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Il profilo dell’altra

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Ero quasi certissima che Il profilo dell’altra – il romanzo d’esordio di Irene Graziosi uscito per E/O – non fosse un pacco, ma data la mia indole solare e fiduciosa ho comunque tirato un appagante sospirone di sollievo. È andata bene, è un bel libro. E ne potremmo discutere per una settimana, perché è anche una di quelle storie stratificate e cangianti che contengono una marea assai poco placida di temi “vicini”, veri e nostri. Mi son sembrati fin troppi, ogni tanto, ma la scrittura ha quell’elasticità naturale che scongiura l’artefatto e il legnoso… e regge, tenendo insieme tutto. Ma di che parla? Di specchi, credo. E di scoprire chi siamo, indipendentemente dal riflesso che ci restituiscono gli altri o da quanto ci piaccia quel che vediamo.

La nostra narratrice è impantanata in un presente che non lascia spazio d’immaginazione concreta di un qualsiasi futuro. Dovrebbe andare avanti a studiare, ma dopo la morte della sorella si è trasferita da Parigi a Milano al seguito del suo ragazzo e, di base, sta sul divano a guardare Law&Order.
Per una serie di millanterie sfacciatissime e di incroci fortuiti che nemmeno lei sa se augurarsi o no, si ritrova assunta come “assistente” e grillo parlante di Gloria, influencer diciottenne dotata di una fanbase sterminata e di argomenti inesistenti. Maia accetta il lavoro con l’intenzione nemmeno troppo velata di fallire ma, un po’ per sfida e un po’ per sincera curiosità antropologica, si ritrova a orbitare stabilmente nella vita della sua protetta e, in parallelo al personaggio “pubblico” che tutti credono di conoscere, parte alla ricerca del nucleo reale di questa ragazza che appare spensieratamente vuota, fortunatissima e legittimo approdo dell’invidia generale. Chi è Gloria? E chi siamo noi che la seguiamo? Quanto solido e autentico sarà davvero il castello di carte che ha costruito?

C’è molta carne al fuoco e uno degli aspetti migliori, secondo me, è il tentativo di rappresentare in maniera credibile il paesaggio relazionale in cui siamo immersi. Quel parallelo di difficile gestione tra persona pubblica e privata, tra identità che si adattano ai contesti e ricerca autentica del nostro centro, al di là di come scegliamo di mostrarci. È una questione che appartiene intrinsecamente al crescere, credo, ma i tanti posti nuovi in cui il processo può oggi essere narrato, allestito e spettacolarizzato la rende un po’ più complicata che in passato. Non si sconfina nei due possibili estremi “facili” dell’“anche le influencer piangono” VS “IO PENZO KON LA MIA TESTA KE VADANO A ZAPPARE LA TERRA KUESTE MIRAKOLATE!!1!!1”… per me ci è anche andata giù leggera nel descrivere le molte possibili brutture del dietro le quinte delle dinamiche social-commerciali ma, pur non trovandoci niente di sconvolgente, è un quadro realistico. Il nodo vero non sta nemmeno troppo lì, probabilmente. È di margini di libertà che si parla. Di quanto “costa” scegliere di esserlo davvero. Di quanto siamo disposti ad accettare la compagnia costante di chi siamo quando nessuno ci guarda. Chi è il ventriloquo e chi è il pupazzo, tra Maia e Gloria? E, soprattutto, con che voce abbiamo deciso di parlare noi?