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Gary Shteyngart ha un talento raro: ti fa ridere di cuore, ma ti mette anche addosso una gran voglia di sederti in terra a singhiozzare un po’. I suoi personaggi si ingarbugliano nel tentativo perenne di cambiare pelle e coltivano con caparbietà le speranze più varie, deformandole fino al paradosso dell’illusione. Si muovono in mondi sovrapponibili al nostro – come nel caso di Destinazione America, uscito per Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli – e contribuiscono a metterne in luce le storture, le ambizioni più malsane e le grandi occasioni perdute. Ho incontrato Shteyngart un mesetto fa a Torino, nel gran ribollire del Salone del Libro, e ho fatto del mio meglio per non lasciarmi annichilire dall’emozione. Sono una fan, che devo fare. Ed essere fan di un autore noto per la sua ironia e per la sua acutezza devastante è un problema ancora più grande, quando si tratta di sedersi lì e di non fare la figura della pianta da appartamento. In ogni caso, il buon Gary è stato di una gentilezza disarmante. Me lo immaginavo serafico, simpatico e brillante, avvolto in una nuvola di pessimismo divertito. E non mi sbagliavo. Spero davvero che abbia apprezzato quanto me il quarto d’ora che abbiamo passato a dirci delle cose in un cantuccio verdeggiante dell’NH Lingotto.

Due parole sul libro, prima di lasciarvi in pace a leggere l’intervista.

Destinazione America è un ritratto di Manhattan (e dell’America) alla vigilia dell’ascesa di Trump. Shteyngart ce la descrive utilizzando, in parallelo, due voci. Da un lato abbiamo Barry – “l’uomo più simpatico di Wall Street”, un finanziere che amministra hedge-fund in maniera non proprio eccezionale, ma che riesce più o meno sempre a cascare in piedi – e dall’altro c’è sua moglie Seema – figlia di immigrati indiani assai intransigenti, ha tutte le carte in regola per fare l’avvocato in uno studio prestigioso, ma ha sposato Barry e, ora, fa la signora ricca a tempo pieno. Vita idilliaca? Ovviamente no. Perché, al mondo, non tutto è in vendita. Barry e Seema partiranno ben presto per le rispettive tangenti, nel nome di una felicità che sentono di meritare ma che non sono ancora stati capaci di afferrare. Tra antichi rimpianti, Greyhound puzzolenti, autostrade che si snodano in un mondo fin troppo “reale” per gli standard di un milionario di New York, una meticolosa ossessione per gli orologi da collezione, ambizioni frustrate, scrittori boriosi, FBI e cantonate madornali, Shteyngart demolisce il sogno americano mettendo in mano il piccone proprio a due dei suoi “prodotti” di maggior successo. Che cosa resta? L’esigenza viscerale di scrollarsi di dosso le sovrastrutture e la vergogna per quello che siamo diventati, nel tentativo di riscoprirci – forse – un po’ più umani e predisposti, finalmente, all’imperfezione.

Di che abbiamo parlato? Un po’ di tutto, per mia fortuna.
Ecco qua le nostre chiacchiere.

Dobbiamo per forza partire dagli orologi, perché hanno un ruolo fondamentale all’interno del libro. E ho anche visto che le persone arrivano alle presentazioni cariche di orologi…

Oh, ma allora mi segui su Instagram! È vero. Spessissimo mi chiedono anche di autografare i cinturini! Forse pensano che la mia firma aumenti il valore dell’orologio. Credo sia vero il contrario, ma che ci dobbiamo fare.

In questo romanzo – e forse non solo lì – i soldi, insieme al tempo, sono un modo per misurare il valore di una persona.

Prima che iniziassi a scrivere questo libro, tutti i miei amici se ne stavano andando da Manhattan. I giornalisti, gli scrittori, gli artisti. Si stavano trasferendo tutti quanti perché non si potevano più permettere di vivere lì. Mi sono guardato un po’ attorno, allora. E mi sono chiesto: ma chi è rimasto? I banchieri, sono rimasti. Non c’è più nessun altro a Manhattan. Volevo parlare di loro, perché scrivo di New York e penso di dover raccontare la città così com’è… non posso creare una mia versione “inventata” di New York. Dopo qualche anno immerso in quel mondo ho cominciato a vedere tutto da una prospettiva basata sul valore. Ah, questa cosa vale TOT. Questa persona vale TOT. Vivere così è spaventoso. Poi ho fatto un passo indietro, per cercare di decomprimere. E mi sono spostato anch’io. Ora vivo a nord, per una metà dell’anno, in un piccolo centro a dure ore dalla città. E là posso concedermi di essere normale. Anche un sacco di miei amici che si sono trasferiti ormai vivono lassù, perché se lo possono permettere.

È un tema che abbiamo già incontrato, mi pare. In Storia d’amore vera e supertriste tutti hanno una specie di cartellino virtuale che fluttua sopra le loro teste e che mostra al mondo il loro valore.

Esattamente. Penso sia una conseguenza diretta dell’aver vissuto così a lungo a New York, quest’idea che ciascuno di noi abbia un numerino che lo qualifichi. Vale anche per Trump, che vuole continuare a farci credere che il suo numerino sia molto alto… anche se in realtà non lo è affatto.

C’è parecchio Trump, in questo libro. Quando hai iniziato a lavorarci?

L’ho scritto nel 2016, quando non era ancora diventato presidente. Credevamo che sarebbe rimasto un po’ in ballo nella corsa elettorale, ma nessuno pensava che potesse vincere. E poi, man mano che procedevo con il libro, mi sono ritrovato a dover aggiungere sempre più Trump… perché il 2016 stava andando in quella direzione.

Ecco, non mi ricordo a memoria il passaggio, ma a un certo punto c’è una frase che dice più o meno così: “Se sono così ricchi è impossibile che siano stupidi”. 

[Ride].

È uno dei grandi falsi-miti americani. Si pensa che la gente ricca sia anche incredibilmente intelligente. Barry, ovviamente, è molto ricco… ed è convinto di voler aiutare le persone. Ma le sue idee sono di un’idiozia assoluta. Vorrebbe istituire questo Urban Watch Fund per aiutare i ragazzini dei ghetti a comprarsi il loro primo Rolex. Eccomi qua, mi sto prendendo cura di voi!

Imprescindibile. In America è quasi obbligatorio che i “ricchi” diano l’impressione di voler aiutare la comunità con raccolte-fondi, iniziative benefiche, gran cene di gala. Ma vivono comunque in un universo completamente scollato da quello delle comunità che dovrebbero beneficiare della loro grande magnanimità. Che ne sanno?

Ma niente. Niente. Vivono in un mondo in cui esiste il loro club esclusivo di Midtown, il loro ufficio, la loro villa negli Hamptons. È un mondo veramente noioso. Io adoro mangiare… e in quei club il cibo è pessimo. Non so come facciano a campare così. Ho iniziato a portarli in giro per ristoranti. Ristoranti indiani, ristoranti veri. “Oh, santo cielo, che buono, ma pensa!”E hanno scoperto che si può mangiare qualcosa di incredibile per molto meno di 100 dollari a piatto.

In questo romanzo ci sono due punti di vista diversi. Abbiamo Barry, che parte per il suo viaggio – e chissà dove andrà a finire – e poi c’è Seema, sua moglie. Lei è una donna brillante, una che potrebbe farcela benissimo da sola, senza accalappiare un marito in mezzo agli hedgie di Wall Street. Che le è capitato?

La domanda non è solo cosa è capitato a lei, ma cosa è capitato a centinaia e migliaia di persone come lei. Incontravo di continuo mogli come Seema. Donne più intelligenti dei loro mariti, con un curriculum migliore di quello dei loro mariti. Quando si sposano, però, fanno due conti e cominciano a pensare che tutto sommato non valga più la pena lavorare. E si crea questo sistema sociale… futile. La moglie scorta i principini verso il futuro, punto e basta. È un sistema assolutamente misogino, che non aiuta nessuno. Ma immagina di essere il figlio di una queste mogli… che cosa fa la mamma? La mamma ha una laurea migliore di quello di papà ma passa tutto il suo tempo a escogitare un modo per far entrare il suo bambino ad Harvard. È davvero avvilente.

E le operazioni iniziano dall’asilo?

Iniziano dal nido, per certe scuole. Ho un bambino piccolo anch’io e quando abbiamo provato a iscriverlo – avrà avuto un anno, più o meno – ci hanno spiegato che no, la domanda va fatta pre-nascita. Insomma, se fai sesso e hai anche solo il sentore di aver concepito, la mattina dopo devi prendere il telefono e chiamare SUBITO. Salve, sì, abbiamo fatto l’amore proprio bene… potete tenerci un posto?

[COPIOSE RISATE NON TRASCRIVIBILI]

Uno dei veri problemi, in un contesto di questo tipo, è la gestione di quello che va storto. Ed è quello che capita a Barry e Seema. Loro figlio non è il bambino che si immaginavano, non sarà mai il principe che governerà il mondo. E non riescono ad accettarlo.

Esatto. Il loro bambino si colloca da qualche parte all’interno dello spettro autistico. La vita di Barry e Seema è strutturata per avanzare e convergere verso la perfezione – Barry per la sua infanzia tremenda, Seema per la severità dei genitori immigrati. Devono avere successo, ad ogni costo. E spunta una crepa, in mezzo a tutto questo. Per loro è così devastante da non poterlo nemmeno dire apertamente, Seema non può parlarne ai suoi. Devono far finta che vada tutto bene… ed è tragico, anche per il bambino.

Seema ha una cartella di foto sul telefono in cui Shiva sembra “normale”. E usa solo quelle foto, quando si tratta di far vedere suo figlio agli altri. All’inizio del libro vanno a cena dai loro vicini, che hanno questo bimbo perfetto che canta e recita filastrocche. E per loro è un’esperienza assolutamente mortificante.

Li distrugge. E Barry pensa, “ma com’è possibile? Io ho molti più soldi di loro! Mio figlio dovrebbe essere meglio del loro!”.

I soldi aiutano, ma a loro mancano proprio le basi di un rapporto umano significativo.

Non solo. Barry fa la spola da un’università all’altra distribuendo donazioni nella speranza che qualcuno smentisca la diagnosi di suo figlio.

E poi parte per il suo viaggio, che si trasforma in un’avventura comica e surreale. È come se vedesse il mondo per la prima volta. Oh, guarda, un Walmart!

Esatto! Ho un sacco di azioni di Walmart, ma non ne avevo mai visto uno! Incredibile!

Barry ha anche un’assistente che si occupa di ogni dettaglio della sua vita. Man mano che il viaggio procede, però, comincia a separarsi dalle sue carte di credito, dal telefono… che cosa rimane di Barry?

È proprio quello il domandone. Gli americani sono convinti che la loro vita sia composta da numerosi atti. Certo, si comincia col primo atto… ma puoi sempre diventare una persona diversa. È un paese grande, se vuoi trasferirti nel sud-ovest per allevare bestiame in un ranch o spostarti chissà dove per coltivare avocado lo puoi fare. In realtà, però, sei sempre la stessa persona. Quel che manca, a volte, nella mentalità americana, è la consapevolezza che dopo un po’ di tempo – quando ormai ha superato l’infanzia – non cambi più per davvero. Barry decide di partire per riscoprirsi, vuole ritrovare la sua fidanzata storica, fare questo, fare quello… ma alla fine è sempre lo stesso schmuck di prima.

Quando va a cena con i genitori della sua ex fidanzata si trova davanti a due persone paralizzate dall’imbarazzo, che cercano in tutti i modi di dirgli – invano – che il passato è passato.

Il passato è passato. La reazione di Barry? “Oggi posso comprarmi questo passato. Se solo avessi sposato la mia ragazza del college, tutto sarebbe andato in un’altra maniera”.

Verissimo. Sono tutti alle prese con un rimpianto antico o con un errore a cui cercano di porre rimedio. Forse è ormai un luogo comune… ma è possibile che nel sogno americano qualcosa sia andato storto?

Molto storto. Anzi, potremmo dire che è finito. Ma è stato bello, per un po’. Tutto finisce. E questa è un’altra cosa che gli americani non capiscono. Pensano di essere un paese eccezionale – non è mai esistito niente di così straordinario! – ma abbiamo avuto l’impero romano, il dominio spagnolo, l’impero mercantile olandese, l’impero cinese… è come un giro sulle montagne russe. E ora la parabola è decisamente discendente.

Forse è anche una conseguenza dell’economia che abbiamo costruito. Le cose vanno male ma non comprendiamo a pieno le cause… anche se siamo stati proprio noi a creare quel sistema.

Quando un sistema diventa ipercomplesso, com’è ora, è l’inizio della fine…

*

Grazie a Guanda per aver ritagliato un po’ di tempo anche per me nell’agenda massacrante del buon Gary. E grazie soprattutto a lui per le splendide chiacchiere. E per questo libro, che come sempre ci fa disperare per la spietata limpidezza di quel che ci restituisce… ma ci fa anche sguazzare con vero divertimento nell’arte nobilissima del paradosso.
🙂

*

Tra le cose più belle che possono capitarci in assoluto nella vita ci sono sicuramente i libri e i viaggi. Questi due indiscutibili doni del cielo possono di certo continuare ad esistere senza mai incontrarsi o, magari, trovare un punto d’intersezione in un bel pomeriggio estivo, quando vi piazzate a leggere sotto l’ombrellone. Si può fare di più, però. Si può viaggiare insieme ai libri. O sulle tracce dei libri. O seguendo le orme degli autori che quei libri li hanno scritti. Si possono costruire itinerari letterari per approfondire un determinato angolino del globo, partendo in compagnia e decidendo di condividere un po’ di strada con chi, come noi, viaggia ogni volta che apre un libro e, di tanto in tanto, ama anche viaggiare facendo concretamente i bagagli.
Marta Ciccolarila McMusa per tutti – è un personaggio dal multiforme e vasto talento. Giornalista, blogger, animatrice di esaurientissimi corsi di Letteratura Americana, Marta organizza dal 2014 dei MIRABILI viaggi on the road negli Stati Uniti, tutti caratterizzati da un preciso tema libresco. Visto che l’idea è nobilissima e variamente meravigliosa, ho deciso di farle qualche domanda. Qui trovate le nostre chiacchiere e, per approfondire (e magari prenotarvi un’avventura), ecco qua il campo-base dei suoi Book Riders.

Marta, premettendo che partirei domani per uno dei tuoi tour, come diamine sei finita a organizzare viaggi negli Stati Uniti per appassionati di letteratura americana? Ammetterai che non è unoccupazione in cui ci imbattiamo frequentemente… 

No, in effetti no! Ma a me piace così tanto, e sento che mi calza proprio a pennello! Ho avuto un’illuminazione dopo un lungo viaggio negli States nel 2013: sono stata ospite di diverse famiglie nel Central Illinois per uno scambio professionale e poi ho proseguito per il viaggio della vita, cinque settimane da sola sulla West Coast, da nord a sud, da Seattle a San Diego. Ero appassionata (e grande studiosa) di letteratura americana da anni, ma fu durante quel viaggio (ore e ore on the road) che realizzai: sì, ma le persone devono sapere, devono conoscere questa America! Remota, sorprendente, diversa da quello che noi pensiamo di sapere.

Ho iniziato aprendo il blog e mettendomi semplicemente a raccontare; poi ho proseguito con i corsi, viaggi immaginari stato per stato nella letteratura americana, rivolti a un pubblico di lettori curiosi. Poi ho conosciuto Xplore, tour operator torinese specializzato in viaggi americani. Li ho conosciuti, li ho sentiti affini e scatenati come me e ho detto: ragazzi, io voglio trasformare i miei viaggi letterari in viaggi veri. E così, a un tavolo di un bar assolato nel centro di Torino, sono nati i Book Riders! 

Arriva prima linnamoramento letterario per un preciso luogo geografico o è il fascino di un posto che ti fa venire voglia di approfondire e di leggere? 

Quando ero piccola mio padre mi portò a fare un viaggio in Svizzera, Austria e Germania sulle tracce dei suoi pensatori guida: Freud, Jung, Herman Hesse, Thomas Mann. Per una magia che oggi ricordo con estremo affetto riuscimmo a entrare a casa di Jung sul lago di Zurigo, conoscemmo la nipote, girammo per le quelle stanze circolari che mio padre aveva solo osato sognare durante i suoi studi. Ecco, io credo che sia nato tutto lì, in quella magia.

Ho iniziato a pensare alla letteratura come a un mondo in cui si può entrare e quando ho iniziato a viaggiare in America l’ho fatto tenendo sempre a mente i racconti che me l’avevano fatta amare sin dai tempi della scuola. Adesso che il progetto è avviato posso dirti, però, che arriva prima l’innamoramento letterario. Un innamoramento che può moltiplicarsi dopo che quel posto l’ho visitato per davvero. Il luogo può farmi venire voglia di approfondire, lo guardo con gli occhi della guida letteraria, cerco di capire quali storie potrebbero sorprendere i miei compagni di viaggio, quali dettagli potrebbero amare. Il viaggio in Texas, ad esempio, mi ha fatto venire una voglia di leggere matta e irrefrenabile, sia prima di andarci che dopo (credo si noti, non parlo d’altro da mesi!).

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Ogni destinazione ha un tema. La California del noir, il “wild wild Texas, la Louisiana magica. Come nascono gli itinerari? Ti armi di piletta di libri e di mappa dello stato e vai in cerca di tutti quei luoghi letterari che i tuoi Bookriders potranno vedere sul serio o si tratta di viaggi più “sentimentali?

La prima, condita di qualche tocco strategico. Ti faccio entrare proprio dentro il mio lavoro: penso a uno stato, mettiamo appunto il Texas. Faccio una lista di libri letti e non letti. Penso a cosa del Texas mi piacerebbe evidenziare e conoscere, sia attraverso quei libri che sul posto. Vado in Texas e faccio un viaggio di esplorazione (ecco, premessa fondamentale: non porto mai i Book Riders in posti che non abbia già esplorato da sola o con la mia fida compagna di viaggi, Valeria). In Texas aggiungo o tolgo da quella lista altri libri, scopro un sacco di cose nuove, leggo e ascolto e, sulla base delle mie intuizioni in loco e di quello che ritengo più efficace per far appassionare i Book Riders, raggruppo libri, scrittori, articoli, immagini in un unico tema. Ci sono stati americani, come ad esempio la California, in cui il tema diventa fondamentale: troppa letteratura, non avrebbe senso includere tutto incondizionatamente, è bene trovare un percorso che restituisca più di altri l’anima, l’essenza di quelle zone.

Se poi la domanda era: ma i luoghi letterari (magici, selvaggi, noir) esistono tutti per davvero? allora la risposta non può che essere: certo!

Ho letto il decalogo del Bookrider perfetto. E oltre a pensare che hai fatto benissimo a stilarlo, mi sono anche molto divertita. E vedendo i video dei vostri viaggi passati mi pare anche che funzioni. Cioè, i gruppi mi sono sembrati affiatatissimi! Quant’è importante il lavoro sulla “filosofia di viaggio, per un progetto come il tuo?

Mi fa un gran piacere che tu abbia notato questa cosa, sai? È la parte del progetto su cui lavoro di più ma è forse quella che risulta meno visibile. Sì, esatto, scegliere le letture, gli autori guida, le tappe del tour è un lavoro meno complesso rispetto alla cura dello spirito di gruppo. A me preme che i Book Riders facciano esperienza dell’America a tutto tondo, che riescano ad apprezzare l’autenticità di un desolato paesino di provincia così come di uno scintillante quartiere di Los Angeles, di un motel abitato dalla peggio gioventù così come della frontiera con il Messico. Se vengono meno la curiosità, lo spirito di adattamento, la flessibilità, l’apertura mentale allora viene a mancare tutto: il mio lavoro è quello di inserire ogni cosa (luoghi, parole, persone) in un unico racconto, di rendere ogni dettaglio sorprendente e interessante, di prepararli a quell’autenticità in modo che la possano apprezzare. Molte delle persone che vengono in viaggio con me hanno già frequentato i miei corsi in Italia, quindi sono già dentro lo “spirito McMusa”: profondo ma pop e informale. In viaggio si va ancora più a fondo, discutiamo, ridiamo, ci interroghiamo, leggiamo, parliamo con le persone del posto.. poi certo, più loro diventano curiosi, più è difficile gestire le loro domande.. ho una nota aperta sull’iPhone intitolata “Le domande dei Book Riders”: dovreste leggerle, alcune sono assurde! “Marta, perché ci sono così tanti pick-up rossi in questo parcheggio?” Ragazzi, NON LO SO.

So che non è riassumibile in due parole, ma proviamo. Com’è la giornata tipo di un Bookrider che viaggia con te?

Sveglia prestino, ritrovo verso le 9. Se l’hotel offre la colazione bene, altrimenti dedichiamo al breakfast la prima parte della giornata. E con breakfast intendo: bacon, uova, pancake, toast, patate, avocado e tutto quello che può servire per affrontare una giornata piena on the road. Partiamo, tutti dentro il nostro van personalizzato e via verso la prima tappa! Alcune giornate sono più rurali, altre più urbane. Ognuna prevede da uno a tre momenti letterari: i Book Riders si radunano intorno a me e io leggo o racconto una storia relativa al posto in cui ci troviamo. Possiamo essere seduti su un molo sul Rio Grande, nel giardino di casa di Wallace, in un’aula universitaria, sullo stesso van (in certe periferie di Chicago, ad esempio, è meglio non scendere, anche se è fondamentale vederle), nel museo del rock di Seattle. Gli spostamenti da un paesino all’altro portano via parecchie ore e in quelle ore il protagonista assoluto è il finestrino. E anche la musica! L’America vera si scopre on the road! Di solito si arriva a destinazione intorno alle 18, breve momento di riposo e poi cena molto presto, intorno alle 19 (e in tantissimi posti è già tardi, le cucine chiudono alle 20). Chi ce la fa va a bere qualcosa più tardi, chi è stanco rientra in hotel. Per fortuna i dettagli tecnici (la guida del van, la scelta dei ristoranti, la relazione con gli alberghi, la prenotazione dei voli) è a cura di Claudio e Federico di Xplore: il primo accompagna i Book Riders in tutti i viaggi nuovi, il secondo li coordina tutti da Torino. 

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Un episodio particolarmente favoloso che ti ha fatto pensare “mamma mia, voglio continuare a fare questi tour per leternità”.

Lo penso spesso, sai? Mi emoziono moltissimo in viaggio e quell’emozione è un gran motore. Però l’episodio con la E maiuscola è stato l’incontro con Tess Gallagher, la moglie di Raymond Carver, sulla tomba del marito il giorno del compleanno di lui. 25 maggio 2016. È stato un regalo del destino! Noi avevamo in programma una giornata emotivamente niente male: visita mattutina ad Aberdeeen, paese natale di Kurt Cobain, e poi su verso Port Angeles, casa di Tess e Ray durante i loro ultimi dieci anni felici insieme nonché avamposto magnifico sul Pacifico dove il grande scrittore è sepolto. Quel mattino mi sveglio, guardo Facebook e scopro che è il compleanno di Carver! Mi viene un colpo, penso “va a finire che ci imbattiamo in qualche commemorazione”. E così succede, con tempi e modalità che solo un raffinato deus ex machina poteva aver messo in atto: arriviamo al cimitero dopo soste impreviste, ritardi e deviazioni; vediamo un gruppo di persone radunate vicino a una panca e una lapide nere; io faccio la maestrina e dico ai Book Riders di comportarsi bene perché quelli probabilmente stanno facendo un funerale ma non finisco neanche la frase perché vedo lei e mi pietrifico. “Cazzo, ragazzi. Ma quella è Tess Gallagher!” E da lì comincia un’ora di abbracci, lacrime, poesie lette nel vento del Pacifico, torte cucinate e mangiate in suo onore, batticuore e incredulità. C’è un video anche, che testimonia la mia e la nostra emozione: mi chiesero di leggere una poesia in italiano, e io lessi Per Tess. Lì ho proprio pensato: voglio continuare a inseguire questi momenti per sempre. Me lo sta dicendo il fato.

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E una disavventura assurda, invece?

Chicago. Primo tour, prima sera. Per iniziare col botto! Andiamo a mangiare in un ristorante vicino al locale di Al Capone direttamente dopo l’arrivo. Parcheggiamo il furgone in un parking lot abbastanza vuoto e trascorriamo spensierati un’oretta a tavola. Quando torniamo nel parcheggio il furgone non c’è più! Sparito, andato. Panico. L’avevano rimosso. Tutt’altro tipo di incredulità questa! Poi l’abbiamo ritrovato e il viaggio non ha più subito sparizioni misteriose, ma ci siamo detti che non saremmo mai più andati a mangiare fuori la sera dell’arrivo: il jet-lag non ci aveva fatto vedere il cartello NO PARKING.

So che sei al lavoro sulla prossima tappa. Quale sarà e come sei messa con i preparativi?

Nei canonici periodi di vacanza ripropongo i vecchi viaggi in versione mini: stesso tour, gruppo più piccolo, solo io come unica accompagnatrice. Quest’estate porterò due gruppi di mini Book Riders nel Pacific Northwest, l’angolo di America tra Seattle e Portland, sotto il Canada. Ma la vera novità che annuncio a te e ai tuoi lettori in esclusiva è che, visto che quest’anno ricorre il decennale della morte di David Foster Wallace, a metà settembre vorrei portare un gruppo di appassionati a conoscere i suoi luoghi dell’Illinois e i suoi amici dell’università di Bloomington, dove lui insegnò per dieci felici anni. È una notizia fresca fresca!

Visto che i pazientissimi lettori di Tegamini sono abituati a ricevere consigli libreschi – più o meno riusciti -, cosa stai leggendo ora?

Leggo sempre tanti libri insieme quindi no panic: La straordinaria famiglia Telemachus, un romanzo di Daryl Gregory con nonni nipoti e genitori di Chicago affetti da poteri magici a cui le cose a un certo punto cominciano ad andare male; Lospite donore di Joy Williams, sono 46 racconti, me ne gusto uno ogni tanto; Loitering di Charles D’Ambrosio, raccolta di non fiction utile per il viaggio di quest’estate e, tra lavoro e passione, In a Narrow Grave, saggi sul Texas scritti dal più grande scrittore texano vivente, Larry McMurtry.

E i tuoi pilastri irrinunciabili, sempre rimanendo sulla narrativa americana?

Cormac McCarthy e Don DeLillo, i maestri a cui mi inchino. Joan Didion e Bret Easton Ellis, i californiani del mio cuore. Raymond Carver, lo scrittore che tutti amano per i racconti ma che a me ha fatto scoprire la poesia. Patti Smith e Sam Shepard, mi emoziono solo a scrivere i loro nomi.

Concluderò con una domanda di raro spessore. Quanti libri trasporta in valigia il Bookrider medio?

Macché, loro ne porteranno uno o due al massimo! Poi hanno gli ebook sul tablet e il libro di viaggio che gli faccio io (una raccolta di articoli, racconti, foto e approfondimenti vari in pdf). Quella che ha un lato di valigia sempre pieno di libri sono io! Ma del resto, le foto con il Kindle in mano mica sarebbero la stessa cosa!

*

[Foto di Elena Datrino]

Per addentrarvi meglio nel McMusa-mondo, ecco qua il suo sito.

E’ un periodo di grande fermento per il mio cranietto!
O almeno credo.
Qualche tempo fa, in un momento minimalista, mi sono messa a buttare via un po’ di cose scassate. In mezzo alle scarpe rotte e alle canottiere con un buco di lato – capita, quando si è imballati: vuoi tagliare l’etichetta che punge ma sei una pirlona e ti squarti gli indumenti – c’era anche l’adorato cerchietto turchese-piumato acquistato su un bel marciapiede di Soho da un’allegra artigiana spennatrice di volatili. Il prezioso manufatto, indossato con orgoglio in ben due continenti – nonostante l’intrinseca delicatezza della sua conformazione -, era ormai sbilenchissimo e visibilmente triturato. E niente, l’ho buttato via con immensa mestizia, c’era poco da aggiustare o rattoppare. Come minimo c’era su un archeopteryx. Come fare, però? Come fare, senza un cerchietto bizzarro? Presto, i soccorsi! Ho suonato l’allarme ed è apparso Lorenzo Bises, con il bandierone di Un petit truc sur la tête. E ora posso tornare al Plastic con onore, perché Lorenzo mi ha fabbricato un cerchietto poffoso di tulle-minipony, tutto per me e unico nell’universo.
E ora funziona così.
Ci sono un po’ di foto buffe e poi c’è una chiacchierina con Lorenzo, che ci spiega chi è e che combina, tra un trono inglese e l’altro.
Orsù, cominciamo.

truc tegamini my little ponyIl mio TRUC, perbacco! Tre strati di morbidezza tullosa.

tegamini trucIn tenuta ufficiale Tegamini-autunno/inverno – la vestaglietta! In occasione del mirabile cerchietto, però, è necessario salutare come una principessa in carrozza. 

Ma presentiamoci alle persone, maestro di TRUC! Chi sei e che combini?

Mi presento, sono Lorenzo Bises, vivo nella paludosa e nebulosa Lombardia, alle porte di Milano ma sono nato e cresciuto a Roma, patria dei supplì e della panna montata gratis sul gelato. Ho studiato storia dell’arte, lavoro come istruttore di nuoto, ho un blog dal titolo Pezzenti con il papillon e mi diverto creando cappelli e fascinators.

Com’è che a uno viene in mente di fabbricare cappellini e cerchietti?

A dir la verità ho sempre avuto un debole per i cappelli, io ne ho tantissimi e la passione si è poi tramutata in una sorta di tentativo. Una prova. “Chissà che tu non possa metterti a fare i cappelli” mi sono detto, poi ho lavorato da una modista in Francia e lì ho captato alcune regole su colori, abbinamenti e gusti.

Ma si impara, da qualche parte?

Io non ho imparato, nella boutique in Francia osservavo i cappelli fatti e i vari accostamenti tra la base e la decorazione. Mi sono evoluto da solo, ho cercato di imitare i cappelli inglesi dei matrimoni reali per capire l’equilibrio di un copricapo. Inutile dire che ho ancora un sacco di strada per arrivare a confezionare un vero fascinator alla Kate Middleton.

Illustraci con dovizia di particolari i TRUC che ti possiamo venire a chiedere. E soffermati molto sulla cuffia con la veletta, che a Natale ne voglio una.

I miei truc partono dal presupposto che nessuno conduce la vita della Duchessa di Cambridge ma che tutti vorrebbero averla. Quindi ce n’è per tutti i gusti, dai più sobri fiocchetti colorati portabili tutti i giorni fino agli estrosi cappellini piumati per un matrimonio o una festa importante. La veletta è il dettaglio che preferisco, è sensuale ed elegantissima. Cucita su un berretto è spiritosa ma MOLTO fashion style.

Il primo TRUC che hai fabbricato?

I miei primi truc erano cerchietti con enormi fiori. Il primo è stato la Ninfea gigante, uno dei miei preferiti in assoluto.

Il TRUC più folle che ti hanno chiesto di produrre. Sconvolgici.

Il truc più estroso è quello che mi ha commissionato una sposa che ha voluto un grosso batuffolo di tulle bianco con una dozzina di piume rosse. Io pensavo fosse esagerato ma è incantevole e lei sarà la sposa piumata del secolo.

Icone assolute di FESCIONISMO?

Non amo le icone, credo di più nelle ispirazioni. Creando dei cappellini/fascinators, non si può non pensare a Kate Middleton (nessuna li porta come lei), ad Anna Piaggi, Isabella Blow e a Beatrice di York che è brutta ma ha un ottimo gusto.

Una sincera opinione su Miley Cyrus. Che di questi tempi è necessario averne una.

Miley Cirus? Non seguo molto le sue peripezie ma il berretto con la veletta le stava molto bene.

L’ultima cosa molto bella che ti è accaduta.

Mi hanno reso felici le ragazze che venendomi a trovare all’ultimo mercatino fatto si sono provate tutte le creazioni ed erano sinceramente entusiaste. Per me è un onore.

Dov’è che ti possiamo leggere/trovare e importunare?

Mi potete stalkerare, e ne sono felice, sulla pagina Facebook petittrucsurlatete, su twitter @Lorenzobises oppure sul blog Pezzenti con il papillon. Mentre le mie creazioni le potete trovare presso il negozio “Cavalli & Nastri” in via Brera 2, Milano.

Saluta con regalità.

Grazie mille a tutti e alla simpaticissima Francesca.
Un abbraccio.

 

Dov’è il mio regno!
Portatemi un regno!

 

Non sarò una FESCIONBLOGGHER con tesserino di riconoscimento e cane ripugnante al seguito ma, se permettete, le borse piacciono pure a me. E quindi mi impiccio – e a gratis, mossa dal puro e semplice entusiasmo, che tanto se faccio finta ve ne accorgete subito.
Dunque, grazie a uno dei bellissimi Almeno tre cose di Zeldawasawriter, ho scoperto che al mondo c’erano le cartelle di le grenier de vivi. Mai al mondo avrei pensato che potesse piacermi una cartella, ma credo sia perché ne ho sempre viste di orribili. Fosforescenti, con le borchie, piene di pirolini e teschi, squadrate e dure come il mattone. Tutte uguali, noiosone e spigolose. Che siamo, degli ufficiali della Gestapo?
Ecco. Qua no, qua sboccia la poffosità. Il logo di le grenier è un cavallino a dondolo. Ci sono colori pastello, forme tondeggianti, ghirigori da piattini delle bambole. E mi sono subito sentita molto a mio agio. Anzi, pure incuriosita: ma da dove verranno? Chi se le sarà inventate? In un giorno di particolare risolutezza, dunque, ho gettato il cuore oltre l’ostacolo e ho mandato qualche domanda a Valentina D’Amato… e sotto le adorabili cartellette-rosette potete leggervi l’intervista.

Non sono molto da cartelle. O meglio, non lo ero. Sarà che non mi garbano i colori fluo o la pellaccia dura dura da anfibio Dr Marten’s (le mie non si sono MAI ammorbidite. Al solo pensiero ancora mi si spellano i calcagni). Poi, però, saranno i cavallucci a dondolo, saranno le fantasie da teiera della nonna, saranno i colori, ma mi sono convertita. Come si sceglie la stoffa per una cartella-fiaba? Perché è così che le vedo io, sono borse-fiaba.

È una questione di cuore, occhio, istinto. Ho sempre amato quel mondo segreto che sanno creare e vivere i bambini, fatto di stupore, curiosità, il perdersi nella ricerca di qualcosa che colpisca e attiri l’attenzione. Ecco, questa è la stessa cosa che accade a me quando inizio la ricerca di un tessuto.

Sempre parlando di stoffe, dov’è che si trovano delle meraviglie del genere? Anzi, facciamo che ci racconti anche il luogo di approvvigionamento più bizzarro, che fa poesia.

In Italia siamo pieni di bravissimi tessutai che hanno archivi che nascondono meraviglie. Uno dei più magici per me si trova in un piccolo paese in provincia di Como: varchi la soglia di un magazzino in una strada isolata e ti si apre un mondo!

Dieci anni dieci da Moschino, e poi un marchio tutto tuo. Ci vogliono sogni, ci vuole coraggio, ci vuole della sana incoscienza, insomma, cosa ci vuole per iniziare un’avventura così?

Non so se si tratta di coraggio, ma dell’istinto che ognuno di noi ha e dalla decisione di assecondarlo o meno. Per me è stato fondamentale decidere di fermarmi e ascoltarmi, è una sensazione bellissima che ripaga degli sforzi che ne conseguono nel decidere di cambiare rotta.

Com’era la prima borsa che ti sei inventata?

In realtà era uno zaino… ed è in programma l’idea di  realizzarlo per farvelo conoscere, quindi stay tuned!

Ma abiti davvero in campagna? Anatroccoli e tutto?

Sì, tra i cavalli, che sono il mio mondo, e tanti altri animali.

Che cosa hai in mente per il futuro delle tue cartelle e del fido cavallino a dondolo?

Continuare a rimanere in questo mio mondo un po’ fiabesco e preppy con nuovi modelli che verranno aggiunti in futuro.

 

I libri divertenti sono molto necessari. Almeno, a me i libri divertenti servono moltissimo. Mi riposano. Mi fanno delle sorprese. Mi scarrozzano in posti improbabili. Si fanno leggere in fretta e lasciano quella piacevole sensazione di contentezza cicciottella che, di solito, sopraggiunge appena dopo aver mangiato uno di quei cioccolatini giganti al RUM. Dovrei leggerne di più, di libri divertenti, dovrei mettermi in piedi su una bianca scogliera e gridare alla vastità degli elementi una roba tipo “leggetevi un libro divertente, ogni tanto!“.
Ecco.
Vi griderei anche qualcosa sull’Atletico Minaccia Football Club di Marco Marsullo, che è uscito da poco per Einaudi Stile Libero rallegrandomi quasi quanto mille foto di cuccioli molto piccoli. Potevo mettermi qua a far fatica, ma poi ho pensato che magari era più bello per tutti quanti se a dirvi delle cose ci veniva il Marsullo in persona. E allora gli ho fatto un po’ di domande. Qualcuna è seria, qualcuna per niente. Lui però è sempre impeccabile. Insomma, divertitevi qua e divertitevi col libro.

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Messer Marsullo, direi di procedere con ordine e precisione. Che faceva prima di diventare un giovane scrittore?

Studiavo con scarso profitto all’università, facoltà di giurisprudenza: media del 21.9. Un salasso dell’anima. Poi una mattina Einaudi mi ha chiamato e sono diventato, automaticamente, un giovane scrittore.

Lo sa, vero, che sarà considerato un giovane scrittore fino ai cinquant’anni (indipendentemente da come se li porta)?

Lo so, da queste parti è così. Infatti io mi definisco, talvolta, uno “scrittore liquido amniotico”, a 27 anni giovane è pure troppo.

Il suo libro è pieno zeppo di gente che piglia a calci il pallone. Lei come se la cava?

Sono un difensore centrale senza fronzoli. Per me palla e gamba sono la stessa cosa. Chiaro: non entro mai duro per far male apposta, però può capitare. Diciamo che ho dovuto sopperire con il cuore ciò che madre natura non mi ha dato nei piedi. Ah, e sperdo (quasi) sempre il pallone fuori dal campo quando faccio un tiro al volo.

Scusandomi in anticipo per lo sfoggio di stereotipi, c’è una vicenda che mi stupisce. Che cosa spinge un napoletano a tifare Milan con travolgentissima passione?

Quando ero piccolissimo (5 anni) mio zio mi chiese quale fosse il mio calciatore preferito. La risposta fu Van Basten. La conseguenza fu AC Milan. E per fortuna, amo la mia squadra in modo viscerale. PS: Forza Lotta / Vincerai / Non ti lasceremo mai!

Come devo comportarmi con la mia maglietta di Ibrahimovic, ormai obsoleta?

Be’, io Ibra lo rispetto. Nel senso: lui è un mercenario, lo ammette, lo ha sempre dimostrato. Ma mercenario non in accezione negativa, come tanti calciatorini che si baciano la maglia e il giorno dopo trattano con altre squadre per guadagnare il doppio. Zlatan è così: non fa promesse, non si innamora, in campo dà tutto per i suoi colori del momento. Poi dopo un paio d’anni se ne va, cambia. Devo tanto a lui e ai suoi gol. Gli voglio bene, possiamo dirlo.

Continuo ad essere invaghita di Zvonimir Boban, dovrei preoccuparmi? È bello pure il nome: ZVONIMIR.

Anche io ho un problema con Zvonimir “Zorro” Boban. Era un numero 10 fantastico, un giocatore geniale. Lo amo ancora, infatti quando lo becco a commentare in tivù mi impallo lì davanti a fissarlo. Grazie, Zorro.

Un giorno si è svegliato – magari anche un po’ tardi – e ha deciso che avrebbe scritto un libro. Insomma, da dove viene l’Atletico Minaccia?

Viene da un’intuizione. Una sera guardavo Mourinho in televisione e in venti secondi si è materializzato Vanni Cascione (il mister sfigato dell’Atletico Minaccia). Il resto è venuto fuori in tre mesi, una storia che si è davvero scritta da sola. E poi l’Atletico è la squadra che tutti vorrebbero vedere in campo: non ortodossa ma piena d’onore, un’accozzaglia di pazzoidi con i tacchetti ai piedi.

Giocatore preferito dell’Atletico Minaccia. (Io adoro il quarantenne che in carriera ha superato la metà campo solo tre volte).

Voglio bene a tutti, però ne ho due. Peppe Sogliola, il centravanti, perché lui è il vero trascinatore, quello che più di tutti salva la panchina di Cascione in più riprese. E Sasi Mocciardi: il numero 10 arrogante e presuntuoso, col suo tatuaggio del “Pocho Lavezzi che si ammocca (bacia, per i non napoletani, ndr) con la Madonna” che gli ricopre la schiena. Ecco, lui mi è piaciuto proprio scriverlo, quando lo rileggo rido io per primo di gusto.

Tifoso preferito dell’Atletico Minaccia. (Io voto Renetta. E deve anche sapere che ero in treno, quando mi sono imbattuta nella meravigliosa storia del soprannome del Renetta. Ero in treno e ho riso da Asti a Milano Centrale, suscitando la curiosità di tutti i consulenti incravattati che mi circondavano e facendole così vendere almeno dieci copie, controllore compreso).

Michele Caputo: l’ex ultrà del Benevento che, senza nessun motivo, comincia a diventare folle dell’Atletico Minaccia Football Club. Però a Renetta e Caracas voglio proprio bene, come due amici.

Mourinho l’ha ricevuto, un Atletico Minaccia?

Gliene abbiamo mandata una copia, sì. Sono quasi sicuro che quando l’ha ricevuto, ha detto: “Marsullo? Non lo cunosco. Io cunosco Marzulo, presentatore tivù, marsupio, borza per purtare ojetti, ma Marsullo non lo cunosco”.

Consigli un bel libro alle nuove generazioni.

“I frutti dimenticati”, di Cristiano Cavina. Commovente e sincero ritratto del rapporto padre-figlio, e delle sue difficoltà. Oh, anche io riesco a essere serio, ogni tanto.

Lei da cucciolo che cosa leggeva?

Ho letto poco, e questo, seriamente, è il più grande rimpianto della mia vita. Ho iniziato con Paulo Coelho a 17 anni (!!!), poi ho incontrato (il primo) Ammaniti. Non proprio due cose accostabili. Da lì ho capito cosa mi piaceva.

Ma i calciatori, scrivono e basta o leggono anche qualcosa?

Non saprei, credo qualcuno legga, non sono così capre come sembra. Mi piace immaginare che qualcuno prenda (o gli venga regalato, va’) il mio Atletico Minaccia. Si farebbero un sacco di risate.

Fifa o PES? Ma soprattutto, che ci trovate in quelle robe lì?

Fifa, rigorosamente Fifa. Da più piccolo ero un accanito giocatore di PES (l’allora: Winning Eleven), ma da un paio d’anni (da quando, in pratica, ho preso l’Xbox) Fifa ha divorato il suo concorrente. Non c’è più partita. In “quelle robe lì” ci troviamo la cosa più sacra e forte che fa di noi uomini, Uomini: la Sfida. È tutto lì.

Fornisca alla popolazione italica qualche buon motivo per leggere il suo romanzo.

Fa ridere, fa pensare, fa appassionare alla vicenda, umana e non solo calcistica (le migliori recensioni le ho avute da donne, ad ora!), di questo allenatore scalcagnato, Vanni Cascione, un po’ canaglia e un po’ sognatore. E poi c’è il rapporto con sua figlia 14enne, che in tutto il romanzo è una specie di filo di Arianna che condurrà alla fine con una soluzione. Ma soprattutto, e vi parlo col cuore: l’ho scritto con tutta l’onestà e la sincerità del mondo. Volevo solo raccontare una storia, ho provato a farlo nel modo più vero possibile.

E ora, che cosa accadrà? Il tour promozionale le spezzerà per sempre le gambe o ha già in mente delle nuove storie?

Dopo i primi giorni in libreria posso dire solo una cosa: non ci sto capendo niente, e non me lo aspettavo. Ricevo ogni giorno messaggi via mail, su Twitter, su Facebook, dove tantissimi sconosciuti (gli amici l’hanno già preso, eh) mi fanno i complimenti e dicono di aver letto/preso il romanzo. Uau. È tutto stupendo. Poi sono stato a “Quelli che il calcio” e mi sono divertito un sacco. Diciamo che è una lavatrice, per ora. Ma detto questo: sto scrivendo il romanzo di dopo, sono a un ottimo punto, non dimentico mai una cosa: io sono uno che racconta storie. È la cosa che più mi piace fare. Non smetterò facilmente.

Per concludere, vorrei ricordarle che una volta, su Twitter, mi ha mandato un DM che così recitava: FIDANZIAMOCI IA’! Così, senza nemmeno un ciao.

Ti risponderò con una citazione finale di uno dei miei film (e romanzi) preferiti: “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”. E in ogni caso, Francesca: “Fidanziamoci, ià!”. E il “Ciao” lo aggiungo ora. A te e ai tuoi lettori. Stare su Tegamini è il mio sogno fin da quando non ero ancora un giovane scrittore einaudiano. Adelante! E grazie.

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