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Dunque, ci sono delle signore di un sobborgo-bene di Charleston che bidonano un bookclub pretenzioso per fondarne uno “specializzato” lì per lì in true-crime, delitti efferati, cronaca nera e grandi misteri americani. Sono amiche, hanno tutte una manciata di figli a testa, dei mariti che lavorano mentre loro badano al tran tran domestico e delle casone col pratino da curare. Sono immerse in un contesto di “vicinato” a metà tra l’invadenza e l’estrema premura: qui ci vive solo gente come si deve, siamo una grande famiglia, la nostra comunità è genuina e virtuosa. Siamo negli anni ‘90 e Patricia Campbell è afflitta – come le sue amiche – da tutte le migliori intenzioni della Brava Moglie del Sud. Ma cosa succede quando in una comunità così affiatata e unita appare un elemento di rottura – e di potenziale stravolgimento?

Il “corpo estraneo”, per le nostre affiatate lettrici, è un nuovo vicino che arriva nel quartiere per prendersi cura – a suo dire – dell’anziana zia. Sembra un tizio a posto, ma non lo si vede mai in giro di giorno, guida un furgonaccio, pare sprovvisto di documenti, risponde con cordiale evasività (e palesi contraddizioni) a ogni domanda personale e resta sullo zerbino finché non lo si invita esplicitamente a entrare in casa. La suocera invalida di Patricia perde la brocca appena lo vede e sostiene a gran voce di averlo già incontrato da bambina: questo qui è il tizio che ha distrutto le nostre famiglie! Patricia non sa bene cosa pensare: Miss Mary è senza dubbio più di là che di qua, ma tanti altri piccoli incidenti cominciano a verificarsi attorno a James Harris… e forse vale la pena indagare.

Mentre Patricia si esercita a demolire le barriere del suo razionalissimo mondo per confrontarsi con qualcosa che sfida il senso condiviso della realtà, James Harris si guadagna la fiducia di mariti, figli e figlie, semplici passanti, ratti. Nel quartiere afroamericano cominciano a sparire dei bambini, ma nessuno – a parte Patricia e la badante di Miss Mary, che viene da lì – pare scomporsi. I nostri figli stanno bene, no? I ragazzini neri si mettono sempre nei guai, che sarà mai.
In un’alternanza di ipocrisie terrificanti – ma molto rivelatorie -, gaslighting sistematico, problemi strutturali di attendibilità – dovremmo forse dar retta a una casalinga suggestionata dal true-crime? Dove andremo a finire! -, uomini coglioni e foschi presagi, Grady Hendrix apparecchia una storia corale che batte un po’ sempre sugli stessi tasti ma che riesce a intrattenerci bene, insinuando il tarlo del sovrannaturale nella vita placida (e urbanamente meschina) del quartiere.

Peccato per James Harris – che dice poco e credo sia anche l’ipotetico mostro più noioso che mi sia capitato d’incontrare – ma un pollice su per l’abile stratificazione delle inquietudini e del senso di minaccia latente. L’indagine di Patricia non è degna della CIA, ma la dinamica dei personaggi fa il suo dovere e il fatto che le opinioni delle donne vengano sempre trattate con estrema condiscendenza e paternalismo fa arrabbiare, ma è anche il succo della questione.
Sì, qua e là c’è roba schifosa, macabra e splatter. Ma anche pulire la cameretta di un adolescente credo lo sia.

Guida al trattamento dei vampiri per casalinghe è uscito per Mondadori nella traduzione di Rosa Prencipe, ma si può ascoltare anche su Storytel – come ho fatto io. Per collaudare Storytel con un bel mese gratuito, qua c’è il solito link.
Se volete approfondire le imprese di Hendrix, di suo ho letto anche Horrorstör, una roba mattissima e dal taglio OH CHE PAURA ancor più calcato. Che succede? Tutta la vicenda è ambientata in un megastore di arredamento che molto ricorda un arcinoto colosso svedese. È una via di mezzo tra un’escape-room e una discesa agli inferi ma, in maniera ancor più spiccata, è una riflessione sul consumo, sul capitalismo e sul lavoro come forma di dannazione eterna. Fa ridere, mette angoscia, è una chicca di astuta stranezza.

Io a Scauri non ci sono mai stata, se non leggendo questo romanzo di Chiara Valerio – quindi vale e non vale come visita. In Chi dice e chi tace – in libreria per Sellerio, la città è un personaggio che parla con tante voci diverse, come una sorta di coscienza collettiva fatta di posti, punti di riferimento comunitari, orizzonti liquidi, radici e volontà di fuga, accordi antichi su come convenga stare al mondo e note di merito assegnate sul campo. Si tace quando la verità è palese, si parla quando la realtà dei fatti è fin troppo banale… perché qualcosa bisogna pur fare.
La mente collettiva di Scauri perde all’improvviso una cellula fondamentale: Vittoria, una che a Scauri non è nata ma che ha scelto di viverci “da grande”, senza spiegare a nessuno cosa c’era stato prima.
Vittoria galleggia nella vasca da bagno di casa sua, concretizzando l’idea di disgrazia casuale, di incidente stupido e crudele capitato a una donna che stupida non è mai sembrata a nessuno. Lea, avvocata che per vent’anni ha pensato di conoscerla, non si capacita di come a una persona così magnetica, generosa e lucente possa essere toccata una fine così assurda e repentina, così indegna di lei. E che fa? Indaga. Perché non può farne a meno.

Vittoria non è mai viva, nel libro. È sempre un riflesso, l’oggetto di un ricordo altrui, il pezzo dell’iceberg che affiora e che sceglie di essere visto in un certo modo. Chi dice e chi tace non sbroglia un mistero ritmicamente travolgente, ma è piuttosto un’indagine umana e assai pratica sulla perdita e sul dramma di non poter mai “accedere” davvero al nucleo reale delle persone che ci affascinano o che hanno in qualche modo contato qualcosa per noi. È una storia di asimmetrie informative sentimentali, di omissioni che permettono di immaginare un futuro anche se non è mai davvero possibile sganciare le zavorre del passato. Vittoria si sceglie una vita nuova e stabilisce accuratamente “cosa” essere per chi la incontrerà e la conoscerà da zero. Si amministra con abilità e dosando con cura gli ingredienti – lavora in farmacia, dopotutto… – ma nel ricrearsi non mente. Vittoria inventa un nuovo spazio in cui vivere e traccia i confini necessari a produrre la propria trasformazione.
Lea ripensa a Vittoria e le pare di non averla mai conosciuta, ma Vittoria le lascia di fatto l’eredità migliore. A Mara, la ragazza che ha sempre vissuto con lei e che poteva avere l’età di una figlia, toccheranno le cose, ma a Lea spetterà quello che non si è mai visto a Scauri. Che pretese possiamo imporre agli altri? Perché crediamo sempre che ci spetti la più completa sincerità? E perché, soprattutto, vogliamo esercitare questo potere di controllo anche su passati che non ci appartengono e non ci devono obbedienza? 

Non conosco abbastanza Chiara Valerio da poter immaginare le sue intenzioni – e gliele lascio perché ho imparato e di pretese non ne ho – ma a me è sembrato un romanzo in cui l’ho vista riposarsi, nel senso migliore. È tornata a casa a domandarsi delle cose, con calma e con l’irreparabile ormai successo. A casa propria si litiga con i disastri superati e il tempo ci aiuta a specchiarci con più indulgenza, anche se tantissime cose restano un mistero – come Vittoria.

Ho bisogno di servirmi di un potente stereotipo che mi risparmierà mille preamboli anche se l’uso stesso di uno stereotipo dovrebbe spingermi a dire che no, non dovremmo approcciarci alla realtà avvalendoci del mezzuccio dello stereotipo perché possiamo fare molto meglio di così e tutto questo discorso è di fatto un preambolo esasperante che spero mi aiuti a non farmi prendere a sassate MA bisogna dire che Janice Hallett – tradotta da Manuela Francescon per Einaudi Stile Libero – ha scelto di scrivere un giallo con una struttura atipica, una forma epistolare “moderna” e una quantità devastante di asimmetrie informative perché, sotto sotto, è alla nostra portinaia interiore che vuol parlare.

Credendomi saggia e illuminata ho spesso esclamato HALLETT A ME NON LA FAI, NON MI LASCERÒ IRRETIRE DA QUESTO IPERTROFICO INNO AL VOYEURISMO ma poi m’è anche venuta voglia di suonare tutti i campanelli per scovare il condomino che questa settimana non ha chiamato l’AMSA ma ha mollato in cortile vicino ai bidoni un trolley, due ventilatori industriali e una batteria di pentoloni. Quindi no, non mi credevo pettegola ma sono comunque sprofondata nell’abile trappola, trovando anche piuttosto liberatorio impicciarmi degli affari di questo manipolo di gente ben educata, ancor meglio intenzionata e irrimediabilmente disastrata.

Non spoilero, giuro. L’assassino è tra le righe gravita attorno a una compagnia di teatro amatoriale. La nipotina di 2 anni della coppia dei “fondatori” – che sono anche un po’ la Famiglia Alpha del microcosmo cittadino – va curata per una rara forma di tumore al cervello e bisogna raccogliere una barca di soldi per far arrivare delle medicine sperimentali, esosissime e miracolose dagli USA. Per buon vicinato e umana creanza, tutti si sbattono come matti in questa raccolta fondi che promette di salvare la vita alla piccola Polly e una persona ci lascia le penne. Chi è stato davvero? Il nostro punto di vista è quello di due tirocinanti di uno studio legale che ricevono man mano dal loro capo la documentazione processuale. Stanno preparando l’appello e la convinzione dello studio è che in galera non ci sia chi dovrebbe invece starci. Insomma, nulla è come appare e la vita della provincia inglese è un gran teatrino, uno spettacolo di certo migliore di quelli periodicamente messi in scena sotto l’autorevole supervisione dei coniugi Hayward.

Quello che ci ritroveremo a gestire insieme alle volenterose praticanti è un gran malloppo di e-mail,  messaggini e articoli che nel loro disordinato accumulo nascondono una verità dimostrabile. È divertente da leggere perché ci si sente al contempo più consci delle dinamiche “vere” del gruppo – negli scambi privati si svela spesso quello che a tutti non si può dire – ma anche estremamente azzoppati da una calibratissima opacità di fondo. Chi ci perde? Chi ci guadagna? Contano più i soldi o il prestigio sociale? Tra vergogna, rancore, opportunismo, manie di protagonismo, provincia asfittica e bugie bianche che diventano nerissime,
Hallett mette in scena – e con il fattore-teatro guadagna anche 1000 punti meta-narrativi – un godibile congegno investigativo che seguiremo con voracità, moti d’esasperazione e la sacrosanta indignazione che ogni Cittadino Rispettabile sente di dover periodicamente sfogare su Facebook… cosa che le portinaie professioniste non fanno, perché loro stanno lavorando sul serio.

Nota ulteriore, di non scarsa rilevanza: sì, c’è una soluzione. Hallett non vi congeda con un “e ora tocca a te scoprire chi è stato!”. Insomma, magari troverete altre motivazioni per scagliare il tomo contro al muro, ma dell’inconcludenza o dell’eccessiva interattività non servirà preoccuparsi.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

l tempo che impiegherete per pensarci su sarà incomparabilmente maggiore del tempo che vi occorrerà per leggere Una giuria di sole donne di Susan Glaspell – in libreria per Sellerio con la traduzione di Roberto Serrai e due bei contributi di Alicia Giménez-Bartlett e Gianfranca Balestra.
È un racconto uscito in origine nel 1917 – e che ha avuto anche un’emanazione teatrale – e recuperato poi dal un certo oblio a partire dagli anni Settanta, a sostegno dello slancio del dibattito femminista. Di che parla? Di un delitto e di un’indagine insolita e assai innovativa per l’epoca di riferimento – e forse anche per la nostra.

Un uomo viene ritrovato morto in una casa isolata. La moglie viene arrestata e altre due donne approdano sulla scena del crimine per prepararle un valigino con l’occorrente per il “soggiorno” in cella in attesa del giudizio. Sono la moglie dello sceriffo e del fattore che ha scoperto il delitto e arrivano in questa casa silenziosa, mesta e cupa insieme a un folto gruppo di inquirenti (maschi) che cercano di far luce sul mistero. Le donne vengono lasciate in cucina (dove tutto sommato ci si aspetta che stiano, visto che quello è il loro posto) mentre gli uomini si aggirano per casa in cerca di indizi, girando fondamentalmente a vuoto mentre le signore, analizzando i dettagli minuti in cui si imbattono, sbrogliano la matassa.

Mentre gli investigatori le trattano con condiscendenza – schernendo anche apertamente la loro “condizione” e non ritenendole neanche per un istante interlocutrici valide -, le signore risolvono il caso per immedesimazione, potremmo dire. Da una stufa crepata, delle conserve, un tavolo pulito a metà e un cestino del cucito ricavano un quadro della situazione che restituisce peso ai gesti minuti della quotidianità femminile e mostra, al contempo, quanto sia piccolo il mondo in cui l’indagata – come loro – è costretta a muoversi e quanto possa essere sterminata la solitudine che ci si insinua dentro.
Gli uomini non solo non ritengono la cucina degna di approfondimenti, ma nemmeno sarebbero in grado di leggere gli indizi come invece fanno in maniera lampante le due signore. E non solo risolvono il caso, ma prendono anche una decisione che spalanca un altro grande spazio grigio – quello che separa, a volte, la legge dalla giustizia.

Cosa ce ne facciamo della legge se i presupposti di base da cui partiamo per amministrare la giustizia sono fallati, sbilanciati e iniqui? In una cucina, unico spazio che possono governare e che parallelamente è la loro gabbia, le due signore allestiscono spontaneamente l’unica giuria equa alla quale la reclusa potrebbe ambire: quella delle sue pari, che la vedono, la sentono, la “conoscono”, perché il peso che portano è lo stesso. E i maschi non lo vedono – e non lo capirebbero.
È da leggere tenendo presente che è stato scritto nel 1917? Chiaro. È un racconto che continua a parlarci? Sì, anche se non so quanto rallegrarmene.