di sperare nella possibilità di cambiare le cose.

Non voglio spoilerare, perché meritate pure voi di godervi in santa pace i numerosissimi colpi di scena di Brucia la notte di Tiffany Vecchietti e Michela Monti – in libreria per Mondadori e in audiolibro su Storytel. Qualche tema lo nominerei, però.
Ci sono ragazze guerriere, ragazze rancorose, ragazze potenti e ragazze che si organizzano in nuovi modi antichissimi. Ragazze sradicate che resistono e provano a ripartire da un’idea di collettività che cerca di tornare umana, amica delle differenze e attraversata da prodigi insperati. C’è un’Italia “alternativa” e un’Italia leggendaria e mistica. È una storia che indaga il potere del pensiero – e la relazione ambivalente tra pensiero, autorità e comunità. È una storia di rivoluzione e di quanto “costa” credere in un’idea – o accettare quel che c’è scegliendo il silenzio. Che Bianca non stia mai zitta non è una coincidenza… e che Ani dica invece così poco – ma veda moltissimo – nemmeno. Spero le accompagnerete nel viaggio. Sarà lungo e difficile… ma tra strighe bisogna darsi una mano.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

Accecata e sbilanciata nelle mie più profonde convinzioni dallo strabiliante successo di Dillo con una bestiola, ho capito di aver fatto – finalmente – qualcosa di utile per la collettività. Un post d’impegno civile, un post capace di migliorare davvero la vita lavorativa e umana – distinguiamo, perché per chi ha bisogno di dire cose con le bestiole la vita lavorativa e quella di essere umano sono faccende molto diverse – dell’utente medio di Tegamini. Utente che, meraviglia delle meraviglie, è anche alle prese con il magnifico periodo post-elettorale, rammentiamolo accuratamente. Insomma, vi servono degli altri animalini, ora più che mai.
Ed ecco perché ho deciso di produrre questo nuovissimo e indispensabile EXPANSION-PACK pieno di altre bestiole che vi capiscono. Anzi, vi capiscono così bene che vogliono andare a dire al mondo come vi sentite.
Ma prima di tuffarci in questo vortice di zoologia e sentimento, riappiccico la necessaria premessa, il cuore pulsante del Dillo con una bestiola.

Anche nei piccoli/giganteschi problemi che scaturiscono dalla posta dell’ufficio, gli animali possono accorrere in nostro aiuto, come fanno abitualmente con le principesse Disney. Basta avere a disposizione le bestiole giuste. E di sicuro, là fuori c’è almeno una bestiola che può ergersi a splendida metafora dei sentimenti che v’ingorgano l’anima, ma che non potete mettere per iscritto.

In questo post, che tutti i capitani d’industria dovrebbero inoltrare ai propri dipendenti, verrà messo a disposizione del mondo un coraggioso manipolo di creaturine da utilizzare in una basilare gamma di situazioni elettropostali. Smettiamola di reprimere i nostri sentimenti: diciamolo con una bestiola!

Ci siamo? Tutti pronti a gettare il cuore oltre l’ostacolo?
Bene.

***

BESTIOLE INTIMIDATORIE

Ah sì? Ah sì? Per quando ci sarebbe bisogno di sfondare la porta e spaccare nasi a colpa di padella, arrivano gli animalini trucidi, aggressivi e antipatici.

più arrabbiati che mai!

Il cervo-ragno, credo.
Piccolo, preciso, discreto e maneggevole: divorerà le anime dei vostri nemici, come il migliore dei cecchini. E poi consuma poco.

Il granchione peloso dell’abisso.
Allegatelo alle vostre mail come se fosse una preziosa testa di Gorgone.

Lo starfish, una delle prove più solide della non-esistenza di Dio.

La sula dai piedi azzurri.
Da creatura ridicola e dissennata ad autorevole portavoce di tutto il vostro funestissimo sdegno.

Per chi è costretto a fronteggiare un’intera armata delle tenebre – e non un unico e isolato individuo nefasto – si può sempre contare sul banco di pesci-troll e sul loro pronunciato cipiglio.

Un rapace come si deve riesce a sollevare un vitello… che insomma, non è poi tanto più leggero di una persona. Fatelo presente, quando deciderete di allegare questo giovinotto qua.

***

BESTIOLE DELL’INDIFFERENZA

Perché di tanto in tanto, l’agghiacciante processo dello scaricabarile va arginato.
And not a single fuck was given that day.

ora con l’upgrade-sfottò!

 

Mi appello a voi, programmatori che tutto possono. Mi appello a voi affinché il deretano gigante di questa scimmia nasuta possa essere allegato in automatico al SI’ che siamo costretti a schiacciare ogni volta che ci arriva qualcosa con l’odiosa notifica di ricezione del messaggio. E come ben saprete, la notifica di ricezione ve la piazzano sempre sulla roba più inutile.
Già, ho letto la tua mail, l’ho letta, va bene? E l’ho fatta leggere anche al sedere del macaco.

Guarda, aggiungerei proprio qualche bella clipart.

Serve per domani? E me lo dici alle 18.23? No, no, tranquillo, ce la facciamo.

Si è inceppata di nuovo la stampante? Ma è assurdo, dovrebbe funzionare anche con la tua carta riciclata. Insomma, che cos’hanno che non va quei fogli lì? Va bene, sono un po’ stropicciati, sono in terra da quattro mesi e ogni tanto ci finisce in mezzo anche un sacchetto del pane, ma che cavolo, la tecnologia dovrebbe facilitarci la vita!

Guardi, non le posso passare l’altro interno. Sa, ho il telefono vecchio.

 

***

BESTIOLE DELLO SCONFORTO

Basta. Siete demoralizzati come un copertone sgonfio. E in ufficio non si può neanche bere.

sono ancora più tristi!

Se fosse uno struzzo cercherebbe di mettere la testa sotto la sabbia. Ma è uno sconclusionatissimo piccione. E vuole annegarsi.


Innocenti cuccioli abbandonati. Come voi.


Il gatto della routine impiegatizia.


Investiteci. Vi supplichiamo, investiteci.

***

BESTIOLE PER TEMPOREGGIARE

Ti assillano, ma non hai ancora tutte le necessarie informazioni per rispondere con quel minimo di razionalità che il tuo amor proprio pretende? Ti assillano, ma magari sei te – capra – che hai perso dei pezzi per strada? In entrambi i casi, serve tempo, tempo per finire di fare un buon lavoro o tempo per rimediare.
Che bestiola mandare, dunque?
Bestiole assurde. Meno si capisce che diavolo sta succedendo, meglio è: il destinatario avrà qualcosa su cui arrovellarsi mentre aspetta voi.

ancora più incomprensibili!


E il problema non è il gatto, ma l’improponibile accostamento tra la borsetta rosa e l’accoppiata cappellino-occhiali.

La brughiera. Ci hanno sempre detto che la brughiera è desolata e sconfortante. E invece.

Buona musica per uova più tonde.

Carino! Adorabile! Awww! Tenerello! Nicolas Cage. Poffosone! Pallottina!

Va bene, è un mostro inesistente. Ma non potranno smettere di guardarlo.

***

NEW! – BESTIOLE DELLA FUGA

E’ troppo. Anche per voi. Dovete scappare, dovete salvarvi. E vi servono animalini coraggiosi pronti a dare il buon esempio, alla faccia di ogni legge naturale.

 

Il gatto palombaro. Ha esplorato gli abissi, ha nuotato con le sirene. E se solo i suoni si propagassero bene sott’acqua, vi miagolerebbe di tuffarvi.

In un mondo dominato dai cani-astronauti, la gallina-spaziale – caparbia e anticonformista – vi saluta dalla sua maestosa orbita geostazionaria. E vi ordina di bardarvi per bene e salire su un razzo, per accompagnarla alla scoperta del cosmo. Che poi è sempre meglio che lavorare.