Tag

green

Browsing

Che rapporto avete con la spiritualità e il misticismo?
La compagnia è essenziale al vostro benessere?
Trovate che gli strumenti tecnologici a nostra disposizione siano, in fin dei conti, solo degli attrezzi o vi sentite in qualche modo modificati dalle possibilità di connessione perpetua del modernissimo mondo che abitiamo?
Cosa v’aspettate di trovare quando andate in albergo?
Cosa v’aspettate dalle vacanze, pure?

Ho deciso d’esordire con un po’ di domande (con implicita ammissione d’ignoranza sul contenuto dei vostri cuori e forse anche del mio) perché il posto in cui ho trascorso un paio di giorni – rispondendo volentieri e con grande curiosità a un cortese invito – è complicato da classificare e potrebbe risultare comunicabile (o “vendibile”, se vogliamo) in molti modi.
Corri qui a fare digital detox! Vieni da noi a ritrovare te stesso! Lasciati conquistare dalla natura incontaminata! Riscopri i grandi insegnamenti della tradizione monastica! Nutri le tue membra con tantissima verdura! Il lusso della lentezza! Il potere trasformativo del silenzio!
Ciascuno di questi “ganci” potrebbe produrre una galassia di cronache più o meno orientate a corroborare un impianto filosofico o una determinata visione dell’universo e a me, in tutta franchezza, non interessa. Sarei più che in grado di vestire il mio racconto optando per una di questa potenziali premesse, ma lo troverei poco onesto e utile, se si tratta di parlare di un luogo così cangiante e insolito. Perché sì, una roba che mi pare d’aver capito è che un posto simile si presta ad essere riempito con le risposte che siamo capaci di trovare. L’esperienza individuale, che già per definizione è estremamente specifica, è quella che qui finisce per espandersi e comprendere tutto quanto, dall’opinione che possiamo farci degli asciugamani a come ci sentiamo quando ripartiamo. L’esperienza “nostra” si dilata così tanto perché diventa quasi l’unica componente dell’esperienza complessiva: si galleggia in uno spazio ingegnerizzato per ridursi al minimo e “abbandonare” benevolmente chi c’è alle proprie risorse. Mia suocera, quando le ho spiegato dove stavo per passare un paio di giorni, ha commentato con un lapidario “io mi sparerei”, mentre mio marito temeva che volessi scappare di casa per unirmi a una setta. Ebbene, non sono incappata in una miracolosa conversione, non mi sono sparata e non mi sento particolarmente più illuminata di prima, ma posso dire di aver prosperato, a modo mio. Tutto questo panegirico per rispondere con un “dipende da te” alla seguente domanda campale: insomma, ma com’è l’Eremito?

Esordirei con una video-panoramica, che ci aiuta a livello atmosferico, e vi lascio leggere il resto di seguito.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Francesca Crescentini (@tegamini)


Un minimo di coordinate. L’Eremito è un ibrido tra un hotel e un eremo “moderno”. È in Umbria, vicino a Fabbro, e accoglie visitatori da ormai una decina d’anni. Marcello Murzilli, dopo aver gestito un fortunatissimo marchio di abbigliamento negli anni Novanta e aver aperto un hotel matto in Messico composto al 100% da palafitte – fatevi raccontare la storia, se vi capita – si è messo a vagare per il centro Italia alla ricerca di un luogo isolato ma non impensabile da raggiungere per sperimentare un’idea di ospitalità alternativa. Ha trovato dei ruderi in mezzo alle colline – e a una tenuta che ora è tutelata dall’Unesco – e ha costruito quello che oggi è l’Eremito, badando all’efficienza/autonomia energetica della struttura – sforzi recentemente premiati dall’ambito bollino B-Corp – e ricalcando il modello dei monasteri e degli eremi che fanno indissolubilmente parte del patrimonio cultural-architettonico umbro.
Nella pratica? Funziona così.

Si dorme nelle celluzze e ogni celluzza prende il nome da un santo. Io dormivo da San Benedetto, quindi mi son sentita importantissima. Minimalismo? Parecchio. Un letto a una piazza e mezza, uno scrittoio  col suo sedilino di pietra davanti alla finestra, il lavandino – con brocchetta e bicchiere per bere l’acqua del rubinetto – e un piccolo bagno con la doccia. Stop.

Il fatto che il telefono prenda molto poco fa parte del pacchetto e non c’è nessuna password del wi-fi da chiedere in reception. Chi arriva è invitato a spogliarsi dall’abitudine alla connessione perpetua, così come è scoraggiata la caciara negli spazi comuni. Nessuno vi molla un manrovescio o vi sgrida, se andate in giro col telefono o se vi ritirate sotto la pergola per chiamare i vostri figli, ma tanti degli automatismi che finiamo per sviluppare quando c’è segnale finiscono per atrofizzarsi in maniera piuttosto naturale, quando il segnale non c’è quasi da nessuna parte. Cosa le apri a fare le tue solite 35 app se le app non caricano niente di nuovo? È probabilissimo che tanti visitatori o visitatrici dell’Eremito scelgano di approdarci proprio per esigenze di “disintossicazione” digitale e, tra le contingenze pratiche e l’atmosfera complessiva, il contesto può certamente aiutare. Io, che facevo fotografie anche nell’epoca precedente all’avvento di Internet e che ho la consolidata abitudine di costruire un archivio visivo delle mie esperienze – postandone online uno scarso 2%, nonostante uno dei mestieri che svolgo – ho usato il telefono come un puro attrezzo. Fai le foto e i video, telefono? Benissimo, continua ad assistermi in questo modo, sarà più che sufficiente.

Mi son data della stupida per la pigrizia accumulata negli anni, però, perché mi sarei sentita molto più a mio agio e più rispondente alle usanze codificate della comunità dell’Eremito con una macchina fotografica in mano, ma pazienza. Per me attrezzo puro è stato e l’obiettivo di scacciare per un paio di giorni i tarli da feed da alimentare, contenuti da produrre, spunti da sfornare e brief da interpretare è stato felicemente raggiunto. Mi sono chiesta, però, quanto ignorare gli eventi del mondo per badare unicamente alla propria interiorità possa configurarsi come condizione totalmente auspicabile. Ma non tanto perché quello che produco io abbia il potere di virare le sorti del mondo, ma proprio perché associo l’informazione – quello che già filtro e che per me “conta”, facendo del mio meglio per separarla dal rumore di fondo irrilevante – alla possibilità di aumentare la mia consapevolezza. L’universo può fare a meno del mio flusso in uscita, insomma, ma estromettersi da quegli stimoli in entrata che possono attenuare la nostra ignoranza mi pare un lusso che anche sul breve termine è un po’ problematico concedersi. Già ci si sente inermi – o poco utili e  poco capaci di incidere sulla realtà -, non lo si diventa ancora di più se non si sa che succede e non si prova a decifrarlo? Non sono una creatura che gestisce con disinvoltura gli estremi, forse. O probabilmente mi son sentita in colpa per aver dormito fino alle dieci e mezza in un giorno infrasettimanale, per aver preso ferie, per aver avuto bisogno di riposarmi, chi può dirlo. O forse la radice del logoramento che percepisco nella quotidianità dipende meno dai flussi informativi ma più dal flusso delle incombenze “pratiche” dell’impalcatura domestica e dalla volgarissima necessità di dedicarmi a un impiego, anche. Ci penserò su, che le parentesi di distacco dal tran tran servono anche a quello.

Come si mangia? Bene. E anche parecchio, devo dire – tre portate e dolce. Cucina solo vegetariana, con materie prime ricavate dall’orto dell’Eremito o provenienti dai dintorni. Si mangia tutti insieme nel refettorio – e ci torniamo – o all’aperto sotto al pergolato. Come recita anche una funzionale lavagnetta, si mangia “quello che passa il convento”. Non c’è niente da scegliere, vi sedete e vi pigliate quello che arriva e non c’è nessuno che vi prepara un gin tonic, se ne sentite la necessità. A pranzo si discorre e l’atmosfera è convivialissima, mentre a cena bisogna rispettare il silenzio. Vi suonano una campanella, v’andate a prendere il vostro tovagliolo e vi sedete nel refettorio a lume di candela. Ecco, la cena è l’unico frangente in cui possono richiamarvi con affabile fermezza se vi mettete a chiacchierare e non ho nemmeno osato tirare fuori un libro – non si può, tecnicamente -, ma è di certo un’esperienza suggestiva. Sì, il vino c’è.

Che si può fare? Niente, tenderei a rivelarvi candidamente. E per fortuna.
A parte una sessione di yoga la mattina e dei momenti di lettura – totalmente facoltativi ed estremamente trasversali –  in una piccola cappella non ci sono animatori che vi iscrivono d’ufficio alla gara di canoa e non ci sono attività “organizzate”. Volete passeggiare? Dall’Eremito si snodano numerosi sentieri che possono condurvi in selve amene – io sono arrivata con successo al fiume, ascoltando i cinguettii più disparati -, nel vicino borgo di Parrano o ai ruderi che punteggiano la tenuta. Volete stare immobili? Sceglietevi un cantuccio e insediatevi dove preferite. Io, passeggiata a parte, ho letto, ho studiato, ho dormito, ho mangiato. E sono rimasta anche a mollo nel vascone riscaldato della piccola spa. C’è un bagno turco e c’è questa sorta di stanza di pietra col soffitto a volta e la vasca. Si va in reception a “prenotare” il proprio tempo alla spa, così non si incrocia mai nessuno e si fluttua in pace.

Che cos’ho trovato? L’illuminazione no, ma un momento di solitudine che mi ha fatto bene. Uno spicchio di tempo in cui dar retta solo al mio ritmo e una bolla di silenzio – a parte i caprioli che abbaiano nel bosco, ciao bestioline! – in cui spero di non aver russato troppo forte. L’Eremito ha indubbiamente qualcosa di speciale, penso. Possiamo attribuire meriti al panorama, alla ritualità accennata dei momenti comunitari, alla tipologia decisamente insolita della sistemazione, al fuoco la sera, alle storie che possono raccontarti gli altri, allo spazio che ti crea attorno mentre vai a zonzo – sentendoti più ospite della natura circostante che di una struttura ricettiva. Ci si mimetizza e si assorbe il ritmo caparbio di quello che cresce, molto adagio, da tutte le parti. Ogni “vacanza” ci decontestualizza e ci mette nelle condizioni di scoprire qualcosa di noi mentre esploriamo un qualche altrove, penso. Qua, l’altrove da esplorare sta più dentro che fuori da noi. E non è male, qua e là, imparare di nuovo a farsi compagnia.  

 

Ogni volta che mi imbatto in un progetto che riguarda la sostenibilità mi sento automaticamente in colpa: quanto può dirsi “sostenibile” la mia gestione domestica? Quanto sono responsabili le mie scelte di consumo? Che cosa posso fare per diminuire la forbice tra quello che potrei fare e quello che effettivamente faccio? Non sono domande da poco e il tema merita una riflessione – sia individuale che collettiva. Ben sapendo di essere lontana anni luce dall’ottimo, mi destreggio caparbiamente nel vasto regno della raccolta differenziata e cerco di orientarmi verso acquisti più ponderati, accogliendo anche con grande interesse le iniziative che possono contribuire a ridurre la mia ignoranza e, allo stesso tempo, a diffondere un messaggio incoraggiante e innovativo.
Perché quando i domandoni che possiamo porci individualmente se li fa anche una grande azienda in possesso di leve significative, un pezzettino di consapevolezza in più può balenare all’orizzonte. E mi piace parlarne, perché anche quello è un buon modo per attivarsi.

Autogrill si arrovella da un po’ sulla questione, all’interno di una strategia di innovazione che cerca di privilegiare la cultura del riutilizzo e di ridurre l’impatto del gruppo sull’ambiente. Lo sforzo sarebbe apprezzabile già solo a livello teorico, ma diventa un segnale ancor più positivo se trasportato sul piano delle dinamiche concrete. Autogrill ha individuato, in poche parole, una “materia prima” simbolica e rilevante (anche in termini di volumi) e ha cercato di darle una nuova vita. Ogni anno, in Italia, Autogrill serve più di 100 milioni di caffè. Perché non trasformare questo tassello fondamentale dell’offerta dell’azienda in un esperimento virtuoso?

Con il supporto di CMF Greentech, Autogrill ha deciso di riutilizzare i fondi degli innumerevoli caffè serviti nei suoi punti vendita – tra cui quello del Puro Gusto di Milano Linate che abbiamo visitato per farci ben raccontare tutta la storia – per inventare WASCOFFEE®, un nuovo materiale “da costruzione”, naturale al 100% e già pronto a trasformarsi in tavoli, banconi, pannellature e arredi per tanti locali Puro Gusto e Bistrot in Italia e in Europa – locali dove si mangia pure bene. Posso testimoniarlo, nel caso non bastasse la benedizione del Gambero Rosso (che ha selezionato parte delle specialità di cui potrete nutrirvi) o il caffè tostato quotidianamente sul posto.

Ma non divaghiamo, che col cibo è un attimo.

Bello WASCOFFEE®, bravoni. Ma che succederà in futuro?
Autogrill si sta impegnando per ampliare il progetto e per rendere gli arredi “di caffè” disponibili nei suoi punti vendita. Ma, cosa ancora più incoraggiante, si sta anche industriando verso nuovi obiettivi, sempre in ottica di riciclo e di riutilizzo intelligente di altri materiali di scarto. L’idea è sempre quella di far incontrare il concetto di sostenibilità con i processi reali di gestione operativa, partendo da quello che c’è e si fa per arrivare a un miglioramento concreto dell’impronta che il gruppo lascia sull’ambiente. Sperando, anche, di poter essere d’ispirazione. Un po’ come Bernulia, che abbiamo visto in azione in un live-painting di rara meraviglia, tutto a base di caffè.

 

Da orgogliosa proprietaria di ben due alberi di mango, sono molto contenta di tornare ad occuparmi di Treedom. Per chi si fosse perso le puntate precedenti, Treedom è una piattaforma che permette a tutti di finanziare la nascita e la crescita di piante di ogni genere in ben quattro continenti, a sostegno delle popolazioni locali (che si prendono cura di tutti questi spavaldi vegetali e ne beneficiano a livello economico e “materiale”) e del benessere del pianeta. Perché sì, anche due manghi in più possono fare la differenza. E scusate se è poco.
Ma perché siamo qui.
Gli alberi di Treedom, come è giusto, si possono anche regalare e, in occasione del SANTO NATALE, la faccenda si è fatta ancor più seria. Anzi, realistica. Mentre grandi e piccini di ogni latitudine si ostinano a diffondere il mito di un anziano signore obeso che ti entra in soggiorno passando per una canna fumaria, Treedom ha scelto la concretezza, portandoci a fare un giro in uno dei suoi vivai più rigogliosi. Il domandone è semplice: che cosa succede quando scegliamo un alberino di Treedom? Succede che in Kenya c’è una persona vera che lo pianta e che, giorno per giorno, lo aiuta a diventare alto sei metri.

dsc00236

Se anche voi, travolti dalla necessità di donare o di donarvi un vegetale, volete fare un giro in Kenya e scoprire i primi passi di un alberino di Treedom, potete dare un occhio qui: troverete delle nuove piante e potrete accedere spavaldamente al vivaio con una serie di video 360° assolutamente adorabili e assai didattici.
Che cosa si può piantare questo Natale? Alberini di mango (il mango non manca mai, grande festa per il mango), guava, avocado (se vi sentite fashion blogger e/o avete fashion blogger a cui regalare qualcosa da mettere su Instagram) e markhamia. I primi tre sono alberi da frutto, mentre la markhamia è un albero utile: serve a fare ombra alle altre colture. E ha dei bellissimi fiori gialli. Come faccio a saperlo? Me l’ha raccontato il ragazzone con la salopette mentre giravo su me stessa con un visore sulla faccia.

Direi che sapete tutto. Industriatevi e andate a piantare i vostri alberini. Anzi, inalberatevi… ma in senso buono, per una volta.