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Ho bisogno di servirmi di un potente stereotipo che mi risparmierà mille preamboli anche se l’uso stesso di uno stereotipo dovrebbe spingermi a dire che no, non dovremmo approcciarci alla realtà avvalendoci del mezzuccio dello stereotipo perché possiamo fare molto meglio di così e tutto questo discorso è di fatto un preambolo esasperante che spero mi aiuti a non farmi prendere a sassate MA bisogna dire che Janice Hallett – tradotta da Manuela Francescon per Einaudi Stile Libero – ha scelto di scrivere un giallo con una struttura atipica, una forma epistolare “moderna” e una quantità devastante di asimmetrie informative perché, sotto sotto, è alla nostra portinaia interiore che vuol parlare.

Credendomi saggia e illuminata ho spesso esclamato HALLETT A ME NON LA FAI, NON MI LASCERÒ IRRETIRE DA QUESTO IPERTROFICO INNO AL VOYEURISMO ma poi m’è anche venuta voglia di suonare tutti i campanelli per scovare il condomino che questa settimana non ha chiamato l’AMSA ma ha mollato in cortile vicino ai bidoni un trolley, due ventilatori industriali e una batteria di pentoloni. Quindi no, non mi credevo pettegola ma sono comunque sprofondata nell’abile trappola, trovando anche piuttosto liberatorio impicciarmi degli affari di questo manipolo di gente ben educata, ancor meglio intenzionata e irrimediabilmente disastrata.

Non spoilero, giuro. L’assassino è tra le righe gravita attorno a una compagnia di teatro amatoriale. La nipotina di 2 anni della coppia dei “fondatori” – che sono anche un po’ la Famiglia Alpha del microcosmo cittadino – va curata per una rara forma di tumore al cervello e bisogna raccogliere una barca di soldi per far arrivare delle medicine sperimentali, esosissime e miracolose dagli USA. Per buon vicinato e umana creanza, tutti si sbattono come matti in questa raccolta fondi che promette di salvare la vita alla piccola Polly e una persona ci lascia le penne. Chi è stato davvero? Il nostro punto di vista è quello di due tirocinanti di uno studio legale che ricevono man mano dal loro capo la documentazione processuale. Stanno preparando l’appello e la convinzione dello studio è che in galera non ci sia chi dovrebbe invece starci. Insomma, nulla è come appare e la vita della provincia inglese è un gran teatrino, uno spettacolo di certo migliore di quelli periodicamente messi in scena sotto l’autorevole supervisione dei coniugi Hayward.

Quello che ci ritroveremo a gestire insieme alle volenterose praticanti è un gran malloppo di e-mail,  messaggini e articoli che nel loro disordinato accumulo nascondono una verità dimostrabile. È divertente da leggere perché ci si sente al contempo più consci delle dinamiche “vere” del gruppo – negli scambi privati si svela spesso quello che a tutti non si può dire – ma anche estremamente azzoppati da una calibratissima opacità di fondo. Chi ci perde? Chi ci guadagna? Contano più i soldi o il prestigio sociale? Tra vergogna, rancore, opportunismo, manie di protagonismo, provincia asfittica e bugie bianche che diventano nerissime,
Hallett mette in scena – e con il fattore-teatro guadagna anche 1000 punti meta-narrativi – un godibile congegno investigativo che seguiremo con voracità, moti d’esasperazione e la sacrosanta indignazione che ogni Cittadino Rispettabile sente di dover periodicamente sfogare su Facebook… cosa che le portinaie professioniste non fanno, perché loro stanno lavorando sul serio.

Nota ulteriore, di non scarsa rilevanza: sì, c’è una soluzione. Hallett non vi congeda con un “e ora tocca a te scoprire chi è stato!”. Insomma, magari troverete altre motivazioni per scagliare il tomo contro al muro, ma dell’inconcludenza o dell’eccessiva interattività non servirà preoccuparsi.

Una bambina di suppergiù 9 mesi viene abbandonata in un giorno d’estate del 1965 nel parco di Villa Borghese. Qualche giorno più tardi, il Tevere restituirà i corpi dell’uomo e della donna che l’hanno lasciata lì, “alla compassione di tutti”, come si leggerà nella lettera di commiato – che molto somiglia in realtà a una dichiarazione d’intenti o alla denuncia di un torto sistemico – recapitata per posta al quotidiano L’Unità. Quella bambina era – ed è ancora – Maria Grazia Calandrone. E Dove non mi hai portata – in libreria per Einaudi – è la storia dei suoi genitori, così come le è stato possibile ricostruirla, immaginarla e ripercorrerla grazie a “dati”, testimonianze, ritorni sulle scene del distacco da lei e dal mondo, dalla vita.

Chi era Lucia, la madre? Che vita può essere stata quella di una donna (ancora giovanissima) che sceglie di morire dopo aver creduto profondamente in un amore giudicato inammissibile? Chi si è lasciata alle spalle in Molise, a Palata? E chi era Giuseppe, l’uomo che le ha donato una parentesi di felicità?
Calandrone parte alla riscoperta di quelle radici che non le è stato permesso di conoscere per contatto ed esperienza diretta, ma che eredita per sangue e per caparbia volontà di restituire voce a due persone che avrebbe forse ogni diritto di dimenticare, allontanare e lasciare sepolte. In un libro che a tratti somiglia a un’indagine poliziesca e per tantissimi altri versi a un romanzo di formazione ingiustissimo, Calandrone mescola i piani temporali, le case infestate dagli spiriti della famiglia che non ha mai conosciuto e il cuore della donna adulta che è diventata per tessere un ritratto toccante e “corretto” di Lucia, per “vendicarla”, in un certo senso.

La lingua di Calandrone è tanto varia quante sono le anime di questo libro. Dal lirico al clinico, dal diaristico al debunking meticoloso (o poco ci manca) della cronaca scandalistica di quei giorni cruciali, la scrittura fa da tramite tra i vivi e la scelta drastica di due morti che nel giudicare conclusa la loro parabola si sono rifiutati di abbandonare completamente la speranza. Lucia e Giuseppe hanno sì abbandonato la loro bambina, ma quel che Maria Grazia “grande” ha deciso di vederci – dopo aver riattraversato il suo e il loro dolore – è qualcosa di lontanissimo dalla resa ma, anzi, un passaggio di testimone, l’idea istintiva che l’amore non vada mai sprecato e meriti protezione. A chi dovesse passare, questo testimone, è dipeso da passaggi meno casuali di quanto si sarebbe potuto sospettare lì per lì. Ed è a questo paradossale ultimo atto di cura che Calandrone cerca di ridare espressione.
È un libro incredibile perché già la vicenda biografica di base si colloca in quell’ordine di improbabilità – e squarcia un velo su un nostro fin troppo recente passato di iniquità, vergognose tirannie e quadri socio-economici desolanti. Ma è soprattutto una prova di forza gigantesca, una sorta di risarcimento, un messaggio che mai arriverà a destinazione ma che merita di stare insieme a noi nel mondo.

l tempo che impiegherete per pensarci su sarà incomparabilmente maggiore del tempo che vi occorrerà per leggere Una giuria di sole donne di Susan Glaspell – in libreria per Sellerio con la traduzione di Roberto Serrai e due bei contributi di Alicia Giménez-Bartlett e Gianfranca Balestra.
È un racconto uscito in origine nel 1917 – e che ha avuto anche un’emanazione teatrale – e recuperato poi dal un certo oblio a partire dagli anni Settanta, a sostegno dello slancio del dibattito femminista. Di che parla? Di un delitto e di un’indagine insolita e assai innovativa per l’epoca di riferimento – e forse anche per la nostra.

Un uomo viene ritrovato morto in una casa isolata. La moglie viene arrestata e altre due donne approdano sulla scena del crimine per prepararle un valigino con l’occorrente per il “soggiorno” in cella in attesa del giudizio. Sono la moglie dello sceriffo e del fattore che ha scoperto il delitto e arrivano in questa casa silenziosa, mesta e cupa insieme a un folto gruppo di inquirenti (maschi) che cercano di far luce sul mistero. Le donne vengono lasciate in cucina (dove tutto sommato ci si aspetta che stiano, visto che quello è il loro posto) mentre gli uomini si aggirano per casa in cerca di indizi, girando fondamentalmente a vuoto mentre le signore, analizzando i dettagli minuti in cui si imbattono, sbrogliano la matassa.

Mentre gli investigatori le trattano con condiscendenza – schernendo anche apertamente la loro “condizione” e non ritenendole neanche per un istante interlocutrici valide -, le signore risolvono il caso per immedesimazione, potremmo dire. Da una stufa crepata, delle conserve, un tavolo pulito a metà e un cestino del cucito ricavano un quadro della situazione che restituisce peso ai gesti minuti della quotidianità femminile e mostra, al contempo, quanto sia piccolo il mondo in cui l’indagata – come loro – è costretta a muoversi e quanto possa essere sterminata la solitudine che ci si insinua dentro.
Gli uomini non solo non ritengono la cucina degna di approfondimenti, ma nemmeno sarebbero in grado di leggere gli indizi come invece fanno in maniera lampante le due signore. E non solo risolvono il caso, ma prendono anche una decisione che spalanca un altro grande spazio grigio – quello che separa, a volte, la legge dalla giustizia.

Cosa ce ne facciamo della legge se i presupposti di base da cui partiamo per amministrare la giustizia sono fallati, sbilanciati e iniqui? In una cucina, unico spazio che possono governare e che parallelamente è la loro gabbia, le due signore allestiscono spontaneamente l’unica giuria equa alla quale la reclusa potrebbe ambire: quella delle sue pari, che la vedono, la sentono, la “conoscono”, perché il peso che portano è lo stesso. E i maschi non lo vedono – e non lo capirebbero.
È da leggere tenendo presente che è stato scritto nel 1917? Chiaro. È un racconto che continua a parlarci? Sì, anche se non so quanto rallegrarmene.